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    La Cina in Africa non porta solo commercio, ma anche armi. Tante armi

    Il presidente cinese Xi Jinping con alcuni leader africani durante il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa. Credit: AFP/Getty Images
    Di Timothy Dissegna
    Pubblicato il 29 Apr. 2019 alle 14:46 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:47

    Integrazione dei mercati e aiuti allo sviluppo non sono gli unici temi toccati nei numerosi summit tra la Cina e i suoi partner africani. Tra i diversi problemi che affliggono il Continente Nero, infatti, c’è anche quello della precarietà della pace o della sua assenza più totale.

    Nell’ottica di affrontare questa tematica, nell’estate dell’anno scorso si è tenuto il primo China-Africa Defense and Security Forum (CADS) a Pechino: è stata l’occasione per ufficializzare la presenza non solo economica ma anche militare della Repubblica Popolare (RPC) in quel contesto, nuovo capitolo di una politica estera sinica in continua espansione.

    Alle parole sono stati accostati ovviamente segni tangibili, come i 100 milioni di dollari per finanziare l’African Standby Force (ASF) e l’African Capacity for Immediate Response to Crisis (ACIRC).

    Gli interessi di Pechino nella questione sicurezza sono molto più vicini a quelli europei di quanto non si pensi. Anche la Cina, infatti, non è immune al terrorismo islamista, come dimostrano i problemi interni nella regione dello Xinjiang con la minoranza turcofona e musulmana degli Uiguri.

    L’Esercito Popolare di Liberazione non vanta però grande esperienza in tecniche anti-terrorismo e, anzi, dallo scoppio della guerra contro l’India nel 1962 è stato ben poco impiegato all’estero.

    Proprio per sopperire a questo gap con altri Stati – e in ottica di una possibile escalation militare nel Pacifico – la RPC ha incrementato la propria presenza nelle missioni di peace-keeping delle Nazioni Unite e anti-pirateria al largo delle coste somale. Ad oggi, le sue truppe operano in Mali, Repubblica Democratica del Congo, Liberia e Sud Sudan per un totale di 2.500 uomini.

    Non a caso la sua prima base all’estero sorge proprio in Africa, a Gibuti. Nell’ex colonia francese trovano sede anche diversi altri contingenti, tra cui quello americano, giapponese, francese e italiano. La posizione è assai strategica per monitorare una delle più grandi arterie del mare al mondo, passaggio obbligato per arrivare allo stretto di Suez e quindi nel Mediterraneo – e viceversa. Qui uno dei pericoli più grandi è la pirateria, riemersa negli ultimi anni dopo un periodo di apparente stagnazione, a cui la comunità internazionale ha dichiarato guerra.

    Non bisogna però dimenticare che su entrambe le sponde del Golfo di Aden imperversano le violenze: a nord, nella guerra civile yemenita; a sud, nei continui attacchi di al Shabaab in Somalia e le risposte della missione dell’Unione Africana (UA) AMISOM e dei droni statunitensi. In nessuno dei due casi il Dragone è coinvolto direttamente, mentre partecipa all’attività navale nel mezzo.

    Proprio quest’ultima rappresenta un’ottima “palestra” per eventuali, futuri scontri oceanici, oltre che essere vitale per la tutela immediata dei propri interessi economici. Portare le proprie armi nel continente, inoltre, potrebbe rappresentare un ulteriore sbocco economico. Esso non andrebbe per forza a riguardare solo acquirenti “istituzionali”, ma anche altri soggetti: nella storia cinese recente, infatti, il business ha avuto la precedenza su ogni altro aspetto, tanto da arrivare a sostenere, seppur segretamente, i Talebani anche dopo l’11 settembre 2001.

    Ciò è “merito” anche dell’appeal dei propri armamenti, dal prezzo nettamente inferiore rispetto alla concorrenza e ormai in dotazione a due terzi dei Paesi africani (dati 2015 dell’International Institute for Strategic Studies).

    Storicamente, i governi cinesi hanno avuto un atteggiamento molto ambiguo sulle alleanze politiche in Africa, ponendo gli affari davanti a tutto. Lo dimostrano le stime di alcuni analisti, citate da uno studio dell’Istituto di Studi Politici “San Pio V” di Roma, per cui nel triennio 1998-2000 Pechino avrebbe venduto armi per 1 miliardo di dollari sia all’Eritrea che all’Etiopia, all’epoca al culmine della loro guerra.

    Nonostante questo, le istituzioni locali fanno buon viso alle avance orientali: “L’Unione Africana – ha scritto il Commissario per Pace e Sicurezza dell’UA, Smail Chergui, nel suo discorso per un incontro sul tema ad Addis Abeba, a inizio febbraio – considera la Cina un partner esemplare, e non è passato inosservato che, dall’inizio degli anni Novanta, l’Africa è sempre stata il luogo della prima visita all’estero del ministro degli Esteri cinese”.

    I prodotti offerti sono peraltro molteplici e non si limitano alla fanteria leggera. I dati del registro delle armi convenzionali delle Nazioni Unite UNroca parlano infatti di: carri armati VT4, veicoli corazzati GL-5, aviojet JF-17 Thunder e soprattutto droni, tanto che perfino l’Arabia Saudita si sarebbe rivolta a Pechino per la costruzione della propria flotta.

    Alle armi fisiche si aggiungono pure quelle cyber, su cui la RPC è l’esperta mondiale, fornendo consulenze ai vari governi su come attuare politiche di controllo online.

    Come si evolverà questa politica? Molto probabilmente seguirà la direttrice del più collaudato Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC), l’annuale vertice tra Cina e Paesi africani in cui si decidono le direttrici della cooperazione economica bilaterale. Come per quest’ultimo, inoltre, il governo di Xi Jinping sarà disposto a trattare solo con gli Stati che condividono la One-China Policy, ossia disconoscendo Taiwan a favore di Pechino: ormai quasi tutti quelli africani hanno rotto le proprie relazioni con Taipei, eccetto lo eSwaitini, e già al primo appuntamento del CADS hanno partecipato 50 partner su 54 totali, inclusa una rappresentanza dell’UA.

    Gli Stati Uniti hanno già espresso la loro contrarietà a un aumento dell’influenza locale cinese, soprattutto dopo aver appreso che la seconda base all’estero sinica potrebbe aprire nel porto atlantico di Walvis Bay, in Namibia.

    È un progetto di cui si parla dal 2015, ma che ha ripreso piede negli ultimi mesi: l’affacciarsi di Pechino su un oceano così attentamente monitorato da Washington potrebbe portare a nuovi sviluppi.

    L’Unione europea, invece, saprebbe gioire dal dinamismo asiatico, in quanto condivide alcuni suoi obiettivi come la lotta al jihadismo; i singoli Paesi membri, però, si vedrebbero sottrarre importanti fette di mercato per le proprie industrie belliche.

    La creazione e il consolidamento di istituzioni come il G5 Sahel, composto da Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad – per eliminare gruppi come Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) – potrebbe quindi rappresentare un’ancora per le relazioni militari Bruxelles-Africa.

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