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    Le morti di tre ragazze ospiti di case-famiglia che stanno sconvolgendo il Canada

    Le adolescenti appartenenti alla comunità indigena dell'Ontario erano ospiti di famiglie affidatarie e gruppi di accoglienza

    Di TPI
    Pubblicato il 9 Mag. 2017 alle 12:32 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:59

    Amy Owen aveva 13 anni, Kanina Sue Turtle e Courtney Scott ne avevano rispettivamente 15 e 16. Le tre ragazze sono state trovate morte a pochi mesi di distanza nelle abitazioni delle famiglie adottive che le ospitavano in Ontario, Canada. 

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    Secondo i media locali, fra le cause passate al vaglio dagli inquirenti ci sarebbe il suicidio. La vicenda delle tre adolescenti morte misteriosamente ha acceso i riflettori sulle condizioni di vita dei bambini e dei ragazzi che vivono nelle riserve canadesi e che spesso, a causa di traumi di natura psicologica, problemi caratteriali, o per altre motivazioni legate soprattutto alle scarse possibilità economiche delle famiglie d’origine, vengono affidati temporaneamente a famiglie affidatarie, a gruppi di accoglienza e case-famiglia canadesi. 

    Kanina Sue Turtle ed Amy Owen provenivano da Poplar Hill First Nation, una comunità di 500 abitanti situata in Ontario del Nord. Chi le conosceva racconta che le ragazze erano delle persone normali e che amavano uscire con gli amici. Amy Owen era stata allontanata da casa e dalla sua famiglia di recente, mentre Kanina Sue Turtle negli ultimi sette anni aveva girato diverse famiglie affidatarie.

    La ragazza è stata ritrovata morta il 17 aprile scorso. A distanza di un mese, la famiglia Owen è ancora in attesa dei risultati dell’autopsia ufficiale. L’ultima volta che il padre della giovane, Jeffrey Owen, aveva parlato con sua figlia, quest’ultima gli aveva chiesto di poter rientrare a casa. “Era infelice e odiava restare lì”, ha raccontato con voce commossa l’uomo in un’intervista al quotidiano locale. 

    La 13enne è stata ritrovata senza vita nella sua camera da letto presso l’abitazione della famiglia affidataria che la ospitava a Ottawa. I genitori della ragazza si sono rifiutati di credere inizialmente che la figlia fosse ricorsa al suicidio, ma secondo le autorità locali si tratta dell’ipotesi più accreditata. “Una volta sradicata dal suo contesto familiare e affidata a una famiglia estranea, il suo spirito si è spezzato”, ha raccontato un funzionario. 

    Kanina Sue Turtle, Amy Owen e Courtney Scott vivevano da lungo tempo presso una famiglia affidataria che accoglie temporaneamente ragazzi problematici in Ontario, lontane centinaia di chilometri dal proprio nucleo familiare originario. “A volte credo che sia ancora viva”, ha confessato Barbara Suggashi, la madre di Kanina Sue Turtle morta nel mese di ottobre. 

    Quattro giorni dopo la morte della tredicenne Amy Owen, il 21 aprile è stato rinvenuto il cadavere di Courtney Scott, che viveva con la famiglia affidataria a Orléans. La ragazza è morta in un incendio divampato nella casa dove era ospite. Nel momento in cui il fuoco ha devastato l’abitazione, la giovane non è riuscita a salvarsi. 

    Il decesso delle tre adolescenti, e in particolare delle ultime due avvenuto a una manciata di giorni l’una dall’altra, ha allarmato l’opinione pubblica e incentivato la richiesta di indagini per fare luce sulla loro morte, nonché un cambiamento a livello legislativo. 

    I funzionari del consiglio di Poplar Hill hanno comunicato alla Tikinagan Child and Family Service – l’agenzia per la protezione dei minori – di non prendere in affido altri bambini e ragazzi, finché le comunità coinvolte da questi episodi non siano in grado di fornire risposte concrete ed esaustive su come vengano curati i loro ospiti e del perché vengano inviati così lontani. 

    “Non dovrebbero spostare questi bambini e ragazzi spesso problematici così lontano da casa”, ha detto il padre di Amy, Jeffrey Owen. “In questo modo si sentono slegati dal loro contesto familiare”. 

    Non si tratta di casi isolati. Un altro adolescente proveniente da Poplar Hill First Nation è stato trovato morto nel 2016. In quel periodo, il giovane era ospite di una famiglia affidataria a Sioux Lookout, in Ontario del nord. 

    Irwin Elman, un avvocato locale che si occupa dei diritti dei minori, che in precedenza si era battuto per rendere le case-famiglia più sicure per i bambini ospiti, ha ammesso di essere allarmato dalle recenti morti. “Questo picco è preoccupante”, ha detto l’uomo. 

    I bambini e gli adolescenti che vivono nelle riserve canadesi – i cosiddetti First Nation, ossia i popoli indigeni o autoctoni dell’odierno Canada che non sono né Inuit né Métis (Meticci), concentrati in Ontario e nella Columbia Britannica ma che sono localizzati anche in altre aree del paese – costituiscono una percentuale elevata di bambini che vengono inseriti nel sistema di assistenza ai minori in tutto il paese, anche se non è chiaro esattamente quanti sono quelli in cura, lontani migliaia di chilometri dalle loro case e dalle loro famiglie. 

    Il termine “First Nation” è stato coniato negli anni Ottanta del Novecento per sostituire l’ormai arcaico termine “indiani”, in una visione formalmente più rispettosa della multiculturalità del paese. “Quando pensi a quanto sia difficile anche solo intuire le situazioni in cui questi bambini molto spesso sono costretti a vivere, pensi che le istituzioni siano in grado di risolvere questo problema. Ma se non si sa nulla, come si può cominciare a risolvere questa situazione?”, ha dichiarato in una nota recente il ministero della gioventù canadese, che ha annunciato di voler raccogliere i dati sul numero di bambini indigeni inseriti nel sistema di protezione minorile in Ontario. 

    Secondo un portavoce dell’organizzazione Nishnawbe Aski Nation, istituita nel 1973 allo scopo di rappresentare le aspirazioni legittime, socioeconomiche e politiche dei membri della First Nation dell’Ontario del Nord a tutti i livelli governativi, ci sono almeno 800 bambini che vivono presso case-famiglia, gruppi di accoglienza o famiglie affidatarie in Ontario. Tuttavia, non è chiaro che tipo di cure o terapie questi bambini o adolescenti subiscano. 

    Il problema è alla radice: le popolazioni indigene vengono spesso emarginate. “Se sei un ragazzo First Nation allora riceverai meno finanziamenti per l’istruzione, per l’assistenza sanitaria, per il benessere dei bambini. Di conseguenza, molti di questi minori vengono spediti in centri urbani dove manca totalmente una connessione con la loro famiglia d’origine, con la comunità di appartenenza e con la loro cultura, e ciò non fa che accrescere il loro disagio”, ha spiegato un’avvocato impegnato nella difesa dei diritti dei minori indigeni. 

    Inoltre, gli adolescenti che sono a rischio di suicidio e che risultano idonei a ricevere cure e assistenza, non sempre vengono inclusi nei programmi di riabilitazione. Per questa ragione, molte famiglie scelgono volontariamente di inserire i loro figli nel sistema di affidamento e assistenza, perché sperano che attraverso questo canale possano avere maggiori possibilità di ottenere benefici maggiori. “Molti bambini finiscono imprigionati in questo meccanismo, perché i loro genitori non possiedono le risorse necessarie per soddisfare le loro esigenze”, ha concluso il legale. 

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