Chi lavora paga tanto, chi eredita paga pochissimo: è il paradosso tutto italiano sul raffronto tra la tassa di successione, tra le più basse del mondo industrializzato, e il carico fiscale sui redditi da lavoro. Nel nostro Paese, infatti, l’imposta che colpisce il trasferimento dei beni dopo la morte del titolare è appena del 4% per i trasferimenti in favore del coniuge o di parenti in linea retta, con una franchigia di un milione di euro per ciascun erede, del 6% per fratelli, sorelle e altri parenti fino al quarto grado, e dell’8% per gli altri beneficiari. Numeri che non sono minimamente confrontabili con quelli di molti Paesi europei e che evidenziano una sproporzione evidente se si considera che l’Italia, allo stesso tempo, mantiene una delle pressioni fiscali più alte sui redditi da lavoro e da impresa.
Tributi simbolici
Nel nostro Paese, la tassa di successione è stata notevolmente ridotta nel 2000, durante il secondo governo Amato, per poi essere abolita l’anno successivo dal secondo governo Berlusconi e, infine, reintrodotta nel 2006 dal governo Prodi: da allora è rimasta sostanzialmente invariata. Il risultato è che l’imposta ha un peso minimo sulle entrate dello Stato: l’erario, infatti, dalla tassa di successione incassa appena 800 milioni di euro l’anno, meno dello 0,1% del gettito fiscale complessivo. Un dato impietoso se raffrontato con altri Paesi europei, considerando che il patrimonio immobiliare, secondo quanto rivela la Banca d’Italia, rappresenta oltre il 60% della ricchezza delle famiglie italiane.
Il confronto europeo
Il confronto con gli altri Paesi del Vecchio Continente è, come detto, impietoso: se in Italia l’imposta è appena del 4% con un tetto massimo dell’8%, Francia e Regno Unito superano abbondantemente il 40%, la Germania arriva al 30% mentre Spagna e Belgio applicano imposte variabili ma comunque molto più consistenti rispetto a quella italiana. Questo permette, ad esempio, alla Francia, di incassare circa 14 miliardi di euro l’anno mentre Berlino ottiene dalla tassa di successione oltre 6 miliardi di euro annui.
In questi Paesi, la tassa di successione non è percepita come una penalizzazione, ma come uno strumento di riequilibrio. La logica, in particolare modo nei Paesi del Nord Europa, è quella di garantire che la ricchezza accumulata non resti concentrata nelle stesse mani, ma contribuisca, almeno in parte, al finanziamento collettivo di servizi pubblici e infrastrutture. In altre parole, si tassa il privilegio di chi riceve molto senza aver prodotto reddito, e non lo sforzo di chi lavora. In Francia, dove le imposte sulle grandi eredità possono arrivare fino al 45%, le entrate dell’imposta servono a riequilibrare il sistema, finanziando i servizi pubblici. I redditi da lavoro, infatti, sono tassati meno e i servizi, ovvero sanità, scuola e welfare, hanno uno standard elevato. La stessa cosa avviene in Germania dove la tassa di successione agevola le piccole imprese familiari, ma colpisce in modo più incisivo i grandi patrimoni.
Il caso Italia
L’Italia fa esattamente l’inverso: chi eredita un immobile di grande valore, infatti, spesso paga meno di chi percepisce un reddito medio annuo da lavoro dipendente. Gli immobili degli italiani restano sostanzialmente protetti: l’Imu sulla prima casa, infatti, è stata abolita mentre la tassa di successione, in media, pesa per meno dello 0,2% sul valore trasferito. Al tempo stesso, secondo i dati Ocse, il “cuneo fiscale”, ovvero la somma di imposte e contributi che grava su un lavoratore medio, supera il 45% contro una media europea di poco inferiore al 40%.
Il risultato è una forma di “tassazione rovesciata”: lo Stato premia chi possiede e penalizza chi produce. In un contesto in cui la produttività resta stagnante e i salari reali non crescono da vent’anni, la disparità tra chi vive di rendita e chi vive di lavoro rischia di cristallizzare ulteriormente le disuguaglianze sociali.
Squilibrio generazionale
A pagare questo squilibrio sono soprattutto i giovani, esclusi dal mercato del lavoro stabile e dall’acquisto della casa, e che si trovano a sostenere il peso di un sistema che privilegia più il patrimonio del reddito. Secondo Oxfam Italia, la riduzione delle disuguaglianze passa anche da una revisione delle imposte di successione e donazione: «Un’imposta progressiva sulle grandi eredità potrebbe finanziare interventi per l’istruzione, la sanità e le politiche giovanili, restituendo opportunità a chi parte svantaggiato». L’assenza di una tassazione significativa sui grandi lasciti patrimoniali, infatti, consolida un modello in cui la mobilità sociale è sempre più limitata: chi nasce in una famiglia benestante ha molte più possibilità di mantenere il proprio status, mentre chi parte da condizioni svantaggiate difficilmente riesce a migliorare la propria posizione economica.
Nodo politico e culturale
Il problema, però, è soprattutto politico e culturale. In Italia, infatti, la “patrimoniale” resta un tabù nonostante alcuni studi, tra cui quelli del Fondo Monetario Internazionale e dell’Ocse, evidenzino come una moderata tassazione sulla ricchezza ereditata sia tra le forme di imposta più eque e meno distorsive. Le raccomandazioni internazionali, però, non fanno breccia sulla politica italiana: ogni ipotesi di rialzo della tassa di successione viene bollata come una “tassa sui morti” mentre la tassazione patrimoniale viene spesso scambiata, per motivi propagandistici, come una sorta di esproprio dei propri beni.
Una riforma possibile
In realtà, come dimostrano gli studi precedentemente citati, un riequilibrio della tassazione patrimoniale, mirata ai grandi patrimoni e non alla classe media, potrebbe riequilibrare un sistema fiscale, quello italiano, che presenta grandi e gravi iniquità. Alcune proposte, come quella avanzata da Oxfam o da vari centri di ricerca economica, prevedono ad esempio un aumento progressivo dell’imposta solo oltre determinate soglie destinando il gettito a un fondo per i giovani o per la riduzione del cuneo fiscale. Un’operazione che, secondo le stime, potrebbe generare tra i 3 e i 5 miliardi di euro l’anno senza toccare la maggior parte delle famiglie. Un’ipotesi che in molti Paesi europei è già realtà e che, in Italia, avrebbe anche un valore simbolico: restituire centralità al lavoro, non alla rendita. Perché in un Paese in cui la ricchezza si trasmette più per nascita che per merito, la vera riforma non è economica ma culturale.