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    Il reddito di cittadinanza cambia ancora: stavolta per “colpa” del clan Spada

    L'aula bunker del carcere di Rebibbia che ospita il processo contro il clan di Ostia Spada a Roma ANSA/MASSIMO PERCOSSI
    Di Giovanni Macchi
    Pubblicato il 13 Mar. 2019 alle 14:36 Aggiornato il 13 Mar. 2019 alle 14:38

    Il clan Spada ha costretto, suo malgrado, la maggioranza di governo a rivedere il reddito di cittadinanza. Così il “decretone” cambia di nuovo.

    Dopo la polemica scoppiata nei giorni scorsi legata alla (presunta) richiesta da parte di alcuni membri del clan del reddito di cittadinanza è in arrivo un emendamento presentato da una relatrice per parte, Dalila Nesci fronte M5s ed Elena Murelli lato Lega.

    L’emendamento prevede la sospensione del reddito e della pensione di cittadinanza per i richiedenti “a cui è applicata una misura cautelare, anche adottata all’esito di convalida dell’arresto o del fermo” o per i condannati con sentenza non definitiva.

    Lo stop all’erogazione vale anche per i latitanti e per chi “si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena”.

    I provvedimenti di sospensione sono adottati con effetto “non retroattivo” dal giudice che ha disposto la misura cautelare o ha emesso la sentenza di condanna non definitiva o ha dichiarato la latitanza.

    I reati per i quali è prevista la sospensione del reddito e della pensione di cittadinanza, anche con una sentenza non definitiva, sono quelli di tipo mafioso o terroristico e la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

    Per gli stessi reati il testo del provvedimento approvato dal Senato prevedeva la sospensione dell’erogazione del reddito di cittadinanza solo in presenza di sentenza definitiva.

    L’emendamento depositato alla Camera dalle relatrici prevede che “nel primo atto in cui è presente l’indagato o l’imputato, l’autorità giudiziaria lo invita a dichiarare se beneficia del reddito di cittadinanza”.

    Quindi, “ai fini della loro immediata esecuzione”, i provvedimenti di sospensione sono “comunicati dall’autorità giudiziaria procedente, entro il termine di 15 giorni dalla loro adozione, all’Inps che provvede all’inserimento nelle piattaforme” informatiche in capo a Mise e Anpal “che hanno in carico la posizione dell’indagato o imputato o condannato”.

    La sospensione “può essere revocata dall’autorità giudiziaria che l’ha disposta quando risultano mancare anche per motivi sopravvenuti le condizioni che l’hanno determinata”.

    Le risorse derivanti dallo stop “sono riassegnate al Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura”.

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