Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Economia
  • Home » Economia

    Otto risposte sul perché il deficit al 2,4 per cento è così discusso anche se dentro le regole

    Il vicepremier Luigi Di Maio e i ministri M5S festeggiano l'approvazione del deficit al 2,4 per cento del Pil

    La linea Di Maio-Salvini ha vinto su quella del prudente ministro dell'Economia Tria. Poche domande per capire il perché, nonostante rispetti le regole, il deficit italiano sia sotto osservazione

    Di Maurizio Carta
    Pubblicato il 30 Set. 2018 alle 08:00 Aggiornato il 30 Set. 2018 alle 08:33

    Rapporto deficit/Pil. È una delle espressioni che in questo periodo dell’anno ricorre più spesso ed è al centro delle cronache politiche italiane. Si tratta di uno degli indicatori più importi e più temuti in tema di manovra economica.

    Ma perché è così importante? E cosa significa il suo valore al 2,4 per cento stabilito nella Nota di aggiornamento al Def presentata il 27 settembre 2018 dal governo?

    Cos’è il rapporto deficit/Pil?

    È il rapporto tra il deficit, ovvero la differenza annuale tra entrate e spesa dello Stato, e la ricchezza prodotta, ossia il Pil (qui un glossario sulle parole da sapere).

    Qual è il tetto massimo per il rapporto deficit/Pil?

    Secondo quanto stabilito nel 1992 con il Trattato di Maastricht, il tetto massimo per il rapporto deficit/Pil è fissato al 3 per cento.

    Significa che uno Stato può spendere più di quanto incassa, ma entro la soglia del 3 per cento della ricchezza prodotta.

    In altre parole, fatto 100 il valore del Pil annuo, il deficit di quello stesso anno non può superare quota 3.

    Secondo il Def (cos’è il Def), anzi la nota di aggiornamento al Def (NoDef) approvata il 27 settembre 2018 dal Consiglio dei ministri, per il 2019 questo rapporto toccherà il valore del 2,4 per cento.

    Il Def non è ancora legge dello Stato sino a quando non passerà alle Camere, insomma, è un bruco che ancora non è diventato farfalla.

    Ma, se la regola europea è stare sotto il 3 per cento, allora perché tutto questo polverone?

    Vero, la regola impone il 3 per cento, ma vanno fatte alcune considerazioni. La principale riguarda il debito pubblico.

    L’Unione europea sa bene che la regola è del 3 per cento, ma che è altrettanto al corrente del fatto che l’Italia ha un debito pubblico molto alto, ben oltre il 130 per cento del Pil, pari a circa 2.300 miliardi di euro. Una montagna di promesse di pagamento.

    Bruxelles chiede agli Stati politiche di rientro nel debito, per portare questa percentuale verso il 60 per cento nel lungo periodo. Mai si inizia e mai si arriva.

    La Francia arriverà sino al 2,8 per cento: perché i fari sono puntati sull’Italia?

    In Francia il presidente Emmanuel Macron ha annunciato un maxi-taglio fiscale che comporterà un rialzo del rapporto deficit/Pil al 2,8 per cento.

    Tuttavia la Francia ha un debito pubblico molto più basso dell’Italia: il rapporto tra debito pubblico e Pil sta sotto il 100 per cento. Inoltre Parigi aumenta il proprio Pil dell’1,7 per cento all’anno, mentre l’Italia dell’1,2 per cento.

    E il Giappone allora?

    Il Giappone ha il debito pubblico più alto del mondo, un valore che supera il 250 per cento del suo Pil, ma questo debito è per buona parte detenuto in mano agli stessi giapponesi, oltre che dalla Banca centrale e da Istituzioni pubbliche. Sarebbe il marito che presta i soldi alla moglie, o viceversa, i soldi stanno in famiglia.

    Inoltre gli asiatici hanno un tasso di inflazione molto basso: l’interesse pagato sul denaro che lo Stato prende in prestito, dunque, non deve essere molto alto per garantire a chi presta di mantenere il potere di acquisto nel tempo.

    Ma, se non è vietato, perché non si fa deficit senza ascoltare cosa dicono gli altri?

    Gli altri siamo noi, quindi l’Europa, della quale l’Italia è un paese fondatore e le cui politiche di bilancio influenzano anche il valore dell’euro, la nostra moneta corrente.

    Inoltre ci sono i mercati, che hanno i fari puntatati sull’Italia da tempo.

    Nel 2008 il rapporto fra debito pubblico e Pil dell’Italia era circa al 102 per cento, adesso sta oltre il 130 per cento. Si rischia di essere declassati dalle agenzie di rating, che giudicano l’affidabilità di un paese rispetto al pagamento dei suoi debiti.

    Più il rating di un paese è basso e più chi presta il denaro percepisce quel paese come più rischioso e quindi chiede un tasso d’interesse più alto per pagare questo rischio.

    Ma che succede se si sale ma senza sforare?

    Anche se si sta sotto il 3%, il mercato percepisce un rischio perché crede che l’Italia non lo voglia mai ridurre il suo debito, come nel caso italiano negli anni, che rimanda sempre il problema.

    Quindi sale lo spread, la differenza fra i decennali tedeschi (sinonimo di massima affidabilità fra i paesi europei) e quelli italiani. Lo spread influenza tutti i rendimenti del debito, quindi quanto costa finanziarsi. Più spread significa più interessi sul debito, quindi si rischia che oltre fare più debito, anche di pagare un dazio salato per ottenere i soldi in prestito da parte dello Stato.

    L’Italia è un paese affidabile?

    Assolutamente sì, l’Italia è un paese affidabile e una forza economica mondiale, anche se non sembra.

    Allo stesso tempo, le agenzie di rating non sono enti di beneficienza e spesso hanno sbagliato. Ancora di meno è un ente di beneficenza il mercato, che vive di speculazione e, come in natura, purtroppo, si accanisce sul debole.

    Le agenzie di rating giudicano la serietà di un governo e della politica economica di uno Stato, e guardano tante cose oltre il debito pubblico, corretto o meno che sia il loro giudizio. I mercati ascoltano i loro consigli. L’Italia deve ottenere denaro a buon prezzo per rinnovare il debito, e questo lo offre il mercato, si vedrà a che condizioni: il mercato può essere severo o indulgente.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version