Intelligenza artificiale: opportunità o rischio? È questa la domanda che esperti, ma anche persone comuni, si fanno sull’utilizzo dell’AI. Non c’è un verità assoluta se non che l’intelligenza artificiale può essere entrambe le cose, a seconda dell’utilizzo che ovviamente se ne fa. In tal senso ne è un esempio ciò che è emerso dal rapporto “Future of Jobs Report 2025” del World Economic Forum secondo cui, entro il 2030, l’intelligenza artificiale creerà 170 milioni di nuovi posti di lavoro eliminandone 92 milioni con un guadagno, quindi, di 78 milioni di nuovi posti di lavoro. Un’ottima notizia? Non propriamente dal momento che, in realtà, potrebbe innescarsi una nuova ondata di disoccupazione a causa della transizione molto breve tra i nuovi lavori e quelli che, invece, rischiano di scomparire per sempre.
Chi è condannato e chi no
L’IA sta modificando profondamente le competenze richieste dal mercato: secondo i dati del World Economic Forum, entro la fine del 2025, il 50% delle attività lavorative sarà automatizzato, rispetto all’attuale 29%. Il 75% delle aziende prevede di utilizzare tecnologie legate all’intelligenza artificiale mentre il 50% si aspetta che la tecnologia stimoli la crescita occupazionale piuttosto che ridurla.
Non tutti i mestieri spariranno per sempre ma molti sono comunque destinati a subire un drastico ridimensionamento. Cassieri, operatori di sportello e addetti postali saranno sempre meno richiesti: questo perché casse automatiche, pagamenti digitali, online banking e l’ampliamento dei servizi clienti automatizzati ne stanno tagliando drasticamente la necessità operativa. Lo stesso dicasi per addetti alla data entry e lavori amministrativi. E ancora: centralinisti e operatori di call center, bancari, agenti di viaggio e funzionari assicurativi. Per quanto riguarda i call center, infatti, già ora chatbot e assistenti vocali gestiscono gran parte delle chiamate di primo livello riducendo la domanda per figure professionali umane. Anche gli assistenti legali sono a rischio: già ora, infatti, la revisione contrattuale, la ricerca giuridica e le prime bozze vengono sempre più spesso delegate all’AI. Elaboratori di report finanziari e sportivi e redattori base potrebbero veder sempre più spesso diminuire il loro lavoro. Secondo Goldman Sachs la rivoluzione dell’intelligenza artificiale non andrà a impattare solo ed esclusivamente sul lavoro manuale ma anche su professioni intellettuali. La banca d’affari, infatti, stima che l’IA potrebbe automatizzare 300 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo.
La rivoluzione tecnologica porterà alcuni ruoli e settori a crescere in maniera esponenziale. In particolare ne gioveranno gli sviluppatori di IA, machine learning engineer e prompt engineer. E ancora: data scientist e analisti di big data così come gli esperti in cybersecurity e data privacy. Specialisti in robotica e tecnici della manutenzione di sistemi automatizzati avranno sempre più opportunità di lavoro così come esperti in etica e regolamentazione dell’IA e compliance officer. La rivoluzione, però, è già in atto: per fare un esempio concreto, infatti, Amazon sta già assumendo oltre 500 esperti in robotica e machine learning, mentre contemporaneamente automatizza i ruoli corporate di base.
Rischi e opportunità
Gli esperti concordano su un punto fondamentale: la rapidità con cui l’Intelligenza Artificiale sta ridisegnando il mercato del lavoro impone un approccio proattivo e strutturato alla formazione. Upskilling – il potenziamento delle competenze esistenti – e reskilling – l’acquisizione di nuove – non saranno più opzioni, ma vere e proprie necessità per chi vuole restare competitivo in un contesto in continua evoluzione. In questa fase di transizione, però, l’adattamento comporta costi non indifferenti, tanto per i lavoratori quanto per le imprese. Alcune aziende stanno già pagando il prezzo di un entusiasmo forse prematuro verso l’automazione. È il caso emblematico di Klarna, colosso del fintech, che dopo aver licenziato circa 700 dipendenti per sostituirli con l’IA si è trovata costretta a reintegrare personale umano, a causa di un evidente calo nella qualità dei servizi offerti. Una lezione che non può essere ignorata. Secondo analisti e osservatori del mercato, la risposta deve essere sistemica: da un lato, le istituzioni scolastiche e i governi devono collaborare per offrire percorsi formativi accessibili, aggiornati e mirati; dall’altro, le aziende devono investire con continuità sul capitale umano, accompagnando i dipendenti nella transizione e valorizzando le competenze che l’automazione non può sostituire. «Non si tratta solo di sostituire i lavori, ma di ridefinire le competenze. Chi saprà integrare le tecnologie nel proprio lavoro sarà il vero vincitore della transizione», ha confermato in un’intervista Fabio Vaccarono, ex managing director di Google Italia.
Il nodo cruciale della transizione tecnologica non è tanto la quantità di posti persi o guadagnati, quanto il divario temporale tra i lavori che scompaiono e quelli che nasceranno. Un intervallo che potrebbe generare ondate di disoccupazione e aggravare le disuguaglianze sociali ed economiche. I nuovi impieghi, spesso ben retribuiti e ad alta specializzazione, saranno in larga parte riservati a chi possiede un alto livello di istruzione e competenze digitali avanzate. Per chi ne è privo, il rischio è di restare ai margini del mercato del lavoro, intrappolato in settori in declino, con salari stagnanti e prospettive ridotte. «L’intelligenza artificiale può creare immense opportunità, ma il rischio è che diventi un moltiplicatore di diseguaglianze se non ci saranno politiche pubbliche attente e inclusive», ha spiegato l’economista Mariana Mazzucato.
Le prospettive in Italia
La rivoluzione tecnologica, ovviamente, riguarderà anche l’Italia dove, secondo uno studio realizzato da Ernst & Young in collaborazione con ManpowerGroup e Sanoma Italia, già dal 2027, quando le aziende avranno adottato in modo diffuso strumenti di IA generativa e robotica avanzata, vi sarà una crescente domanda di posti di lavoro specifici. A pagare il prezzo più alto di questa rivoluzione saranno soprattutto tecnici, operatori logistici, conduttori d’impianti e impiegati in mansioni di gestione dati, tutte attività ad alta ripetitività e facilmente automatizzabili. Secondo la ricerca, però, la trasformazione non sarà uniforme ma varierà a seconda del settore specifico. Lo studio lancia l’allarme sui gravi squilibri che potrebbero crearsi nel mondo del lavoro: ecco perché è necessario intervenire subito applicando percorsi rapidi e mirati di formazione, in grado di fornire le competenze oggi mancanti. Per la ricerca da qui al 2030 crescerà in maniera significativa il disallineamento tra i percorsi universitari italiani e le reali richieste del mercato del lavoro con un futuro incerto persino per i laureati STEM, tradizionalmente considerati tra i più “sicuri”. Se istituzioni, università e centri di formazione non staranno al passo con i tempi, quindi, in Italia la rivoluzione tecnologica rischia di lasciare più macerie che benefici. Tra coloro che hanno lanciato l’allarme su questo tema c’è Chiara Burberi, amministratrice delegata di Redooc, che ha dichiarato: «Il sistema scolastico italiano non è ancora pronto per affrontare la rivoluzione dell’IA. Serve un cambio di paradigma radicale per formare cittadini digitali, non solo lavoratori».
Un nuovo contratto sociale?
Se il 2030 è l’anno della svolta secondo il World Economic Forum, cosa accadrà ancora più in là? Le macchine finiranno per sovrastare gli essere umani? Secondo diverse proiezioni accademiche e industriali, tra cui quelle del McKinsey Global Institute e della Oxford Martin School, nel 2050 oltre il 70% delle professioni sarà svolto in collaborazione con sistemi di intelligenza artificiale: non solo assistenti virtuali o algoritmi ma veri e propri “colleghi digitali” in grado di dialogare, prendere decisioni e persino co-creare con l’essere umano. Questo non significa la fine del lavoro come lo conosciamo oggi ma bensì una trasformazione profonda che permetterà di lavorare meno ore ma con più intensità cognitiva e responsabilità etica. Se le competenze, come già detto, saranno sempre più ibride, saranno proprio le caratteristiche umane a fare la differenza: empatia, giudizio, pensiero laterale.
L’intelligenza artificiale, come ogni tecnologia dirompente, non è né buona né cattiva in sé: è un acceleratore. Può moltiplicare la produttività, semplificare processi, migliorare la qualità della vita. Ma può anche, se mal gestita, aumentare le disuguaglianze, generare insicurezza e rendere obsolete intere classi di lavoratori in pochi anni. Il bivio davanti al quale si trovano governi, imprese e cittadini è chiaro: cavalcare il cambiamento, o subirlo. Per affrontare la sfida serve una visione strategica condivisa, investimenti massicci in istruzione, orientamento e formazione continua. Serve anche un nuovo contratto sociale che non lasci indietro nessuno, che protegga chi rischia di più e accompagni l’intero sistema verso un’economia della conoscenza inclusiva. La domanda, insomma, non è se l’intelligenza artificiale cambierà il lavoro. La vera domanda è: saremo pronti a cambiare con lei?