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    “Noi, giovani precari sfruttati, vi spieghiamo perché certi imprenditori non trovano lavoratori”

    Di Alessandro Sahebi
    Pubblicato il 11 Giu. 2021 alle 13:55

    C’è un dato emblematico e preoccupante che apre la serie di racconti di cui leggerete a breve: tutte le persone intervistate hanno richiesto l’anonimato. Non affronteremo né casi di mafia né vicende che coinvolgono servizi segreti o importanti politici, ma parleremo di lavoro, un diritto che dovrebbe essere garantito dalla nostra Costituzione ma che oggi è per molti giovani allo stesso tempo desiderio e paura, aspettative e ricatti.

    I titoli dei principali giornali italiani riportano da mesi i virgolettati di imprenditori, soprattutto del settore turismo e ristorazione, che lamentano l’eccesso di assistenzialismo e pigrizia che permea – a loro dire – la società e la conseguente impossibilità di trovare forza lavoro per la stagione.

    Una narrazione che probabilmente nasconde anche uno scontro generazionale, fatto di due mondi che fanno sempre più fatica a comprendersi. Ma soprattutto una narrazione funzionale a delegittimare qualsiasi forma di sostegno al reddito e a far digerire l’idea che il lavoro sia un dono calato dall’alto per mezzo della fortuna anziché, come dovrebbe essere, un contratto tra pari firmato da due professionisti.

    Abbiamo provato a raccontare la stessa storia, dunque, ma non abbiamo chiesto a Confindustria, a Matteo Salvini o ad un prestigioso economista di farci una fotografia del Paese reale. Ne abbiamo parlato con loro.

    L’altra campana, quella sfruttata

    Uno dei problemi principali dei lavori stagionali è la percezione di scarsa specializzazione dei suoi operatori, oltre che un’illegalità diffusa nei rapporti di lavoro che, secondo Filcams-Cgil, sfiora il 70% dei casi. Chi serve ai tavoli e lava i piatti fa inoltre un lavoro considerato umile e di conseguenza, almeno secondo i datori di lavoro, anche lo stipendio deve restare basso.

    “Ho fatto il cameriere per oltre dieci anni”, racconta Marco M, 30 anni di Verona. “Ho studiato in Italia e all’estero per migliorare la mia conoscenza di vini, gestione sala e di abbinamenti. Ho lavorato in ristoranti stellati, ho dato il massimo di me e ho sacrificato tanti momenti importanti della mia vita. Agli occhi di molti ristoratori questo non conta, o ti vanno bene le loro condizioni o troveranno manovalanza a basso costo tra chi è più giovane e bisognoso”.

    “Stiamo parlando di un lavoro importantissimo. Il cliente valuta l’esperienza anche in merito al servizio che il cameriere è in grado di offrire, ma, nonostante questo, l’impegno non è per nulla valorizzato. Oltre tredici ore di lavoro in piedi, in orari spezzati, sai quando inizi e non sai quando finisci. Tanti hanno gettato la spugna. Tanti altri si sono gettati nell’alcol e nelle droghe, diffusissimi nel nostro settore a causa dello stress e della poca soddisfazione”.

    Conti alla mano stipendio nel comparto ristorazione è basso, anzi bassissimo: “Millecento euro al mese senza alloggio significa spenderne due terzi in affitto se lavori in una grande città o in una località turistica”, spiega Letizia, di Bologna.

    “L’ho fatto, ma sono arrivata a pensare che non ne valga più la pena. Se sei fortunata hai metà delle ore in busta, il resto in nero. Sindacati e controlli? Non sono attori di questo settore. Non prendo il reddito di cittadinanza, semplicemente non voglio farmi schiacciare per una presunta etica del lavoro in cui non mi riconosco”.

    Anche tra chi ha in mano il famoso pezzo di carta le cose non vanno meglio: “Fresco di laurea in comunicazione avrò consegnato qualcosa come centocinquanta curriculum”, spiega Francesco C., di Napoli. “Ho fatto qualche colloquio e non è andata bene: 2,34 euro l’ora con contratto full time co.co.co. Ovvero 2,34 euro lordi, dovrei anche pagarci i contributi. Dicono che serve a fare esperienza, onestamente non ho bisogno di mettere nel curriculum che ho fatto lo schiavo”.

    “Per non parlare degli annunci truffa: ti presenti per lavorare in un front office e ti ritrovi a fare porta a porta. Stipendio? Ti dicono ‘Poi vediamo, forse’. Quando ero ragazzino facevo il cameriere, 4 euro all’ora in nero, ora non lo accetterei più, non lo trovo giusto. Ma nessuno sembra volerti pagare per quello che vali”.

    C’è poi Roberta M., che lavora in nero in un bar pasticceria in Sicilia. “Ieri volevo chiedere di regolarizzare il mio contratto, non ne ho avuto il coraggio. Faccio questo lavoro perché ne ho bisogno ma non c’è nulla di edificante. Gli orari mi vengono detti il giorno prima e lo stipendio non è dignitoso, 700 euro al mese per un full time, e dato che devo aiutare in casa con le spese anche un piccolo sfizio come un gelato si trasforma in un dilemma”.

    “Sento di essere trattata come uno straccio. Se chiedo un permesso me lo fanno pesare, se vado in bagno ed entra un cliente il titolare viene a bussare alla porta per mettermi pressione. Passa la voglia, mi sento quotidianamente umiliata e mi vergogno”.

    L’ambizione di leccare il pavimento

    C’è un concetto che forse non è chiaro ad alcuni datori (per carità, non a tutti): non si può definire un lavoro dignitoso se è precario. La condizione lavorativa precaria e non tutelata è lesiva della dignità delle persone ed è una delle cause più diffuse di stati di depressione e ansia tra i giovani.

    Benché negli anni le istituzioni abbiano edulcorato la precarietà elogiando la flessibilità, la competitività e l’asta al ribasso sulla manodopera, sono sempre più evidenti gli effetti negativi dell’insicurezza occupazionale.

    Precarietà significa non avere alcun controllo sulle proprie condizioni di vita e sulle proprie condizioni di reddito. La precarietà, spacciata per lavoro, rende le sfere dell’esistenza più importanti revocabili in ogni momento. L’etimologia di precario significa esattamente questo: qualcosa che può essere tolto in qualsiasi momento perché ottenuto “per mezzo della preghiera” e non grazie ad un diritto.

    I costi della precarietà li paga la collettività, non c’è alcun risparmio. La pandemia non ha peggiorato le condizioni di lavoro ma ha evidenziato la spaccatura, anche generazionale, tra i giovani e il mondo del lavoro.

    Come diceva il regista Silvano Agosti, è accettabile, con un mitra puntato alla testa, leccare il pavimento. Ma che leccare il pavimento diventi un’ambizione è sbagliato. E certi imprenditori semplicemente non accettano più questo: la corda si è spezzata e c’è chi dice no, c’è chi non ci sta più.

    “Mancano lavori dignitosi, non lavoratori o lavoratrici”

    Secondo gli intervistati è necessario un ribaltamento concettuale: mancano lavori dignitosi, non lavoratori. Storie come quella di Marco, Letizia, Roberta o Francesco ne esistono a migliaia e forse l’inganno sta proprio nella quantità: sono talmente tanti da essere diventati una normalità.

    Come è diventato normale pensare che, dato che il lavoro scarseggia, qualsiasi condizione sia accettabile. E anche tra alcuni lavoratori questa mentalità prende piede. Si chiama solidarietà negativa: dato che io sopporto condizioni di lavoro non dignitose, ritengo che anche gli altri debbano fare lo stesso.

    Si tratta di un circolo vizioso perché si traduce in un’asta al ribasso dove chi gode di diritti minimi viene visto come un privilegiato. Ma non funziona, perché c’è un limite sotto al quale alcune persone non sono più disposte ad andare. E qui nasce la frattura.

    Manca un sindacato che rappresenti davvero chi è precario”, lamenta uno degli intervistati. “E manca lo Stato, che dovrebbe vigilare. Siamo stufi di essere dipinti come pigri e svogliati, ci è stato raccontato che il lavoro sarebbe stato lo strumento per vivere una vita dignitosa. E di dignitoso, nel mondo del lavoro, in questo Paese c’è rimasto veramente poco”.

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