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    Dove vanno le banche del futuro (e la vigilanza europea)

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    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 17 Gen. 2023 alle 13:12

    Lo scorso 10 gennaio Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve nominato da Donald Trump, ha metaforicamente alzato un muro contro quegli analisti finanziari che sollecitano la banca centrale statunitense a includere nei suoi compiti di vigilanza i rischi percepiti associati al surriscaldamento globale.

    «Le decisioni sulle politiche per affrontare direttamente il cambiamento climatico dovrebbero essere prese dai rami eletti del governo e quindi riflettere la volontà del popolo espressa attraverso le elezioni», ha precisato. «La Fed ha responsabilità limitate. Sarebbe inappropriato utilizzare la nostra politica monetaria o gli strumenti di supervisione per promuovere un’economia più verde o per raggiungere altri obiettivi basati sul clima». «Non siamo, e non saremo, un decisore di politiche climatiche», ha tuonato Powell mettendo un punto finale sulla questione.

    Se questa è la posizione del banchiere centrale di Washington, a Francoforte – sede della Banca centrale europea guidata da Christine Lagarde – l’approccio è tutt’altro. «Ci impegniamo fermamente a fare la nostra parte per far fronte al cambiamento climatico nell’ambito del nostro mandato», si legge sul sito della Bce. E ancora: «Favoriamo una transizione ordinata verso un’economia neutra in termini di emissioni di carbonio tramite misure che rientrano nel nostro mandato, promuovendo fra l’altro lo sviluppo di una finanza sostenibile e creando incentivi per un sistema finanziario più verde».

    Dunque, dove sta la ragione fra l’attivismo green dell’Eurotower e e la condotta pilatesca della Fed?

    Stefano Lucchini, responsabile degli Affari istituzionali di Intesa Sanpaolo, e Andrea Zoppini, professore di Diritto Civile all’Università Roma Tre, hanno una visione molto chiara in proposito.

    Nel loro libro “Il Futuro delle Banche” (Baldini+Castoldi) ricordano che «la messa in atto delle unconventional monetary policies per fronteggiare le conseguenze derivanti dalle crisi economiche che si sono succedute nel corso dell’ultimo decennio ha già rivelato, di per sé, la non-neutralità del ruolo della Bce, tanto per la tipologia di strumenti concretamente adottati quanto per la strategia complessiva perseguita» e ne ricavano allora che «la non procrastinabilità delle misure di contrasto ai cambiamenti climatici richiede oggi altrettanta flessibilità nella messa in atto di azioni che, sebbene possano formalmente tradire la neutralità del mandato della Bce, ne siano in realtà conformi nella sostanza, poiché coerenti con i più ampi impegni democratici della società in cui la banca centrale opera, nonché diretti a un miglioramento complessivo del benessere».

    Come a dire che la lotta al surriscaldamento globale, non avendo colore politico, dovrebbe oggi rientrare a priori nel mandato di qualsiasi istituzione, politica o economica che sia. 

    Discorso analogo si potrebbe fare per le azioni di contrasto alla pandemia di Covid-19 messe in atto dai governi negli ultimi tre anni. In questo caso alle banche è stato affidato il ruolo chiave di «mantenere un costante flusso di credito all’economia» (citazione della Commissione europea) che fra l’altro per la prima volta dopo la crisi globale del 2007-2008 ha innescato un incremento di fiducia nel settore bancario da parte di famiglie e consumatori.

    Lucchini e Zoppini nel loro libro non solo parlano di «crescente richiamo alla “responsabilità sociale” della banca nel favorire il superamento della crisi economica» ma arrivano a sostenere anche che l’istituto di credito «(dopo la scuola) deve essere il motore principale dell’educazione economica e finanziaria del Paese».

    Tutti questi ragionamenti sulla mission e sui limiti all’attività delle banche rientrano in un più ampio contesto di snodi e mutamenti epocali in atto nel settore del credito. Trasformazioni che spaziano dall’innovazione tecnologica alla data economy alla globalizzazione dei mercati. E che arrivano a investire anche il vertice del sistema: ovvero gli organi della vigilanza bancaria.

    C’è stato un tempo non molto lontano – ricordano Lucchini e Zoppini – in cui le banche erano organizzazioni meno complesse rispetto a oggi, spesso in mano a soggetti pubblici, e la regolazione del mercato avveniva “all’orecchio” dei banchieri, ossia all’insegna della riservatezza e di un rapporto strettamente fiduciario fra regolatore e regolato, a tal punto che «anche i dissesti bancari erano gestiti nel riserbo e senza strepito, sì che delle crisi delle banche i depositanti neppure si accorgevano».

    Poi, quando gli istituti sono entrati in concorrenza fra loro, e per di più in una dimensione sovranazionale, è venuta la fase della «regolazione nel grattacielo dell’Eurotower di Francoforte, dove predominava uno stile comunicativo formale, che mutava profondamente le regole del dialogo istituzionale con le banche – forte dell’esigenza di uniformità dei trattamenti e di trasparenza sul mercato – ma dove rimaneva centrale la dimensione dell’interazione personale».

    Ebbene, oggi ci troviamo catapultati in una nuova era, «il tempo in cui la regolazione è uscita da uno spazio fisico per correre attraverso le piattaforme digitali e creando incentivi per un sistema finanziario più verde».

    Anche la vigilanza europea, dunque, deve fare i conti con le nuove sfide del comparto creditizio: sfide rispetto alle quali però finora – osservano sempre gli autori de “Il futuro delle banche” – le Autorità preposte hanno palesato una «inadeguatezza strutturale» (ad esempio rispetto alla regolazione del mondo del FinTech).

    Ma non solo: l’Unione bancaria non è ancora riuscita a centrare pienamente nemmeno il suo obiettivo di armonizzare i sistemi finanziari dei diversi Paesi.

    L’interlocuzione fra la Banca d’Italia e i singoli istituti italiani, storicamente virtuosa e improntata alla concordia reciproca, secondo Lucchini e Zoppini non è ancora replicabile su scala europea.

    In primis perché «i codici semantici sono tutt’altro che collaudati»: basti pensare al fatto che ogni banca può comunicare con la Bce utilizzando la propria lingua domestica, dove lo stesso termine può essere interpretato con diverse curvature di significato.

    «Si tratta di una forma di cooperazione del tutto innovativa, che postula un’integrazione disuguale sia nel processo decisionale sia a livello operativo»: «Solo dopo un congruo periodo di rodaggio – quindi – il sistema potrà dirsi a regime».

    Queste difficoltà di dialogo hanno determinato una serie di «comunicazioni abrasive tra la Bce e le singole banche», rese ancor più probabili dalla discrezionalità riconosciuta all’Eurotower nei suoi compiti di supervisione, a fronte peraltro «della irresponsabilità civile, penale e amministrativa di cui godono la Bce e i vertici della vigilanza bancaria europea per gli atti compiuti bell’adempimento di doveri d’ufficio».

    Lucchini e Zoppini pronosticano per i prossimi anni un incremento delle contestazioni fra la banca centrale e gli istituti nazionali.

    In conclusione, quindi, al di sopra di un settore bancario alle prese con rivoluzioni epocali, le Autorità di vigilanza si stanno rivelando incapaci da un lato di stare al passo con le novità tecnologiche e del mercato globale e dall’altro di armonizzare fra loro i singoli sistemi nazionali.

    Alla luce di questo, gli autori de “Il futuro delle banche” ritengono «auspicabile una revisione del quadro normativo e del perimetro dell’azione di vigilanza che consenta alle istituzioni nazionali ed europee di rispondere efficacemente alle istanze di tutela del mercato». Nuove regole per il nuovo mondo del credito.

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