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    Altro che la pesca: nella famiglia Esselunga è l’ora della resa dei conti

    Conobbi Giuseppe Caprotti una ventina d’anni fa. Era da poco a.d. del colosso della grande distribuzione. Voleva migliorare i rapporti con dipendenti e sindacati. Ma poi suo padre Bernardo lo cacciò malamente. Ora il figlio rinnegato racconta tutto in un libro

    Di Rinaldo Gianola
    Pubblicato il 28 Ott. 2023 alle 07:00

    Una ventina d’anni fa, quando lavoravo alla vecchia e gloriosa Unità, capitò di pubblicare diversi articoli su fatti di cronaca che riguardavano Esselunga, il colosso della grande distribuzione.

    Bernardo Caprotti, il padrone assoluto e geniale gestore del business dei supermercati, era una fucina di notizie. Litigava con i sindacati, scatenava guerre con le Coop, denunciava comuni e regioni “rosse”.

    Vietò di vendere l’Unità all’interno dei suoi punti vendita, poi minacciò di “sbullonare” una bacheca sindacale perché era stato appeso un nostro articolo, un’altra volta se la prese con alcuni dipendenti che contestavano le pause troppo corte. E via di questo passo. Insomma, niente di straordinario, conoscendo come Caprotti esercitava il suo potere incontrastato. 

    Però un giorno accadde un fatto incredibile. Ricevetti una telefonata: «Il dottor Caprotti vorrebbe incontrarla». Non era Caprotti senior, il padrone delle ferriere. Era il figlio Giuseppe, che da pochi giorni era stato nominato amministratore delegato del gruppo.

    Ci incontrammo all’Hotel Diana, a porta Venezia, a Milano. Era un giovane manager, educato, colto, pieno di belle idee. Pensai subito che fosse troppo perbene per il ruolo che ricopriva. Mi spiegò che desiderava instaurare rapporti corretti e trasparenti, comunicare di più e meglio, rispettare i sindacati, eliminare le provocazioni della vecchia gestione.

    Mi pregò di informarlo, prima di pubblicarle, di eventuali altre notizie poco edificanti su Esselunga. Non mancò l’occasione. 

    Gli telefonai qualche giorno dopo, ma Giuseppe Caprotti non lavorava più nel quartier generale di Limito, il padre Bernardo lo aveva cacciato con i suoi manager.

    L’immagine delle Mercedes nere parcheggiate in cortile che, come i carri del condannato, allontanano Giuseppe e i suoi collaboratori emerge fortissima dal libro “Le ossa dei Caprotti. Una storia italiana” (Feltrinelli), scritto proprio da Giuseppe Caprotti per raccontare le sue vicende personali, famigliari e di una grande impresa.

    Giuseppe e la sorella Violetta sono stati esclusi dalla proprietà e dalla gestione di Esselunga, beneficiando di un lauto patrimonio, perché il padre aveva scelto la figlia Marina, nata dal secondo matrimonio, come responsabile del gruppo.

    Per la verità si dice che Bernardo Caprotti avesse affidato a Marina il compito di vendere Esselunga a una multinazionale forse per evitare il pericolo, non si sa mai, che la sua amata creatura finisse nelle mani delle odiate Coop, quelle descritte in “Falce e carrello”, un pamphlet polemico e pieno di calunnie con il quale Caprotti, complici giornalisti ed economisti pronti al servizio, si ergeva a campione del libero mercato mentre finanziava Forza Italia dell’amico Silvio Berlusconi.

    La figlia Marina, comunque, non ha venduto, guida saldamente la società con qualche strappo in avanti come la famosa pubblicità della pesca, mamma e papà separati e il figlio che sogna l’amore eterno. La prossima volta la coppia sarà omosessuale, allora sì che sarà una rivoluzione. 

    Il libro di Giuseppe Caprotti è coraggioso, deve essergli costato una fatica enorme. Una resa dei conti con la famiglia, anche se è difficile identificarla perché, afferma, «per Bernardo la famiglia era l’azienda». Non usa mai la parola «papà». 

    Qualche tempo dopo averlo licenziato, Bernardo disse al figlio: «Pensavo ti saresti sparato». Il capitalismo famigliare ha bisogno evidentemente di queste trame e di questi protagonisti. Niente è per caso. Il titolo del libro rimanda a San Bernardino alle Ossa, chiesa confinante col Verziere, nel centro di Milano, vicino all’Università Statale, che una volta era l’ospedale, quello delle epidemie.

    L’altare, le croci, le pareti sono fatti di ossa e teschi. Bernardo Caprotti portava qui i figli, forse perché, per chi sa ascoltare, i morti ci parlano.

    A Natale per passare una festa serena, scrive infine Giuseppe, al posto di Jingle Bells, Bernardo «ci faceva ascoltare i dischi con i discorsi di Mussolini». Allora è tutto chiaro, era un fascista? «No», assicura Giuseppe, «solo un provocatore».

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