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    La new wave della destra: viaggio nella cultura di Meloni & Co.

    J.R.R. Tolkien. Credit: AGF

    Il pensiero conservatore in Italia spesso ha sofferto di complesso d’inferiorità rispetto alla sinistra. Ma la vittoria alle elezioni può cambiare le cose. Viaggio nella filosofia, nella letteratura e nella musica di riferimento di Meloni & Co. Da Morgan a... Dante

    Di Giuliano Guida Bardi
    Pubblicato il 14 Gen. 2023 alle 08:30

    «È evidente che la gente è poco seria, quando parla di sinistra o destra», cantava Giorgio Gaber, anche se sembra che siano trascorsi ben più di 28 anni da quel 1995 in cui la canzone fu pubblicata.

    Figuriamoci quando il discorso inerisce il più anguillesco e sfuggente degli argomenti: la cultura. Le categorie, poi, di cultura di destra o di sinistra sono un tema ad alto tasso di pericolosità.

    In Italia gran parte degli intellettuali (altra rischiosissima definizione) ritengono che una cultura di destra, tout court, non esista.

    Non servirà citare un noto giornalista: «Voi vi sentite inferiori perché non avete uno straccio di intellettuale da 300 anni! Siete messi male!», né un’altra celebrità del piccolo schermo che, per commentare una frase rude pronunciata da un parlamentare della destra, ha detto: «Il fatto che si aderisca a Fratelli d’Italia non obbliga a pescare il peggio della cultura di destra, offendendo una signora in questo modo».

    Sono convinzioni radicate nel nostro immaginario nazionale. Basti pensare all’incipit dell’insuperato articolo “I grandi scrittori? Tutti di destra!” che Giovanni Raboni, poeta e intellettuale dichiaratamente di sinistra, pubblicò sul Corriere della Sera nel marzo del 2002: «Se c’è qualcosa su cui destra e sinistra sembrano essere, da un po’ di tempo, sorprendentemente d’accordo è che in Italia non esiste una cultura di destra degna di questo nome». Salvo poi dimostrare il contrario.

    Ma il punto da cui muovere è esattamente questo: che la sinistra rivendichi un proprio primato culturale è affermazione da dimostrare, ma comprensibile. Che la destra, invece, abbia sinora accettato la propria subalternità intellettuale è davvero oscuro. 

    Se n’è accorto Domenico de Masi, sociologo, comunicatore e intellettuale di pregio: «Dal dopoguerra l’egemonia della sinistra ha alimentato la convinzione generale che la sua cultura fosse ricca, alta e raffinata, mentre quella di destra marginale, rozza e popolare. Questo stereotipo ha finito per convincere la stessa destra».  

    La vittoria alle elezioni del 25 settembre scorso ha cominciato a far sentire qualche refolo di novità e far vacillare quest’idea. Non solo perché questa volta il successo è tutto del partito di Giorgia Meloni, che è l’estrema destra del Parlamento italiano. Ma perché è proprio in questo partito e nella generazione Atreju che si è sviluppata la più orgogliosa riappropriazione di identità culturale delle culture non progressiste.

    Non si tratta solo dell’abusato J.R.R. Tolkien con l’epopea del “Signore degli Anelli”. Né di Michael Ende, autore de “La storia infinita”, il cui protagonista è proprio Atreju, eroe che combatte il nichilismo imperante. È la riscoperta di un’intera tradizione letteraria, filosofica, artistica che a destra si comincia a rivendicare.

    Marcello Veneziani, giornalista, filosofo e guru della destra riflessiva, è consapevole che non si possa parlare di una cultura univoca, a destra: «Le sensibilità sono troppo diverse per poter stabilire un menù unico e prestabilito, valido per conservatori, nazional-populisti, tradizionalisti, cattolici e no», ma è certo che «la cultura di sinistra non solo si ritiene antropologicamente superiore, ma nega perfino che esista una cultura dalle parti della destra.

    In realtà non esiste un legame organico e vitale tra la cultura ritenuta di destra e la destra politica, solo episodici e transitori passaggi. Ma la grande cultura e i giganti del pensiero, dell’arte e della letteratura furono variamente e singolarmente più orientati “verso destra” che verso sinistra. Dovremmo compilare un elenco che coincide coi due terzi del pensiero, dell’arte e della letteratura del Novecento, per non andare ancora più indietro».

    Che è poi il pensiero di Giovanni Raboni, nel citato e controverso articolo di 20 anni fa: «Per dirla nel più diretto e disadorno e a prima vista (ma solo a prima vista) provocatorio dei modi, la verità dei fatti è la seguente: che non pochi, anzi molti, anzi moltissimi tra i protagonisti o quantomeno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del Novecento appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra – dalla più illuminata alla più retriva, dalla più conservatrice alla più eversiva, dalla più perbenistica alla più canagliesca – che si sono intrecciate o contrastate o sono semplicemente coesistite nel corso del ventesimo secolo».

    E, a corredo della tesi rivoluzionaria, Raboni fece seguire l’idea dai nomi, in rigoroso ordine alfabetico, degli intellettuali di cui parlava,  «Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Croce, D’Annunzio, Drieu La Rochelle, T. S. Eliot, E. M. Forster, C. E. Gadda, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Mauriac, Maurras, Montale, Montherlant, Nabokov, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, W.B. Yeats». A cui aggiungere i convertiti Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell, Silone, Vittorini. 

    Come è possibile che, con questo parterre de rois, la convinzione della inferiorità culturale delle destre sia, sempre per leggere Raboni, «talmente diffusa e soprattutto, si direbbe, così profondamente radicata, da trasformarsi nell’immaginario collettivo in una sorta di luogo comune metastorico»?

    Marcello Veneziani ha le idee chiare: perché «non esiste un potere culturale o una strategia culturale di destra. Per dirla con una semplificazione: a destra c’è un popolo e ci sono singole vette culturali, di solito appartate; ma non c’è un ceto mediano e non c’è chi traduce la cultura in organizzazione, impresa, collettivo; a sinistra invece c’è soprattutto quello, club intellettuali, sette, lobby, un ceto largo di impiegati di concetto; ma senza apici e senza popolo. Ma sono solo semplificazioni, per rendere l’idea. A sinistra c’è stato un partito degli intellettuali, a destra no, al più ogni intellettuale faceva partito a sé».

    Idea condivisa da un altro importante intellettuale di destra, Gianfranco De Turris, saggista e studioso della letteratura del fantastico: «Questa vecchia storia risale all’immediato dopoguerra: la Dc si prese la marca economica e il Pci la cultura. Nell’arco di tutti questi anni ci sono state tantissime manifestazioni di culture non di sinistra. Moltissimi settimanali, la Rusconi…, che però non sono mai stati accettati. Il guru di questa lettura è stato Umberto Eco, che ha fatto il suo dovere di intellettuale organico dicendo che l’unica cultura esistente era quella di sinistra. C’è la presunzione da parte della sinistra di avere il monopolio della cultura e la doverosità di escludere tutti quelli che pensano in altro modo».

    Ma chi c’è nel pantheon della destra? Veneziani rifugge dalla categorizzazione: «Non esistono pantheon culturali della destra italiana. Ci sono autori e filoni di vario spessore e varia estrazione».

    Invece un’originale lettura viene da Marco Cimmino, esperto di storia militare e conferenziere (non certo progressista): «Non le dico i soliti Drieu La Rochelle, il reazionario francese che dopo la seconda guerra mondiale, accusato di collaborazionismo, si tolse la vita. Né Brasillach, l’unico scrittore che fu giustiziato sotto De Gaulle per crimini di pensiero. Le dico invece che il primo grande pensatore a cui si ispira la destra è Dante Alighieri. Già ai suoi tempi passava per misoneista e antiprogressista».

    «Lui è il simbolo primo di una civiltà culturale non cronologica, ma diacronica. Lascio ai più moderni la banalità di Tolkien, ma credo che la destra stia principalmente nella grande letteratura italiana di Dante, autore reazionario nel senso più spirituale. Soprattutto se contrapposto a Manzoni, il neoconvertito esponente di quel cattolicesimo velleitario che in Italia fa ancora oggi capolino».

    «Manzoni è la metafora di quella certa sinistra che sa predicare molto bene, ma razzolare molto male. Se mi si chiede quale è il tratto distintivo delle due visioni del mondo, mi pare che la cultura di destra sia incentrata sull’essere umano, mentre a sinistra il fulcro sono le idee e i movimenti. La sinistra, però, si perde nel concreto, perché, come diceva Flaiano, “sulla bandiera italiana sta scritto tengo famiglia”. A sinistra, se la realtà contraddice la teoria, si adegua la realtà e non la teoria», ironizza Cimmino.

    Il nuovo corso culturale della premier si evince anche dall’aver nominato, al dicastero che fu di Giovanni Gentile, Gennaro Sangiuliano. È il ministro che più caratterizza l’ideologia meloniana di riappropriazione culturale e che sottolinea la nouvelle vague della destra italiana.

    Sangiuliano, autore fecondo, biografo dell’“anarchico conservatore” Prezzolini, è di destra da sempre. Militante del Fronte della Gioventù, fu eletto in una delle circoscrizioni di Napoli per l’Msi. Proprio a lui si rivolgono le istanze destrorse.

    In una lettera aperta è De Turris a dire al ministro che la cultura, gramscianamente parlando, è veicolo di trasmissione di idee e valori: «Essa è il più importante mezzo di influenza esistente». De Turris invita il “suo” ministro, che era andato a Napoli a rendere omaggio alla tomba di Benedetto Croce, a non dimenticare che «l’Italia ha avuto tre grandi filosofi nel Novecento: Croce, Gentile ed Evola, per identificare altrettanti filoni di pensiero».

    E che siano i tre grandi riferimenti della destra, non c’è dubbio. Quelli ampiamente citati in un’inchiesta del 1979 condotta da un eccentrico e curiosissimo intellettuale, Furio Jesi, prematuramente scomparso.

    Nel volumetto, ripubblicato nel 2011 da Nottetempo, l’originale Jesi dà della cultura di destra una definizione non superabile: «È quella in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola. Innanzitutto: Tradizione e Cultura, ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione, Passato, Origine, Sacro. Una cultura, insomma, fatta di autorità, di sicurezza mitologica circa le forme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche per chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra».

    Ed è questo il must have della destra spirituale: l’insuperata lezione di Oswald Spengler, l’autore de “Il tramonto dell’occidente” del 1918: «L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue: idee senza parole», ad indicare quei valori, trasmessi geneticamente e legati alla trasmissione di mano in mano. La Tradizione, appunto, con la t maiuscola.

    Nell’attualizzazione di quei principi, è sempre De Turris a indicare la via al ministero sangiulianino: interessati e preoccupati «non solo della cultura “alta” e di élite, ma anche di quella “bassa” e “media”, destinata ad ambiti popolari: territorio dal dopoguerra ad oggi di esclusivo appannaggio della sinistra».

    Prosegue De Turris: «Il tuo compito dovrebbe intendersi a 360 gradi, ossia occuparsi della cultura in toto, inclusa appunto quella pop, che non vuol dire automaticamente di sinistra. (…). I ragazzini non possono leggere Croce, Gentile, Evola o Platone, Hegel e Kant. Ci sono forme espressive e linguaggi appropriati alla loro età per far passare certi valori: la musica, i fumetti, la grafica, persino i videogiochi. Per il pensiero conservatore si tratta di approcci ancora oggi inediti, ma fondamentali per non perdere, in questa straordinaria opportunità che adesso ci si presenta, la grande contesa culturale e generazionale che abbiamo di fronte».

    Qualcosa, infatti, si muove anche nel mondo dell’organizzazione degli eventi culturali. Basti pensare alle tante manifestazioni e rassegne «contro il pensiero unico», come amano dire dalle parti della destra. A Cerea, l’AlterFestival. Poi Libropolis a Pietrasanta, L’Augusta Festiva di Lucca o l’Ideario 22 a Cagliari, curato da Fabio Meloni: «Il tema dell’egemonia culturale della sinistra è un po’ stantio.

    Addirittura c’è stata un’evoluzione della lezione gramsciana, tanto da trasformarla in “egemonia di potere” in tutti i settori culturali. Un sistema che non ha subìto alcun arretramento, neanche negli anni più floridi del berlusconismo. È ora di un protagonismo della cultura “non omologata”. 

    Per questo abbiamo voluto con “Ideario 22” dibattiti, confronti, libri della produzione “non conformista”. Una controffensiva culturale per andare oltre il muro del conformismo, proponendo una visione alternativa rispetto al pensiero unico e dominante, così da avviare un periodo di discontinuità totale anche nel campo culturale». Et les jeux sont faits.

    Con il crollo della diga, tutti i settori dello spettacolo e della cultura si fanno avanti. Giornalisti, artisti, pittori, cantanti, musicisti. Essere di destra (forse, non essere di sinistra) non è più lo stigma temutissimo che blocca contratti, scritturazioni, successo.

    Ad aprire la pista, Morgan, l’eclettico cantautore e musicista che è diventato icona del nuovo corso e che – chiamato dal vulcanico sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi – coopera attivamente, anche nella stesura di progetti di legge, a fare della cultura «ciò di cui il mercato si nutre».

    È sua l’elaborazione delle linee programmatiche proposte alla sottoscrizione della «comunità Popolo Culturale». Idee e progetti che vanno dall’inserimento della musica nel codice delle belle arti alla creazione di una Carta costituzionale dell’Arte e della Cultura alla digitalizzazione delle incisioni di opere musicali storiche della musica classica e popolare italiana, fino alla «liberazione del festival di Sanremo dall’occupazione indebita di soggetti non competenti». 

    Morgan si mette alla testa della rinascita culturale in salsa meloniana: «Oggi serve un’idea che faccia rinascere un’Italia debole, proprio antropologicamente. Viviamo in un Paese soffocante. Invece l’Italia è conosciuta storicamente in tutto il mondo proprio per il suo carattere slanciato, solare. Qui si respira l’arte. Lo chiamano il Belpaese, ma questa è storia, non è attualità. Lo stile di vita italiano oggi non è realizzato, l’Italia è schiacciata. Siamo involuti. Ma potremmo essere molto forti, molto felici. Ci vuole uno scatto perché la politica ha il potere di far vivere la collettività in modo sereno. Vorrei che fosse riconosciuto nuovamente il merito, perché negli anni ci siamo tarati su una meschina mediocrità e chi emerge viene abbattuto. Questo è un problema eminentemente culturale, non solo di politica del giorno per giorno».

    Si (ri)affaccia alla storia italiana una cultura di destra non (troppo) puzzona, che ha orgoglio di farsi chiamare conservatrice, come accade in tutto il resto del mondo. Una destra che ha ancora strada da fare se è vero, come dice Cimmino, che «la destra ha paura di dichiarare i propri odi, manca di ironia.

    Ma soprattutto manca di un’autostima di fondo che le permetta di affermare la sua diversità dal pensiero cult. Tendiamo a essere quelli che devono sempre giustificarsi: se si parla di emigrazione bisogna premettere di non essere razzisti, sempre assecondando l’idea che il tribunale della sinistra ci giudichi.

    Insomma, per paura di passare per i cattivi, siamo diventati buonisti». Insomma, per chiudere come avevamo iniziato, con Giorgio Gaber: «Tutti noi ce la prendiamo con la storia / Ma io dico che la colpa è nostra».

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