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Sergio Castellitto a TPI: “Il cinema è anestetizzato, la politica non c’è più. Non arrendiamoci al conformismo”

Di Federica Graziani
Pubblicato il 3 Lug. 2022 alle 11:17
Fra un anno compirai 70 anni.

«Eh. Cominciamo bene…».

Un’età importante e in cui si tirano dei bilanci, forse. Qual è il tuo sul cinema di oggi?

«Quando mio figlio ha fatto trent’anni ha detto che avrebbe fatto il primo bilancio della sua vita, mia figlia quando ha fatto diciott’anni ha detto che avrebbe fatto il primo bilancio della sua vita, insomma la vita è una sequenza di bilanci, che servono e non servono».

Ma tu hai cominciato a lavorare in un cinema completamente diverso dall’attuale, con Rosi, Scola, von Trotta. Come l’hai visto cambiare?

«Questa è stata la mia fortuna. Credo che una generazione si classifichi per un passato in comune, un presente col quale è in conflitto e un futuro da costruire insieme. In questo senso, l’ultima grande generazione del cinema è stata quella di Scola, Pietrangeli, Ferreri, Monicelli, Fellini e così via. Dopo c’è stata una serie di individualità, anche grandi, ma mai più a comporre una trama, un intero mondo di cineasti, sceneggiatori, scenografi, costumisti, produttori così formidabili come quella generazione là. Io ho avuto la fortuna di lavorare con quelle persone, con Scola, con Monicelli, con Marco Ferreri, con Mastroianni, Gassman, Manfredi. E a loro devo sostanzialmente l’amore per questo mestiere e soprattutto un senso di utilità, sia artistica che emotiva, che il mio mestiere dovrebbe avere. Gli artisti dovrebbero servire secondo me a questo, essere una lente d’ingrandimento che consenta alle persone di capire delle cose attraverso alcuni strumenti: l’emotività, la psicologia, il sentimento. In questo senso i grandi cineasti che ho menzionato prima sono stati e sono dei grandi benefattori. Ma in quegli anni c’era una necessità diversa. Oggi, il trionfo della televisione generalista prima, e quello della rete e delle piattaforme ora, ha spappolato quella visione di mondo lì».

C’è una scena, forse minore, in “Non ti muovere” in cui il tuo personaggio chiede a Giallini: «Ma tu ci vai a puttane?». Ecco, a me, che sono alla soglia dei 40 anni e sono cresciuta con un cinema che nella sua contemporaneità è assai diverso da quello che citavi prima tu, quella è sembrata una frase inaudita. Ora: il film è del 2004 eppure a me pare che quella frase lì nel cinema italiano di adesso non avrei mai potuto sentirla. Non è che il fenomeno sia sparito, ma il cinema italiano non lo racconta o, se lo fa e quando lo fa, lo fa per accenni, timidamente.

«È così. Prima c’era la possibilità di una scandalosità, e non perché si diceva la parola “puttane”. Oggi il cinema e tutti i linguaggi della comunicazione sono anestetizzati, conformi a una certa idea di progresso civile. C’è la tendenza a costruire un dissenso che è in realtà il vero consenso. Un conformismo travestito da dissenso».

E infatti tu dici spesso di essere contro. Ma contro cosa?

«Guarda, questo è un fatto innanzitutto caratteriale. Ti dico una cosa su “Non ti muovere”. Al di là della storia intima dell’amore messo in scena, io lo considero un melodramma politico. C’è un mondo borghese che si scontra con un mondo apparentemente miserabile. Ho sempre pensato ci sia più politica in un quadro di Miró che in un servizio giornalistico e se mi sono battuto per qualcosa è perché i segni, i simboli, le immagini e le metafore siano più utili della descrizione tout court della realtà».

A proposito di “Non ti muovere”, un mio amico mi ha raccontato di aver letto personalmente un biglietto di Steven Spielberg al produttore del tuo film, Riccardo Tozzi, in cui il regista lo ringraziava per «la bellissima serata passata a vedere con sua moglie “Don’t Move” by Sergio Castellitto».

«In realtà, Steven Spielberg mi scrisse una lettera personale in quell’occasione. Ho un certo pudore rispetto a queste cose, ma quella lettera la conservo con emozione».

E l’altra anima di “Non ti muovere”, tua moglie? Come fate a lavorare insieme e a essere sposati da 35 anni?

«Noi questa cosa non l’abbiamo mai costruita. Io la spiego così, in maniera molto semplice: ci siamo innamorati. E le nostre nature, completamente diverse, hanno trovato dentro alla placenta dell’altro la geografia, il territorio giusto per vivere. Ci siamo amati. Ci siamo fidati l’uno dell’altro e ci siamo ritrovati dopo 35 anni ancora… ecco, magari ancora a regalarci dei fiori.

Naturalmente più io, eh…».

E tuo figlio Pietro, quali sono le cose che vi accomunano?

«Mio figlio ha una storia completamente diversa dalla mia. Un giorno chiacchieravamo e ci dicevamo che se in un mondo parallelo – in un metaverso, per farla contemporanea – ci fossimo incontrati entrambi trentenni forse non saremmo andati d’accordo».

Perché?

«Beh, perché la propria storia ha un senso e io provengo da una famiglia e da una vita che non era indirizzata naturalmente a un destino artistico, peraltro di successo. Mentre lui nasce quello che io non sono stato, cioè figlio d’arte. Ha respirato libertà, letteratura, cinema, chiacchiere, anche cazzeggio, eh, perché non vorrei farla più seria di quello che è. Siamo una famiglia di burloni e questo è quello di cui vado più fiero, ancora riusciamo a dire battute che fanno ridere gli altri seduti a tavola. La sua storia nasce in maniera diversa, ma i figli sai, li ami naturalmente, per una sorta di biologia obbligata. Non è detto che, pur amandoli, tu li stimi. Accorgersi di ammirare le scelte dei propri figli, cosa che io provo, è un bel risultato nella vita di un genitore, e non solo per la vecchia sinfonia del “allora ho seminato bene” perché io credo nell’individualità e credo che tu da genitore possa dire o fare quello che vuoi, ma vince sempre la natura dell’individuo. Però ho la grande soddisfazione di non aver mai visto negli occhi dei miei figli un’inappetenza rispetto alla vita, anzi sempre un’intenzione progettuale, il desiderio di fare un metro in avanti piuttosto che uno indietro».

Prima dicevi di “Non ti muovere” che è un film politico. Quali sono i film che oggi portano in scena i conflitti?

«Sai, il cinema e soprattutto il cinema italiano oggi risente di una crisi talmente profonda… Il cinema è poesia che costa un sacco di soldi per cui non basta prendere un foglio di carta e disegnarci sopra o scrivere una poesia su un tovagliolo da osteria. Tutto torna sempre ai soldi, in qualche modo. Ecco perciò il desiderio iniziale, e forse anche l’intenzione giusta di un’industria di questo tipo, dovrebbe essere quello perlomeno di riportare a casa il denaro speso per fare il film. C’è stata la tendenza, in questi ultimi anni, a considerare il cinema più giusto e necessario che bello. Però se è vero quello che dice Shakespeare che l’arte non è altro che uno specchio della società, ecco il nostro cinema è proprio lo specchio della nostra società. Tuttavia trovo che ci siano autori molto interessanti. Pietro Marcello, con il suo “Martin Eden”, per esempio. Un popolo non ha solo una vita sociale, ha anche una psiche e non è solo quella individuale di ognuno di noi ma è quella che si va a comporre nella generale energia che un Paese esprime. Lo si è visto durante la pandemia e lo si vede adesso durante la guerra. Quando vedi in televisione le interviste che si fanno alle persone per strada, ai mercati, nelle file, la parola più spesso usata è rassegnazione. È tutto un: “E vabbè, è andata così, speriamo meglio, ma insomma…”. Il cinema riflette questo clima e poi corre ai ripari, in quanto industria ha pur sempre il compito di tirare su il morale delle truppe».

Cosa pensi allora della crisi delle sale? È iniziata davvero con la pandemia o a quell’universo simbolico si era disaffezionati anche prima? E le piattaforme? Ma è poi vero che rubano la polvere di stelle alle sale?

“La sala era già in crisi ben prima della pandemia, anzi per paradosso in fondo il mondo della produzione cinematografica e televisiva non ha così sofferto in quel periodo proprio perché le piattaforme richiedevano sempre più prodotti e la sala era già stata ampiamente sostituita dall’assembramento sul divano».

E tu le vedi?

«Sì, sì, le vedo. Con una certa parsimonia perché capisco che sono anche una sorta di acceleratore di tossicodipendenza del consumo. La possibilità di vedere dieci episodi di seguito rende la visione bulimica. Poi, certo, le vedo perché contengono linguaggi con cui non si può non fare i conti, anzi forse drammaturgicamente la serialità consente un approfondimento drammaturgico che il film, chiuso nel ritmo delle due ore, forse non permette più. Questo però obbliga la scrittura anche a una semplificazione, insomma ’sto brodo della drammaturgia va pure allungato. E poi le serie consentono la possibilità di raccontare qualcosa di “vietato ai minori” che il cinema non ha più, per i motivi che dicevamo prima. Nelle serie esiste la possibilità di indagare gli argomenti in maniera verticale e più dissacrante di quanto ormai riesca a fare il cinema. Un discorso a parte lo merita il teatro, che sopravvive a tutto e a tutti da 4.000 anni e al cui confronto il cinema, con i suoi cent’anni e giù di lì, è quasi un dilettante. Al di là della virtualità e di tutta questa terribile velocità e distanza materica, fisica, c’è ancora il bisogno di uscire da casa e andare in un luogo dove c’è un altro essere umano che ti parla e ti racconta una storia. Fa parte dell’archetipo psichico di ognuno di noi, e questo sopravvive. Un altro aspetto poi da considerare è che oggi l’asse dello “star system”, della comunicazione, si è spostato in maniera significativa sulla classe politica. Oggi le vere star sono i leader politici, sono loro a costruire l’audience, sia del pensiero comune che della scandalosità di una posizione diversa rispetto al pensiero comune. Una delle immagini più penose che mi capita di vedere in televisione è la frotta di poveri cronisti armati di microfoni che corrono appresso a questi politici con gli occhiali scuri e i loro sorrisi sardonici che li evitano per infilarsi dentro i portoni del potere. Pensa cosa succederebbe se improvvisamente, come in un film di fantascienza, tutta l’informazione decidesse di ignorare quel politico che sta entrando in quel portone. A quel politico prenderebbe un attacco di panico… No? Pensa questa scena paradossale in un film di Buñuel».

Ma non è che nella tua scena paradossale già ci siamo? Pensa che io da abitante, anche se svogliato, dei social media, mi accorgo invece che la classe politica cerca disperatamente di esserci, di ribadire la propria presenza, di convincere a tutti i costi il pubblico mentre intanto la leva degli influencer li surclassa. E questo forse proprio perché interpreta meglio i desideri di quel pubblico. E forse quello che manca è un po’ il tuo Giancarlo Iacovoni (il protagonista di “Caterina va in città”, ndr). Oggi chi ha più la statura, pure disperata, di manifestare la sofferenza per la conventicola? Perché adesso un film con Iacovoni che se la prende con Chiara Ferragni non c’è?

«(ride) Giancarlo Iacovoni oggi secondo me c’è ancora. Ma prende quindici gocce di Lexotan al giorno e non è più indignato, è diventato, appunto, rassegnato. Tu devi anche considerare questo: il maggiore atto di protesta attiva oggi in questo Paese è anche il massimo atto di rassegnazione: metà Italia non va a votare. Tutti i politici blaterano di distacco dalla realtà e dal popolo, ma quando poi vincono le elezioni con quel rimanente 40 per cento e spicci, diviso per le varie forze, vanno sul palco e sventolano le bandiere come se il popolo tutto li avesse davvero votati. Non è così! Non è così! La metà, ti rendi conto? La metà di questo Paese non vota, non esercita il suo massimo diritto e questo è il più grande atto di protesta, trattino, rassegnazione che questo Paese si può permettere oggi. Assistiamo a una classe politica che continuamente sembra parlare a te, ma in realtà parla ad altri. Hai presente i conduttori di televendite?».

Ma io ho un’insana passione per le televendite! E, lo confesso, passo diverse notti a guardare i venditori di materassi.

«C’è molta insonnia in giro… C’è un uomo che entra e ci descrive le magnifiche qualità ergonomiche ed ecologiche del materasso. Mentre ci descrive le qualità tecniche del prodotto entra in scena una bellissima ragazza in costume da bagno che si sdraia su quel materasso. E tu, fruitore della televendita, piano piano dimentichi cosa ti sta dicendo l’imbonitore e ti concentri sulla ragazza… La tua attenzione si sposta dal materasso alla ragazza. Alla fine l’imbonitore ti sveglia da questa piccola ipnosi e ti dice il prezzo. Ecco. Oggi mi sembra che la classe politica operi spesso la strategia del materasso. Ci spinge a focalizzare la nostra attenzione su qualcosa ma sta facendo passare qualcos’altro».

Ma se esiste questa specie di incantesimo, la politica dov’è finita? Non l’amministrazione, non l’appeal pubblicitario, ma la politica dove sta?

«Sciascia diceva che il potere è sempre altrove. La politica non c’è più. La mia generazione era abituata a vedere la classe politica in televisione due, tre volte al massimo. Oggi c’è una totale commistione con lo “star system”. Pensa a quello che sta succedendo in questi giorni con la vicenda della scissione dei 5Stelle. Ma chi pensa veramente che alla gente gliene freghi qualcosa di uno psicodramma che è puro esercizio di potere, ricollocazione di sé stessi e del proprio futuro lavorativo mentre metà italiani non arriva alla fine del mese? Ma chi pensa veramente che riempire i talk show di queste cose freghi qualcosa all’umanità disperata di questo Paese? E noi – strategia del materasso – parliamo per una settimana di seguito in televisione della scissione nel Movimento 5 Stelle. Ecco il distacco dalla realtà! Il nostro compito di artisti è di continuare a fare delle cose che abbiano un senso sia per noi che le facciamo sia per chi le va a vedere, perché diventino degli strumenti per consentire alle persone di capirci qualcosa di più. Te l’ho detto, il viso del povero Cristo di Antonello da Messina mi dice di più sulla società che viviamo piuttosto di un talk show che racconta della scissione».

Insomma, ma tu a votare ci vai o no?

«Sempre!».

E cosa voti?

«Questi sono fatti miei. Ma ti posso dire che storicamente ho sempre votato radicale. Pannella mi manca, ci manca molto».

Insomma proprio non insegui la maggioranza. Anche se i radicali sono fra i pochi a dare concretezza alle proprie battaglie politiche, pensa al primo suicidio assistito di qualche giorno fa e al ruolo svolto dall’Associazione Luca Coscioni, alla favolosa raccolta firme per il referendum per l’eutanasia legale finito poi nel nulla…

«Ma sai perché riescono a farlo? Perché non hanno mai lottato per il potere. Il velluto del potere rende schiavo chiunque lo accarezzi. Loro tentano di costruire quella concretezza di cui parli tu, propongono riforme, estendono i diritti civili, ecco la loro forza! Ma la politica è oggi solo gestione del potere e occupazione di posti di privilegio e questo non è meno inquietante in una democrazia di quanto lo sia in una dittatura. Una democrazia come la nostra, oggettivamente così fragile, vive una distanza abissale fra classe dirigente e popolo. Ma poi si può ancora dire popolo?».

Per non fare la fine del popolo nei nostri discorsi e non sparire del tutto nella politica, torniamo al tuo lavoro. Hai interpretato figure di grandi italiani, Fausto Coppi, Don Milani, Enzo Ferrari, Padre Pio. Chi avresti voluto fare e non ti è capitato? Magari non ancora?

«Ho un solo rammarico. Mi sarebbe piaciuto interpretare Franco Basaglia».

Beh, però hai fatto “Il grande cocomero” e sei stato Arturo, maschera di Marco Lombardo Radice. Due figure in qualche modo simili.

«Sì, allora anche “In treatment”, la serie. Io, sai, sono molto fiero di tutti i personaggi fatti per la televisione. Non ho mai avuto l’alterigia di considerare il cinema di per sé più nobile di un prodotto televisivo. Di nobile c’è solo la qualità e l’impegno messo nel lavoro. Anzi. La possibilità di arrivare a dieci, dodici milioni di spettatori lo considero un privilegio. Penso che fare questi film per la televisione, sia stato come costruire una galleria di personaggi anche al servizio del pubblico. E mi sembra che tante volte, sia nel nostro cinema che nella nostra televisione, l’intenzione di raccontare una storia sia meno importante del teorema. Invece il compito, di grande umiltà, è solo quello di raccontare una storia. Dentro la storia ci puoi infilare, certo, la tua visione del mondo, ma la storia è la chiave. Godard diceva che i cineasti americani hanno una cosa in più di noi europei: sanno raccontare le storie».

Credi che la tua carriera sia stata capita in Italia?

«È stata molto amata dal pubblico, e questa per me è stata la vera soddisfazione. Il cinema che ho fatto io è un cinema di libertà narrativa che non si assoggetta a nessun conformismo. Volevo costruire film e racconti che avessero forza popolare ma insieme qualità. Non a caso uno dei miei scrittori preferiti è Simenon, uno che ha scritto migliaia di storie, è arrivato a un pubblico enorme, ma dentro ci ha messo sempre una qualità narrativa straordinaria. Margaret e io siamo sempre stati dei cani sciolti».

Ma magari poi ci fosse il politicamente corretto esercitato! Non passano le leggi sulla cittadinanza, sull’eutanasia, ma dove sta il politicamente corretto in Italia?

«Ho letto molti anni fa un libro, “La cultura del piagnisteo” di Robert Hughes. Ecco quello è un saggio di trent’anni fa che penso spieghi molto bene le vendette intellettuali che ultimamente si vedono in opera nel processo di cancellazione culturale e nella difficoltà di fare satira, se non all’interno di parametri controllatissimi. Quelli sono crimini culturali, altroché. Bisogna accettare qualsiasi forma nella creatività, il conflitto delle idee parte da lì, la censura a prescindere non può esistere».

Mi spingi a chiederti allora di quello che succede ora fra Russia e Ucraina nel dibattito italiano. Hai seguito la vicenda in cui Paolo Nori non ha potuto tenere le sue lezioni sugli scrittori russi all’Università Bicocca «per evitare ogni forma di tensione in un momento tanto grave»?

«Guarda la mia reazione, al leggere la notizia, è stato uscire di casa e andare a comprare il libro di Nori, “Sanguina ancora”, che è un libro bellissimo e che non avevo letto prima. La mia posizione è quella di andare sempre verso le voci minoritarie, se io entro in una stanza con dieci persone, naturalmente ascolto con più attenzione l’uno che non è d’accordo con gli altri. Il mio giudizio si forma dopo aver ascoltato quella voce lì. Ma poi non sono solo i letterati russi, pensa agli atleti che non hanno partecipato alle gare internazionali, pensa al Padiglione russo della Biennale di Venezia che è chiuso. Io qualche giorno fa ero lì con la mia famiglia e il fatto che quel Padiglione fosse sbarrato, con un poliziotto davanti, mi è sembrato triste. Ma l’unica tragedia è nelle centinaia di civili, donne, bambini ucraini che stanno morendo sotto le bombe. E sopra le loro spalle, i poteri del mondo ridisegnano le nuove sfere d’influenza».

Per chiudere in accordo con l’inizio della nostra conversazione, e quindi con un bilancio: pensi di aver realizzato quello che volevi essere?

«Credo di sì. Ma penso anche che il senso di inadeguatezza sia una benzina, che l’idea del fallimento nell’arte vada sempre coltivata. E penso che un artista non dovrebbe sentirsi mai completamente convinto e contento di quello che ha fatto, altrimenti si diventa palloni gonfiati».

Anche se ti avevo promesso sarebbe stata l’ultima domanda, visto che citi la contentezza te ne faccio un’altra. Ho sentito in una tua intervista televisiva che tutti i tuoi quattro figli hanno come secondo nome “Contento” e che hai deciso così con tua moglie perché credete esista una differenza tra contentezza e felicità. Qual è?

«La contentezza è uno stato d’animo più completo, più rasserenante. La felicità confina con una sorta di isteria, con la paura di perderla, questa felicità. Vedi, la contentezza ti può accompagnare con meno violenza e non esclude la malinconia o la nostalgia. Pur nel sapere che la vita non è tutta giusta, la contentezza può completarci. Soprattutto in un’epoca in cui il conseguimento dei risultati, del potere personale, di quello economico, del successo, genera profonde solitudini, credo che la contentezza sia quando tu dici a un altro: “Come stai?”. E quello ci pensa un po’ su e ti dice “Bah, sono contento”. Vedi, si può già recitare un dialogo così, lo capisci subito, fa già parte del mondo».

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