Ci è voluta un’inchiesta della magistratura perché la parte prevalente della politica e dell’informazione in Italia aprissero gli occhi sui problemi congeniti del cosiddetto «Modello Milano».
Negli ultimi quindici anni pressoché tutti nel nostro Paese hanno applaudito alla piccola metropoli europea, efficiente e globalizzata, che stava crescendo ai piedi della Madonnina, con un’accelerazione particolare dopo l’Expo. Le tendopoli di protesta allestite nel 2023 da alcuni collettivi studenteschi per denunciare il caro-affitti sono state trattate con sufficienza dalla maggioranza dei partiti e dei commentatori. Le contestazioni provenienti da altre associazioni e le analisi critiche documentate nel corso del tempo da diversi accademici sono state ignorate, o peggio. Solo le ipotesi di reato formulate adesso dalla Procura – anche senza entrare nel merito della vicenda giudiziaria – hanno imposto una riflessione profonda.
Così, quasi che fosse una novità dell’ultim’ora, molti hanno improvvisamente scoperto che oggi a Milano un normale impiegato, con il 30% del suo stipendio, può permettersi di affittare al massimo 18 metri quadrati nelle zone centrali e semicentrali della città e non più di 44 metri quadrati nel resto del territorio comunale (sono dati dell’Osservatorio Casa Abbordabile, promosso dalle cooperative Ccl e Lum con il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico). Se vuole più spazio, quell’impiegato deve aumentare la quota del proprio salario da destinare al canone di locazione oppure condividere l’appartamento con qualcun altro. O magari entrambe le cose.
La finanziaria svizzera Julius Baer piazza il capoluogo della Lombardia al decimo posto nel mondo e al quinto in Europa tra le città con il costo della vita più alto. I prezzi insostenibili sono stati verosimilmente tra i fattori determinanti nel convincere sempre più milanesi a trasferirsi altrove negli ultimi anni: tra il 2021 e il 2024 circa 146mila cittadini hanno spostato la residenza in un altro Comune italiano, a fronte di 126mila arrivi dal resto del Paese.
Per converso, secondo la società di consulenza Henley & Partners, nell’ultimo decennio il numero di milionari che vivono a Milano è aumentato del 24%: oggi sono 115mila (per fare un raffronto, a Roma sono meno della metà: 52mila). E a questi vanno aggiunti 17 miliardari (a Roma se ne contano 9).
L’ex «capitale morale» è diventata un club di lusso che tende a escludere i ceti popolari e medi. È successo sotto i nostri occhi, ma qualcuno forse era distratto dalle stazze dei grattacieli che si moltiplicavano.
Paperoni, venite
La mutazione non è avvenuta per caso, ma è il risultato di precise scelte politiche, prese a livello sia nazionale sia locale. Nel 2017 il Governo Renzi ha introdotto un regime fiscale agevolato – poi ribattezzato «Legge Ronaldo» – per incentivare gli ultra-ricchi di tutto il mondo a trasferire la propria residenza fiscale in Italia: una tassa piatta da 100mila euro sui redditi prodotti all’estero, qualsiasi sia il relativo ammontare. La norma è stata confermata da tutti gli esecutivi che sono venuti dopo, incluso il Governo Meloni, che quantomeno l’anno scorso ha elevato il prelievo a 200mila euro.
Tra il 2020 e il 2023 hanno aderito alla flat tax per “paperoni” quasi 4mila nuovi contribuenti. Non è dato sapere quanti di essi abbiano scelto come residenza Milano, ma gli indizi che si tratti di una larga percentuale non mancano. Il colosso degli immobili di lusso Barnes colloca il capoluogo lombardo al quinto posto nel mondo – davanti a Parigi, New York e Londra – nella classifica delle mete più attrattive per gli “Uhnwi” (Ultra High Net Worth Individual), ossia soggetti con patrimoni investibili superiori ai 30 milioni di dollari. «In meno di una generazione, Milano ha rispolverato la sua immagine per affermarsi come una delle principali destinazioni sulla mappa mondiale del mercato immobiliare di prestigio», chiosa Luca Pietro Ungaro, direttore del Business Development di Barnes in Italia.
Secondo i software applicati all’immobiliare di Reopla, nel 2022 la città devota a Sant’Ambrogio ha visto concentrato su di sé quasi il 36% delle compravendite italiane di case con valore sopra il milione di euro. Perché i ricchi cercano case «da ricchi». Ma è vero anche il contrario: servono acquirenti «coi danè» per riuscire vendere i tanti palazzi extra-lusso sorti come funghi negli ultimi anni. Ed è qui che entrano in gioco le responsabilità politiche dell’Amministrazione comunale.
La cementificazione “di fascia alta” è stata spinta a due mani da Palazzo Marino, che ha garantito ai costruttori condizioni di estremo vantaggio: dagli oneri di urbanizzazione lasciati invariati per tre lustri (dal 2007 al 2023) alla possibilità di erigere grattacieli con una semplice Scia (Segnalazione Certificata di Inizio Attività). Per la gioia degli immobiliaristi, tra il 2015 e il 2023 i prezzi delle abitazioni a Milano sono aumentati in media del 58%, quasi tre volte l’andamento dell’indice generale dei prezzi. Ma i tappeti rossi stesi per i milionari non sono stati affatto equilibrati da nuove case popolari: dal 2015 al 2021 il Comune ha autorizzato la costruzione di soli 196 alloggi pubblici a fronte di decine di migliaia di richiedenti che ogni anno restano a bocca asciutta. Così la promessa «rigenerazione urbana» di alcuni quartieri un tempo popolari – come Isola e Porta Nuova – si è tradotta in diffusi processi di gentrificazione: operai, tranvieri, infermieri, studenti universitari hanno visto lievitare il costo della vita a tal punto da dover sloggiare per far spazio a imprenditori, manager, influencer.
Come se tutto questo non bastasse, l’imbuto immobiliare è stato ulteriormente ristretto dal nuovo business degli affitti brevi. Negli ultimi quindici anni il numero dei turisti che arrivano in città è raddoppiato, ma l’offerta di posti letto in albergo è rimasta la stessa: il vuoto è stato quindi riempito da migliaia di b&b e affittacamere aperti all’interno di condomini privati con annessi annunci sulle principali piattaforme online. Dal 2008 la capacità ricettiva del settore extra-alberghiero è aumentata di quindici volte: tutti alloggi sottratti al mercato delle locazioni e delle compravendite. Con il risultato di far salire ancor più i valori immobiliari.
Sviluppo a rischio
«A Milano si è creata una divaricazione estrema tra i costi abitativi e i redditi delle persone», conferma a TPI il professor Massimo Bricocoli, direttore del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico. «Trovare una casa è diventato difficile non solo per i lavoratori meno qualificati, ma anche per medici o professori universitari. E questo non fa bene né al mercato del lavoro né allo sviluppo della città».
L’anno scorso Bricocoli, insieme al ricercatore Marco Peverini, ha pubblicato un saggio, dal titolo “Milano per chi?” (edito da Lettera Ventidue), in cui analizza come «la città attrattiva è sempre meno abbordabile», dove per abbordabile si intende un equo bilanciamento tra costi abitativi e capacità economica di acquirenti e inquilini.
«Il problema – chiarisce il docente del Politecnico – non è solo nel fatto che i prezzi delle abitazioni aumentano: questo avviene anche in molte altre grandi città europee, ma la differenza è che lì crescono anche i redditi delle persone. A Milano, invece, come nel resto d’Italia, i redditi sono stagnanti. Così la forbice si è divaricata in modo estremo».
Attenzione, però: sarebbe un errore ricondurre tutto unicamente a un tema nazionale di perdita di potere d’acquisto dei cittadini. «Le amministrazioni locali devono tener conto delle politiche nazionali», puntualizza Bricocoli. «All’estero, città come Parigi, Vienna, Barcellona stanno lavorando per garantire sul mercato un’offerta abitativa abbordabile. Si fa un attentissimo uso del patrimonio di proprietà pubblica, sia aree pubbliche sia immobili pubblici. A Parigi addirittura il Comune acquisisce patrimonio privato inutilizzato per poi riconvertirlo in abitazioni sociali. Poi ci sono svariate regole che possono essere imposte ai costruttori privati: dal prelievo di una parte dei profitti allo scomputo degli oneri di urbanizzazione a condizione che si metta a disposizione una quota di alloggi per il mercato sociale. Se invece una città inizia a mobilitare il proprio patrimonio immobiliare con la logica di puntare al rialzo dei valori, così come si muove la finanza immobiliare, allora diventa difficile…».
Lezioni dall’Europa
A Vienna, città che da anni viene incoronata da The Economist come «la più vivibile del mondo», un quarto degli abitanti dimora in una casa popolare e se si includono anche gli alloggi di cooperative costruiti con sovvenzioni comunali si supera la metà della popolazione. Con 220mila appartamenti messi ad affitto sociale, la capitale austriaca è il Comune con il più elevato tasso di proprietà immobiliare pubblica in Europa. Un primato che deriva da una politica ormai secolare, iniziata negli anni Venti del Novecento dall’amministrazione di allora a guida socialista. E che dura tutt’ora. Nel 2019 il municipio ha introdotto una nuova norma urbanistica che prevede che, nei complessi con più di 5.000 metri quadrati di superficie abitabile, due terzi debbano essere destinati ad edilizia residenziale pubblica.
Appaltare la politica urbanistica di una città alle scelte dei privati non porta mai buoni risultati in termini di qualità della vita dei residenti. A Barcellona il turismo di massa lasciato crescere senza regole ha finito per esasperare i cittadini locali: nei mesi scorsi sono diventati virali sui social i video di barcellonesi che sparano ai turisti per strada con pistole ad acqua. Il Comune è allora intervenuto con misure drastiche: dopo aver introdotto una serie di forti limitazioni agli affitti brevi, l’anno scorso l’Ayuntamiento ha annunciato che non rinnoverà nessuna delle licenze per alloggi turistici e non ne rilascerà di nuove. Entro il 2028 nella capitale della Catalogna b&b e affittacamere privati saranno di fatto vietati.
Paladina numero uno della battaglia di Barcellona contro l’overtourism è Ada Colau, sindaca dal 2015 al 2023 dopo essere stata per anni attivista per il diritto alla casa. Intervistata qualche mese fa dal programma tv 100 Minuti, Colau ha risposto così alla ricorrente obiezione secondo cui un Comune non potrebbe togliere a un privato la libertà di decidere di mettere in affitto per i turisti la propria casa: «La città è uno spazio comune, non privato. Deve essere per tutti. E ci devono essere le case, perché, se non ci sono case, non ci sono cittadini. E, se non ci sono cittadini, non esiste la città».
Un socialista in America
Anche dall’altra parte dell’Oceano Atlantico c’è chi è pronto a prendere provvedimenti radicali per far tornare la propria città alla portata di tutti. Si chiama Zohran Mamdani, ha 33 anni e lo scorso giugno ha vinto le primarie del Partito Democratico per la candidatura a sindaco di New York staccando di 12 punti un peso massimo come l’ex governatore Andrew Cuomo.
Nella Grande Mela tra il 2011 e il 2022 i prezzi delle case sono aumentati del 68% e oggi il 18% degli inquilini è in ritardo con il pagamento dell’affitto. Mamdani promette che con lui a governo della metropoli le cose cambieranno. La homepage del sito che supporta la sua corsa al City Hall si apre con un impegno a dir poco ambizioso: «Zohran Mamdani si candida a sindaco per abbassare il costo della vita per la working class di New York».
Il suo programma è dirompente: congelare gli affitti per chi vive in alloggi a canone stabilizzato, costruire con fondi comunali 200mila nuove case a prezzi accessibili, aprire supermercati di proprietà comunale che applichino prezzi bassi, autobus gratis in tutta la città, aumentare il salario minimo orario a 30 dollari entro il 2030, offrire un servizio di assistenza all’infanzia gratuito fino ai 5 anni. Il candidato dem ha idee forti anche in tema di coperture economiche: per finanziare questo suo progetto di welfare state newyorkese, intende aumentare le tasse sulle imprese e sui cittadini che guadagnano più di un milione di dollari l’anno.
Come è evidente, Mamdani – membro del Partito Socialista Democratico – ha un’idea di sinistra piuttosto diversa, per non dire diametralmente opposta, rispetto a quella di Beppe Sala. Se il primo ha fatto irruzione in scena dando battaglia al caro-vita , il secondo è accusato di averlo favorito, il caro-vita, incentivando la brandizzazione “luxury” della sua città.
Dalle primarie di New York all’inchiesta della Procura di Milano, passando per la crociata di Barcellona contro le case-vacanza, le città per soli ricchi e turisti sono sul banco degli imputati. Nei processi di gentrificazione e di snaturamento dei centri storici a fini turistici, qualcosa sembra essersi rotto. Chissà che prima o poi anche sotto la Madonnina non arrivi un Mamdani o una Colau a ribaltare il tavolo.
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