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“Il potere dei libri: leggete e non ve ne pentirete”. Parla Giuseppe Laterza

Sul nuovo numero del settimanale The Post Internazionale - TPI, in edicola da venerdì 22 ottobre, il colloquio tra il direttore Giulio Gambino e Giuseppe Laterza, che insieme al cugino Alessandro guida la nota casa editrice, che ha da poco compiuto 120 anni

Di Giulio Gambino
Pubblicato il 23 Ott. 2021 alle 07:01

“Oggi abbiamo un surplus informativo. La generazione dei trentenni ha molte più informazioni di quante ne avessi io (che ho 64 anni) quando ne avevo 30. Il problema è che questo bombardamento informativo molto difficilmente acquisisce una forma. Arriva in maniera frammentaria, ma non c’è mai un momento per metterlo in ordine. I libri sono questo: rappresentano un mezzo ideale per dare forma alle nostre informazioni”. L’editore Giuseppe Laterza, da poco rientrato dal Salone del libro di Torino, in un’intervista affronta il tema del digitale e del rapporto con la carta stampata, nell’editoria e nell’informazione.

Giuseppe Laterza, sei appena tornato dal Salone del Libro. Com’è andata?

«Un grande successo e non era scontato. I dati indicano che con le vendite siamo sopra del 30 per cento sul 2019. Una cosa pazzesca».

Da dove spuntano tutti questi lettori?

«A crescere sono soprattutto i cosiddetti “lettori forti” (chi già legge), non tanto il recupero dei non lettori. Ma di certo non mi dispiace».

Che pubblico c’era a Torino?

«Di tutte le età, di tutte le condizioni sociali. Moltissimi giovani. L’evento di Barbero mi ha colpito. Ho qui le foto impressionanti. Questa è la folla (mostra il telefono), guarda: 1.300 persone. Ed erano, ti giuro, in larghissima parte ragazzi».

Come te lo spieghi?

«I giovani hanno bisogno di guide, intellettuali, se non spirituali. Ed è la stessa cosa che a me è successa anni fa con Bauman. Quando veniva in Italia ad ascoltarlo c’erano migliaia di persone, in buona parte giovani».

E un tipo come Barbero come reagisce?

«A uno di questi incontri torinesi gli ho chiesto: “Come ti ha cambiato questo successo pazzesco di Dante, il fatto che sei una star del web?” Mi ha risposto: “Per me è una grandissima gratificazione, però io continuo a essere un ricercatore, e quando faccio le mie ricerche le faccio perché mi piace la ricerca. Io non penso al lettore”. Cioè Barbero, come Bauman, non è affatto concessivo».

I giovani sono perlopiù nativi digitali. Dalla semplificazione oggi cercano profondità. Come te lo spieghi?

«Oggi abbiamo un surplus informativo. La generazione dei trentenni ha molte più informazioni di quante ne avessi io (che ho 64 anni) quando ne avevo 30. Però il problema è che questo bombardamento informativo molto difficilmente acquisisce una forma. Arriva in maniera frammentaria, ma non c’è mai un momento per metterlo in ordine. I libri sono questo: rappresentano un mezzo ideale per dare forma alle nostre informazioni».

Quindi il web è morto?

«No. Gino Roncaglia ha pubblicato con noi “L’età della frammentazione” in cui scrive che anche la forma di internet cambia nel tempo. Oggi la forma prevalente su internet è la brevità. Ma la tecnologia non determina automaticamente il contenuto. Il libro quando è nato era prevalentemente una raccolta di testi sparsi. È il romanzo dell’Ottocento che gli dà la forma che conosciamo e che costituisce gli occhiali attraverso cui guardiamo la realtà».

Vale lo stesso per l’informazione?

«Quando 15 anni fa (subito dopo Facebook) i giornalisti hanno cominciato a dire “è finita l’informazione su carta, perché ormai l’informazione si fa sul web” non hanno ragionato abbastanza su cos’è l’informazione e su come si possa articolare in maniera ampia».

E come si coniuga con il web?

«Il digitale può essere uno straordinario veicolo ma accanto alla carta. Accadde lo stesso anche con i libri, quando i guru americani dicevano: “Il libro su carta è morto”».

Era l’epoca dell’e-book. Ma si sbagliavano… 

«Sì, prima del Covid l’e-book in Italia valeva il 4-5 per cento del mercato, dopo è arrivato al 7-8. In America ha raggiunto il 18 per cento e poi è calato. Questo è stato il massimo».

Riecco allora la necessità della combo digitale-carta.

«Ti racconto questa cosa: quando è arrivato il lockdown, noi abbiamo iniziato a organizzare su Instagram una serie di incontri che abbiamo chiamato “casa Laterza”. Un successo straordinario. Lo abbiamo fatto grazie ai moltissimi trentenni con cui lavoro. Nella sede di Roma più della metà dei miei collaboratori hanno meno di 40 anni. Questa generazione ha subito accolto questa opportunità e abbiamo cominciato a ragionare: cosa facciamo sul web per proporre i nostri libri?».

Qualche esempio?

«Lo abbiamo fatto per il libro di Andrea Marcolongo sul viaggio di Enea, animandolo attraverso un cartone animato. Abbiamo chiesto a Stefano Mancuso di raccontare il suo libro sulle piante a tre persone di età diverse, di 18, 13 e 8 anni. Abbiamo cominciato a sperimentare sul web cose che non sono sostitutive del libro di carta, ma integrative».

Se i libri sono una riscoperta, perché allora si leggono sempre meno giornali?

«Mi vengono in mente due motivi. Primo: i giornali italiani sono molto provinciali e del tutto politici. Secondo: i giornali a fine anni Novanta hanno cominciato a dipendere più dalla pubblicità che dai lettori».

In Italia oggi ci sono 4 milioni di italiani che leggono, vanno a teatro, etc. Non sono un po’ pochi?

«No. Devi distinguere. Il fatto se mai è che quei 4 milioni sono un’élite senza potere. La parola élite non è una brutta parola, può non essere una casta, a patto che ci sia mobilità sociale, che quell’élite sia costituita anche da persone che arrivano da classi sociali diverse. Un’élite è fatta dal 10 per cento, l’importante è che il restante 90 possa sperare di entrare a far parte di quel 10».

La sinistra oggi non riesce a interpretare una visione.

«La sinistra oggi è per gran parte conservatrice. È fatta di gente benestante che non vuole mollare i propri privilegi, le proprie piccole o grandi rendite di posizione. Ma la colpa di non avere una visione è anche nostra».

Perché vostra?

«Perché storicamente le idee nuove vengono dal mondo della cultura».

Mancano i pensatori?

«No, sono le agenzie culturali che trasformano le idee in senso comune. Questo è veramente un lavoro dei settimanali come il vostro, dei giornali, delle case editrici: i libri con le buone idee ci sono, il problema è che rimangono lì. Ti faccio un esempio: quando Bauman nel 2001 scrive di “modernità liquida”, quella roba lì diventa senso comune. Ormai di società liquide ne parliamo tutti».

Qual è un tema che fa fatica a entrare nel dibattito pubblico?

«Esiste un’idea molto innovativa di disuguaglianza e welfare, ti cito solo Tony Atkinson che ha scritto un libro fondamentale sul tema. Fabrizio Barca è uno che con il forum delle disuguaglianze promuove questo dibattito. Ma non è ancora diventato senso comune».

Altro?

«Dovremmo pensare a un serio sussidio di disoccupazione come esiste nel Nord Europa».

Di quanto?

«Mah, 1.500-1.600 euro. Pensa a questo: Tony Judt, in “Guasto è il mondo”, parla del fatto che non si deve lasciare solo nessuno nella società ed è paradossale che questo lo abbia detto Trump nel suo discorso di investitura. Il che ti dà un’idea del perché gli operai che hanno perso il lavoro, nella cosiddetta “Rust belt”, votarono Trump».

Come se ne esce?

«Bisogna far accettare a una parte di italiani la necessità di scambiare un sacrificio oggi per un vantaggio domani. La questione ecologica è quella fondamentale. Ma questo effetto lo possono produrre solo le ideologie, cioè le visioni del mondo, che abbiamo stupidamente pensato non fossero più utili».

Negli anni ci siamo illusi che la politica potesse essere sostituita dalla tecnica, dai cosiddetti competenti. Ma i tecnici non sono mai solo tecnici. O no?

«La competenza deve essere al servizio della conoscenza. Oggi abbiamo il Pnrr, un’enorme risorsa, ma che Paese vogliamo ricostruire? Non è la competenza e basta che può dircelo».

Un giudizio su questo governo.

«Credo che questo sia il miglior governo possibile. Dopodiché Draghi non può, da solo, bastare. Ci vuole una buona destra e una buona sinistra che confliggano. Draghi è lì perché è competente, nella disperazione di tutti che non sanno che pesci prendere e si rivolgono a San Mario, ma questa non può essere la dialettica normale».

Non è eccessivo l’appiattimento politico nei confronti di Draghi?

«Qualche tempo fa sono stato al Nazareno insieme a un’altra decina di persone invitato da Enrico Letta a discutere il suo libro. In quella occasione disse di aver cambiato idea sulla necessità di mettere in sordina alcuni aspetti dell’identità della sinistra per conquistare il pubblico moderato. Spero che in questa impresa i leader del Pd non riproducano i vizi delle correnti democristiane e supportino lealmente il segretario del partito».

Il populismo ha fallito?

«In queste ultime elezioni ha fallito ma non credo che sia stato sconfitto definitivamente. Il compito essenziale di un pensiero liberale e progressista però è quello di costruire un’alternativa. Bisogna offrire un sistema di protezione proprio perché il mercato funzioni, ma devi anche sapere che se perdi in questa battaglia la società non ti lascia solo. Massimo Gaggi una volta mi raccontò che Starbucks è fallita due volte prima di avere successo. L’idea è che tu possa provarci e riprovarci. Se non ci riesci, la società deve dotarsi di una rete di protezione. Noi siamo qui a pagare le tasse per questo».

Tu leggi molto. Giornali e libri. Non trovi che il giornalismo italiano abbia mutato la sua funzione naturale?

«I giornali italiani da sempre e con poche eccezioni sono legati a grandi gruppi economici. Ma un’esperienza come la vostra dimostra che ci possono essere forme nuove e che, così come nel 1976 quando è nata Repubblica, oggi può nascere un nuovo giornale che rinnova l’informazione».

La mattina cosa leggi?

«I quotidiani e anche Good Morning Italia, fatto da giovani in gamba».

E del Festival dell’Economia di Trento che idea ti sei fatto? Dopo 16 anni vi hanno estromesso…

«Io penso che alla Lega il festival non è mai interessato perché non interessa quel tipo di dibattito pubblico. Hanno affidato il festival al Sole24Ore, che non ha nessuna esperienza in organizzazione di festival. Fa convegni che sono tutt’altra cosa».

C’è anche Lucia Annunziata nel pool del Sole.

«Ognuno fa le sue scelte personali».

Dove lo farete ora il festival dell’Economia?

«Nei prossimi giorni sceglieremo tra più di 20 città».

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