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Luca Ribuoli ed Eleonora D’Alessandro raccontano a TPI la “fabbrica culturale” dell’Ottobre Alessandrino

Per gentile concessione degli organizzatori del Festival

Il regista e la curatrice spiegano come il loro Festival ha trasformato una città di provincia in un laboratorio sperimentale: "La cultura non è intrattenimento, ma una forma di cittadinanza attiva. Un modo per costruire un dialogo autentico"

Di Antonella Matranga
Pubblicato il 21 Nov. 2025 alle 16:30

Può un festival cinematografico di provincia riuscire a diventare un polo culturale tale da attirare  il pubblico e avvicinare tutte le generazioni? Ce l’hanno fatta il regista Luca Ribuoli (“La mafia uccide solo d’estate”, “Call my agent”, “Miss Fallaci”) ed Eleonora D’Alessandro, rispettivamente direttore artistico e direttrice esecutiva dello “Ottobre Alessandrino – Un mese di cinema”, uno dei pochi festival diffusi in Italia che, in questa seconda edizione appena conclusa, con i suoi 90 eventi distribuiti in 30 location sul territorio e i tanti ospiti, (solo per citarne qualcuno: Anna Foglietta, Valerio Mastandrea, Cecilia Sala, Silvio Soldini, Saverio Costanzo, Alessandra Mastronardi) è riuscito a trasformare Alessandria in un centro vivace e multidisciplinare che fa ben sperare nel futuro del cinema.
«Una sfida impegnativa da gestire, ma anche una grande forza», spiega Luca Ribuoli a TPI. «Nella diversificazione si raggiungono pubblici diversi, si moltiplicano le occasioni di incontro e si allarga la comunità dei partecipanti. L’idea di un festival diffuso nasce proprio dal desiderio di portare la cultura nei luoghi dove la città vive davvero: piazze, musei, cantieri, associazioni, persino un autosalone».
«Il nostro obiettivo era dialogare con la comunità cittadina senza dimenticare nessun segmento sociale», continua Eleonora D’Alessandro. «Per questo, le associazioni attive sul territorio sono state interlocutori fondamentali: tra tutte, Cultura e Sviluppo, che ha guidato questo viaggio con grande competenza e sensibilità. Abbiamo incontrato i giovani musulmani della moschea e cercato di coinvolgere la comunità universitaria che di solito partecipa poco alla vita culturale locale. C’è ancora tanto da fare, certo, ma usare il cinema, la letteratura, la musica e il teatro per raccontare il presente, le sue contraddizioni e le sue possibilità, è stato un modo per costruire un dialogo vero».

Ribuoli il suo intento era anche quello di cercare di riavvicinare i giovani al cinema nelle sale?
«Con il progetto “Be Kind, Make the Difference” abbiamo cercato di riavvicinare i giovani al cinema, ma anche di metterli nella condizione di fare cinema. Abbiamo attivato laboratori di scrittura e di regia, e realizzato cortometraggi nati da un percorso lungo un anno intero, partito dalle idee dei ragazzi e arrivato fino al prodotto finale. Sono esperienze importanti, perché non si esauriscono nel tempo del festival ma lo ampliano, creando continuità e nuove prospettive. Fondamentale è stato ovviamente il ruolo dei docenti che si sono impegnati con grande entusiasmo per portare ai ragazzi nuovi stimoli e occasioni di crescita».

Il cinema può creare ancora un legame con la comunità e fra le generazioni?
«Sì, noi crediamo davvero che il cinema possa ancora fare la differenza. Le immagini in movimento, in tutte le loro forme, restano un veicolo di comunicazione potentissimo e trasversale. Proprio per questo il cinema, più di ogni altra arte, ha la capacità di affascinare gli spettatori. La sua forza poi è quella di creare spazi di comunità e momenti di riflessione condivisa. Penso, ad esempio, al film Private di Saverio Costanzo, che abbiamo proiettato durante il festival con il regista presente in sala: nonostante i suoi vent’anni, è un’opera ancora attualissima, capace di suscitare emozioni profonde e un dibattito vero. Andare al cinema non significa solo guardare un film, ma ritrovarsi insieme in uno spazio comune. La crisi delle sale cinematografiche in generale è un danno enorme per le comunità e ad Alessandria è veramente una ferita aperta!».

I festival in provincia hanno un grande successo di pubblico, però alla fine al cinema le persone non ci vanno. Eleonora D’Alessandro, secondo lei, cosa c’è di sbagliato nelle politiche culturali?
«C’è un grande tema legato alle province, spesso tagliate fuori da una progettazione culturale sistematica. Le politiche culturali tendono ancora a concentrarsi sul singolo evento, trattandolo come un prodotto e non come un processo. Ma la cultura richiede tempo, continuità e soprattutto educazione alla fruizione, che non è affatto una cosa scontata. Si finanziano gli eventi, ma raramente si investe sulla formazione, sull’inclusione, sulla partecipazione. Il pubblico va costruito: i giovani, le cosiddette minoranze culturali, che nelle province sono molto presenti, vengono spesso dimenticati nei processi di progettazione culturale. Così, alla fine, la cultura la fruisce sempre la stessa gente. I festival funzionano perché creano un tempo e uno spazio dedicato alla cultura, ma serve andare oltre: garantire spazi accessibili, programmazioni stabili, un dialogo vero tra istituzioni e cittadini. Perché la cultura non è intrattenimento, ma una forma di cittadinanza».

In Italia è molto difficile sia l’approccio che l’accesso vero e proprio alla cultura.
«In Italia l’accesso alla cultura resta un tema aperto e lo confermano i dati: la spesa media per famiglia in cultura è di circa 106 euro al mese, cifra che include biglietti per cinema, teatro, musei e concerti, libri, giornali, musica, abbonamenti a piattaforme streaming e persino corsi o attività sportive e ricreative – precisa Eleonora D’Alessandro – Di conseguenza, la quota effettivamente destinata alla cultura vissuta dal vivo è davvero bassa. A questo si aggiungono forti differenze territoriali, con picchi minimi in alcune aree del Sud e delle isole, che rivelano un divario significativo e una distanza profonda tra le diverse parti del Paese. Quando poi si tratta di lavorare nel cinema, nel teatro, nei musei tutto si complica. La cultura paga poco e tardi, e i giovani devono spesso accettare condizioni di lavoro precarie che rendono difficile costruire percorsi autonomi. È vero che molti, audaci e talentuosi, riescono a emergere, ma i numeri restano limitati. Fruire e fare cultura non dovrebbe essere percepito come un lusso, ma come un diritto».

Luca Ribuoli, lei è alessandrino e ha girato il suo nuovo film proprio da queste parti. Ci può anticipare qualcosa?
«Sì, sono alessandrino e ho voluto girare qui il mio nuovo film, di cui non posso ancora rivelare molto. Nella storia di formazione della protagonista, la provincia diventa un elemento narrativo essenziale: non solo uno sfondo, ma una presenza viva, parte integrante del suo percorso di crescita. La maturazione del personaggio coincide con un processo di emancipazione dall’isolamento e di scoperta di sé, che si riflette nei paesaggi della pianura e nella durezza di un territorio densissimo di storie da raccontare.  La provincia è uno spazio reale ma anche mentale, di transizione e di resistenza, che troppo spesso resta ai margini ma che, in realtà, custodisce una parte autentica e profonda del nostro Paese».

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