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Luoghi comuni e autoreferenzialità ideologica: ne “Il Dio verde” l’ecologismo di facciata finisce sotto accusa

Di Andrea Venanzoni
Pubblicato il 29 Nov. 2021 alle 13:09 Aggiornato il 29 Nov. 2021 alle 13:10

Giulio Meotti, con il suo Il dio verde: ecolatria e ossessioni apocalittiche (Liberilibri), ha scritto esattamente il libro che meritava di essere scritto in questo delicato frangente storico. 

Un tornante in cui, nel profluvio biblico di metafore escatologiche, riscaldamento globale brandito come clava per troncare dibattiti, antropocene, inquinamento massivo e tentazioni di luddismo di ritorno, l’ecologia, o almeno una sua consistente parte, sembra essere entrata a tutti gli effetti nell’alveo poco confortante della psicosi politicamente corretta.

Pur tradendo una origine nobile, il poco confortante stato di salute presente dell’ambientalismo appare l’inevitabile approdo di un percorso storico-concettuale punteggiato di distorsioni mentali e di cortocircuiti politico-intellettuali tali da rendere piena ragione a Guido Ceronetti quando scriveva “l’ecologia fallirà, perché il suo orizzonte mentale non è diverso, in profondo, da quello del distruttore”.

In maniera non dissimile dalla bulimia espansiva di diritti che spesso diritti non sono, somigliando assai più a tragiche richieste di privilegi castali adombrati nel nome di minoranze vere o presunte, in questo oceano che già Norberto Bobbio aveva catalogato come una stanca età dei diritti, pure l’ecologia se ne è andata a svernare nel diagramma poco cartesiano di rivendicazioni, richieste e strategie del politicamente corretto: come un Moloch stagliato contro le lingue carnicine del tramonto della civiltà, assistiamo alla emersione di un mondo ctonio nutrito da ossessioni appunto apocalittiche in cui dietro ogni curva si stende la palude della fine, della morte, dell’apocalisse.

Per l’ecologia contemporanea la dicotomia bene/male viene risolta nei fatti con la necessitata espunzione del fattore umano dall’orizzonte e dal perimetro della storia.

La volgare banalizzazione di qualunque concetto filosofico, steso sull’immaginifico letto di Procuste delle categorie progressiste, diventa il pasto indigesto che frulla, omogeneizza, sdilinquisce il senso ultimo della vera armonizzazione dell’uomo nel contesto naturale.

La stessa prossemica di Greta, le sue parole d’ordine, le sue espressioni, la sua intrinseca aggressività, i suoi ultimatum assai populisti e anti-politici, o meglio impolitici nel senso che fu di Thomas Mann, cioè di una ‘pensabilità della ricaduta’, come forma suprema di svolgimento di una non-ragione elevata a fattore di insicurezza, rappresentano la cornice ideale di questo ‘nuovo’ ecologismo che considera la civiltà umana come un perturbante incidente nella quiete immota dell’ecosistema.

E la ‘natura’, una natura fallace, immiserita, ridotta a vittima, come ogni minoranza che ormai si rispetti nell’osceno teatro delle atrocità concettuali, non esiste da nessuna parte se non nel narcisismo di questi profeti verdi.

Fraintendendo in maniera grossolana, se mai l’abbiano letto, quel ‘grido silenzioso delle cose stesse’ evocato da Hans Jonas ne ‘Il concetto di Dio dopo Auschwitz’, secondo cui sarà l’ambiente stesso, dopo i secoli di un millenarismo infuso dal ciclo delle religioni, a predire e manifestare l’adagio della caduta, i pasdaran del nichilismo verde si sono gettati a capofitto nella loro missione di terrorismo culturale e di impedimento della evoluzione del genere umano: per loro, tutto deve essere fermo, silente, inerte, soprattutto se ha la connotazione dell’umanità e della tecnica.

Questi sermoni dell’assolutismo verde ricordano quel profluvio legislativo e burocratico di ecologismo hitleriano ricostruito con grande acume tra le pagine del volume della storica di Oxford Anna Bramwell ‘Ecologia e società nella Germania nazista. Walter Darrè e il partito dei verdi di Hitler’: una vis espansiva al cui aumentare, al cui sedimentarsi, per tutelare in maniera capillare la forma vitale animale e naturale, corrispondeva in linea simmetrica la riduzione del valore umano, divenuto recessivo, patologico e parassitario rispetto alle prime.

La contiguità tra un certo ecologismo radicale e origini totalitarie ci è poi plasticamente offerta non solo da comunanze argomentative e da assonanze concettuali, ma anche da una biografia storico-filosofica effettivamente comune, che sempre la Bramwell ricostruisce in un altro essenziale volume, ‘Ecology in the 20th Century: a History’, dal quale traspare come il fondamento programmatico di alcuni Partiti Verdi non solo sia stato influenzato dal romanticismo germanico e dalla legislazione nazista ma sia stato materialmente scritto proprio da autentici nazisti.

La base di partenza, drammaticamente comune, è quella di spogliare l’essere umano di qualunque intrinseco valore, ridurlo a mera, nuda vita biologica, considerarlo ontologicamente colpevole di aver imposto in punta di tecnica la dissoluzione dell’armonia verde.

E per questo, il libro di Meotti è prezioso: perché passa in rassegna, in maniera analitica, lucida e precisissima quello scivolamento in una prospettiva collettivistica e totalitaria, decisamente illusoria, che come sottolinea Robert Redeker nella introduzione è passata dal comunismo all’ecologismo.

Il Dio verde chiede di essere riverito e seguito, senza scomode domande e facendo abdicare il dibattito da qualunque forma di ragione: si insinua nel cuore delle istituzioni globali, nel linguaggio dei politici, deforma la ricerca accademica trascinando nel baratro anche pensatori e scienziati rispettabili.

In apertura, Meotti ricorda la copiosa e torrenziale alluvione di annunci, report, stime, dossier tutti improntati a un insondabile eco-catastrofismo, spesso patrocinati da organismi internazionali e poi, via via, smentiti dai fatti. Non è questione di sminuire o negare i problemi ambientali, i danni recati all’ecosistema ma semplicemente di ricondurre alla realtà dei fatti ogni evento.

Il sensazionalismo eco-pornografico nutrito da ghiacciai estinti, tsunami, crolli repentini, innalzamento delle temperature, esondazioni disastrose, estinzione di specie è l’alimentazione di un nichilismo cupo la cui mira finale sembra la eradicazione del genere umano, più che la preservazione dell’ambiente: per questo, ci troviamo al cospetto di personaggi come Paul Ehrlich, già professore a Stanford e ricercatore di ottima fama finito poi nel frullatore delle richieste di contrastare la crisi ambientale con un approccio anti-umano.

L’ossessione per la funzione esiziale rivestita dall’uomo nei confronti dell’ecosistema è alla base delle pressanti richieste politico-culturali di depopolazione, fare meno figli, sterilizzazione, controllo demografico su base capillare, un ritorno su scena di una eugenetica dall’aroma iper-totalitario.

D’altronde la evocazione di una società imbrigliata in una matrice totalitaria porta Meotti a parlare di un ‘1984 verde’, la cui portavoce, consapevole o inconsapevole che sia, è quella Greta Thunberg lodata persino dal profeta della più radicale ecologia profonda, il finlandese Pentti Linkola, scomparso nel 2020 e le cui opere costituiscono la celebrazione della eradicazione con qualunque mezzo del genere umano dalla faccia della terra.

Il punto di caduta di questo ecologismo militante e profondamente anti-umano è che nella sua consistenza ideologica postula la categorizzazione di ogni elemento naturale, animale, vegetale, roccioso che sia, come una ‘vittima’ o come una minoranza e così facendo stabilisce delle gerarchie della minorità: questa metodologia è sommamente pericolosa perché costituisce la realtà fenomenica in piramidi e in relazioni strutturalmente asimmetriche in cui gli appartenenti a una data categoria o sono oppressi o sono oppressori.

Per questo, filosofi dei diritti degli animali finiscono, paradossalmente, per costruire un sistema di filosofia morale che nel mentre stesso in cui elabora un sistema di diritti per gli animali arriva a negare quegli stessi diritti alle persone disabili, in quanto riconducibili comunque al genus degli umani, e quindi degli oppressori.

Andrebbe sempre tenuto a mente che Peter Singer, uno dei più noti filosofi in questo ambito e che Meotti opportunatamente cita, ha pubblicamente sostenuto e sempre rivendicato il diritto dei genitori di sopprimere, prima o dopo la nascita, i loro figli disabili.

D’altronde, il brodo di coltura di questo mondo, dove ideologismo estremizzato, pulsioni post-marxiane e rossore camuffato da verdognolo si fondono in una autentica danza macabra, è lo stesso che ha generato un saggio come ‘Eternal Treblinka: Our Treatment of Animals and the Holocaust’ di Charles Patterson che pur originando da una interessante premessa concettuale legata ad alcune riflessioni di Theodor Adorno e dello scrittore Isaac Bashevis Singer finisce per ingenerare, non si sa quanto involontariamente, l’equazione concettuale per cui lo sfruttamento degli animali può essere accostato all’Olocausto.

Ma così facendo, non si eleva l’animale al valore umano per cercare di proteggerlo ma, più semplicemente, si abbassa l’individuo al ruolo di volenteroso carnefice.

Ma Meotti sottolinea un altro aspetto fondamentale di questa autentica deriva antropologica: l’intersezione tra questa militanza verde, coi suoi libri, le sue parole d’ordine, le sue ossessioni, e le altre sfumature del politicamente corretto che genericamente potremmo rubricare sotto la dicitura di ‘progressista’.

Incestuosamente incistati gli uni con gli altri, troviamo gli esponenti di punta di qualunque vocazione legata alla difesa delle minoranze intenti a prendere parte alle manifestazioni e ad echeggiare le parole d’ordine degli altri sotto-insiemi: con la risultante, paradossale ma tragica sul lungo periodo, di ingenerare una dinamica avvilente per cui difensori strenui delle minoranze sessuali, della lotta al razzismo e dell’ecologia radicale adotteranno le medesime tattiche e lo stesso escatologismo pseudo-malthusiano.

Per tutti questi ‘combattenti’ dei diritti c’è un solo orizzonte; quello della eradicazione del nemico che di volta in volta individuano o credono di individuare. E per fare questo ne chiedono la decapitazione, sia essa consistente nell’abbattimento delle strutture concettuali patriarcali o dei fattori di inquinamento: nella loro furia decostruttiva scambiano la parte, cioè il problema, con il tutto, ovvero la categoria che individuano come oppressiva.

L’uomo, bianco, eterosessuale, la fabbrica e l’industria, il capitalismo, le istituzioni sono in questa angolazione prospettica dei nemici da distruggere. La sovrappopolazione, ossessione storica originante da un confuso malthusianesimo di ritorno, viene quindi combattuta con le armi inquietanti della estinzione umana volontaria, con l’anti-natalismo, con la già richiamata eugenetica, con la elaborazione di misure che non sarebbero sfigurate nella Cina maoista, come il ‘patentino di procreazione’.

Il conformismo culturale di questi Khmer verdi, come li chiama Meotti, porta ad un livello senza precedenti di autoreferenzialità ideologica: le analisi sono spesso apodittiche, pregiudiziali, infarcite di luoghi comuni. D’altronde, i grandi Paesi inquinatori tendono ad assegnare scarsa importanza alle loro chiacchiere, tutte focalizzate nel ricco Occidente che però inquina meno di India e Cina.

Chiaramente, Greta può fare la faccia feroce all’ONU, ma rimane in pietoso e liturgico silenzio davanti alle scelte di politica ambientale e industriale adottate dalla Cina. Questo perché, la intersezionalità prima richiamata porta le analisi dei nuovi verdi a doversi autocensurare quando l’inquinamento potrebbe essere prodotto da appartenenti a una qualunque ‘minoranza’.

Un ecologismo di facciata, molto ideologico, si capisce bene, e che punta più ad auto-confermare i propri pregiudizi piuttosto che a difendere davvero l’ambiente.

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