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Black Art Matters: l’ascesa dell’arte afroamericana

Robert Colescott, George Washington Carver Crossing the Delaware River: Page from an American History Textbook (1975) - Sotheby’s
Di Elisa Carollo
Pubblicato il 30 Mag. 2021 alle 15:47 Aggiornato il 30 Mag. 2021 alle 15:49

L’ultimo anno è stato l’anno della rivalsa della Black culture. L’ha sancito anche ArtReview, inserendo il Black Life Matters nella sua lista Power 100. L’arte “black”, sia essa africana o della sua diaspora, ha visto negli ultimi anni una crescita esponenziale, sia in ambito istituzionale che di mercato. Dimostrando progressivamente di aver acquisito, e di voler rivendicare, un proprio linguaggio autonomo e uno stile ben specifico.

La black art che domina oggi mostre e mercato è radicata nella contemporaneità, non più mistificata e corrotta da uno sguardo univocamente occidentale. Siamo lontani anni luce dalla sua versione “esotica” e “tribale” presentata all’epoca di “Magicien de la terre”, una mostra tenutasi al Centre Pompidou nel 1989, considerata da molti uno spartiacque nel riconoscere la “globalità” della produzione artistica contemporanea.

“Magiciens de la Terre”, La Villette, Paris, 1989. Opere: Richard Long, Red Earth Circle e Yuendumu community, Yam Dreaming, 1989

Oggi lo scenario è diverso, al centro delle opere che hanno segnato i recenti record d’asta ci sono giovani africani sicuri di sé, vestiti alla moda e con in tasca una finestra sempre aperta sul mondo globale dei social. Questo è il caso di Amoako Boafo, artista che è poi finito addirittura a collaborare con Dior per la collezione uomo P/E 2021.

Ma andiamo per ordine. L’arte africana ha fatto il suo esordio nel mercato dell’arte internazionale quando alcune opere della collezione Pigozzi – una delle collezioni occidentali più importanti di arte africana – finirono all’asta da Sotheby’s a Londra nel 1999: l’asta, che aveva ancora prezzi non superiori ai 15mila sterline, fece l’88% di venduto.

Oggi, il fatturato dell’arte africana e della sua diaspora è aumentato di dieci volte, conquistando non solo i compratori nelle piazze di paesi ex-colonizzatori come Parigi o Londra, ma anche di New York e soprattutto di Hong Kong.

Prendendo unicamente in considerazione le aste di questo maggio, troviamo numerosi record raggiunti proprio da artisti black, come l’artista africano El Anatsui, aggiudicato da Christie’s alla cifra record di 1,95milioni di dollari o Kerry James Marshall con Untitled (Stono Drawing) aggiudicato da Sotheby’s a 528mila dollari, 12 volte il valore stimato.

Altra star dell’asta serale di Sotheby’s è stata poi un’opera di denuncia del razzismo con un forte riferimento alla storia americana realizzata da Robert Colescott, George Washington Carver Crossing the Delaware River: Page from an American History Textbook (1975), aggiudicata al Lucas Museum of Narrative art per ben 15,3millioni di dollari, 16 volte il suo precedente record di 912,5mila dollari segnato a Novembre 2018.

Fra gli artisti di colore da record in queste ultime aste ci sono state anche molte donne, fra cui Jordan Casteel con Jireh (2013), opera in mostra anche nel suo recente solo show al New Museum, aggiudicata a 687,5mila dollari da una stima iniziale di 350-550mila dollari; Nina Chanel Abney i cui prezzi sono quadriplicati di recente, tanto che Untitled (XXXXXX), 2015 da una stima di 150-300mila dollari è stato aggiudicato a 990mila dollari; Lynette Yiadom-Boakye il cui potente ritratto di gruppo Diplomacy 111 (2009) è stato venduto per 1,95milioni di dollari; e Mickalene Thomas, con Reclining Wearing Purple Jumpsuit (2016) aggiudicato a 1,8milioni di dollari, superando il record dello scorso Dicembre da Phillips di 901,2mila dollari. Elemento degno di nota è che gran parte di queste opere siano state aggiudicate da compratori asiatici.

Questo è stato il caso anche dell’immancabile Amoako Boafo, che con Blue Pullover (2018) (uno spin off della sua collaborazione con Dior?) è stato venduto a un collezionista di Hong Kong per 625mila dollari. Il suo record d’asta in realtà supera già oggi il milione di dollari…e pensare che lo avreste potuto comprare per circa 20mila dollari a ArtBasel Miami nel 2019, anno della decisiva residenza dai Rubell che ne ha sancito la consacrazione!

Ma la vera black star di queste aste è stato Jean-Michel Basquiat, con ben 3 capolavori plurimilionari: si è partiti con il leggendario In This Case (1983) dalla collezione di Giancarlo Giammetti (co-founder di Valentino) venduto a 93milioni di dollari da Christie’s New York, mentre Sotheby’s ha aggiudicato Versus Medici (1982) a 50,8milioni, seguito poche settimane dopo da un altro Basquiat, Untitled, 1985 ( apparso anche nella famosa copertina che il New York Times dedicò quell’anno all’artista ) battuto per 33 milioni durante una curated-sale a Hong Kong.

Jean-Michel Basquiat,Versus Medici, 1982 – SOTHEBY’S

Guardando al fenomeno da una più ampia prospettiva socio-culturale è poi interessante osservare come soprattutto i canali social stiano permettendo oggi ad artisti, collettivi o intere organizzazioni della scena artistica propriamente africana un nuovo “empowerment”, fornendo strumenti inediti per farsi conoscere da un pubblico internazionale.

Oggi, fra gli artisti africani più ambiti dai collezionisti di tutto il mondo non ci sono, infatti, solo nomi ormai consolidati ma anche artisti giovanissimi come Collins Obijiaku, Eniwaye Oluwaseyi, Barry Yusufu, Zandile Tshabalala, Otis Kwame Jye Quaicoe, Emma Odumade, Kwesi Botchway o Cassi A. Namoda che hanno saputo sfruttare i social nel proporre una pittura prevalentemente figurativa, ammiccante ai trend e alle mode contemporanei.

AMOAKO BOAFO, Blue Pullover (2018) – Christie’s

La domanda crescente per questi artisti non dà segni di rallentamento e proseguirà sicuramente per tutto il 2021. D’altronde la rivincita della black art e dei suoi protagonisti trascende i fenomeni di mercato e si inserisce nell’attualità del dibattito sociale. Non a caso la lista dei deciders 2021 secondo ArtNews include ben 11 nomi impegnati sul fronte della valorizzazione della Black art. Fra questi nomi troviamo l’artista Titus Kaphar, con la sua residenza NXTHVN a New Heaven; Destinee Ross Sutton curatrice del  “Black Voices/Black Microcosms” al CFHILL di Stoccolma (dove vennero per la prima volta segnalati molti dei nuovi nomi più richiesti della giovane arte Africana), e più recentemente dell’asta “Say It Loud (I’m Black and I’m Proud) da Christie’s; e Ebony L. Haynes, altra giovane curatrice di colore recentemente entrata nel team David Zwirner a capo del progetto di un nuovo spazio interamente dedicato alla Black art, con un all-Black staff.

Anche in ambito istituzionale, il 2020 ha visto musei come la Tate Britain di Londra dedicare un’ampia mostra a Lynette Yiadom-Boakye, artista di origini ghanesi cresciuta in UK e definita nel sito della stessa Tate “una delle più importanti pittrici d’oggi”, mentre il Barbican center ha recentemente ospitato nei propri spazi un solo show di un’altra artista nigeriana oggi super richiesta, Toyin Ojih Odutola.

Lynette Yiadom-Boakye, Diplomacy III, 2009 – CHRISTIE’S

Nel frattempo il New Museum di New York ha riaperto post-pandemia con “Grief and Grievance: Art and Mourning in America”, una mostra che porta a realizzazione un progetto espositivo del leggendario curatore nigeriano Okwui Enwezor (1963-2019) e che riunisce 37artisti le cui opere affrontano i temi del lutto, della commemorazione e della perdita in risposta alla violenza razzista subita dalle comunità nere in America e recentemente denunciata ad alta voce con il Black Life Matters. Lynette Yiadom-Boakye, Diplomacy III, 2009 – CHRISTIE’S Anche se guardiamo a una manifestazione chiave come la Biennale di Venezia, la prossima edizione (ora rimandata al 2022) vedrà sia gli Stati Uniti che l’UK rappresentati per la prima volta da due donne discendenti della diaspora Africana, rispettivamente Simone Leigh per il padiglione americano e Sonia Boyce per quello inglese.

Tale scelta per gli Stati Uniti rinforza del resto un indirizzo già intrapreso con la scorsa biennale 2019, dove il padiglione era stato affidato all’artista afro-americano Martin Puryear.

Ulteriore prova dell’attenzione per questa prospettiva black sulla contemporaneità è infine l’importanza internazionale che anche le fiere e le biennali locali, come la fiera di Cape Town o la Biennale di Dakar, hanno saputo conquistare nell’ultimo decennio.

Grande successo sta avendo per esempio 1-54 Contemporary African Art Fair, fiera dedicata a presentare l’arte africana contemporanea in ambito internazionale, puntando però a riconoscere e valorizzare, al di là di preconcetti, le tante espressioni specifiche provenienti da tutti i paesi di cui è composta l’Africa. La fiera lanciata da Touria El-Glaoui a Londra nel 2013, conta ora edizioni annuali anche a New York e Marrakech, oltre alle recenti collaborazioni con Christie’s per esposizioni pop up nelle sue sedi.

Alla luce di questi fenomeni, possiamo dire che, se finora è sempre stato difficile per le persone di colore trovarsi rappresentate in musei e istituzioni, alla luce di tutti questi movimenti pare che il 2021 segnerà la svolta decisiva rispetto al canone western-centric su cui tali istituzioni sono state fondate.

Anche le recenti operazioni dei musei statunitensi sembrano andare in questa direzione. Come nel caso delle recenti dismissioni del Brooklyn Museum, Baltimore Museum of Art e San Francisco Museum of Modern Art, che hanno reinvestito i ricavi delle vendite nell’acquisizione di artisti di colore, per bilanciare le proprie collezioni.

Fra questi ha fatto notizia l’Everson Museum of Art a Syracuse, N.Y., che dopo aver venduto in asta un Pollock, ha usato i fondi per l’acquisizione di opere di artisti afroamericani come Sharif Bey e Ellen Blalock, fra gli altri. Del resto, gli avvenimenti del 2020 hanno indubbiamente scosso ogni equilibrio di potere preesistente a livello istituzionale, sociale e di mercato. Di conseguenza stanno emergendo nuove energie, e nell’arte, come poi progressivamente nella società, trovano finalmente non solo espressione, ma anche diffuso interesse, prospettive culturali “nuove”.

Ora, si può solo sperare che questo fenomeno non si limiti a mera speculazione. Se così fosse, questo “movimento” risulterebbe infatti solo una forma aggiornata di colonialismo culturale e strumentalizzazione di espressioni artistiche “diverse”. Contemporaneamente, non si può negare da parte di questi artisti una pericolosa tendenza ad assimilare e ammiccare al linguaggio sempre più omologato dell’arte contemporanea globale.

La sfida in questo cambiamento di canone è quindi quella di accogliere una forma matura di uguaglianza e integrazione, capace di comprendere, e quindi valorizzare e preservare le singole specificità culturali che si esprimono attraverso il canale dell’arte contemporanea. Un canale che permette di arrivare a un pubblico globale, fungendo così, ci si augura, anche da stimolo a un dialogo interculturale finalmente alla pari.

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