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    Violenza domestica, uomo uccide bimbo e ferisce la compagna, la Cedu condanna l’Italia: “Non ha protetto le vittime”

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 7 Apr. 2022 alle 14:05 Aggiornato il 7 Apr. 2022 alle 14:07

    La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per non aver protetto una donna e i suoi figli dalla violenza domestica del compagno. I fatti risalgono al settembre del 2018 a Scarperia, in provincia di Firenze, quando Niccolò Patriarchi uccise a coltellate il figlio di un anno, ferendo in modo grave anche la sua compagna e cercando di uccidere l’altra figlia.

    I procuratori sono rimasti passivi di fronte ai gravi rischi che correva la donna e con la loro inazione hanno permesso al compagno di continuare a minacciarla e aggredirla”, si legge nella sentenza della Cedu, che ha condannato lo Stato a un risarcimento di 32mila euro per danni morali da pagare alla donna. A rivolgersi alla Cedu era stata la madre del bimbo ucciso, Annalisa Landi, la quale nel ricorso ha denunciato lo Stato italiano per aver violato il suo diritto alla vita e quello dei figli, in parte a causa di un atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne da parte delle autorità.

    Dai fatti riportati nella sentenza emerge infatti che l’omicidio del piccolo poteva essere evitato, perché l’uomo era già sotto inchiesta per violenza domestica: prima di uccidere il bimbo aveva aggredito la donna per tre volte, e Landi aveva sporto diverse denunce. L’esperto nominato dai giudici aveva indicato la pericolosità dell’uomo per via delle patologie di cui soffriva e consigliato un programma terapeutico, ma durante l’inchiesta non era stata presa alcuna misura per proteggere la donna e i suoi figli.

    A scatenare l’omicidio una violenta colluttazione in casa scaturita “dal rumore causato dal suo figlio e da una telefonata arrivata alla donna” che aveva infastidito Patriarchi, condannato poi a 20 anni di reclusione. La Corte di Strasburgo ha stabilito che lo Stato ha violato il diritto alla vita della donna e di suo figlio, e non ha riconosciuto l’aggravante della discriminazione.

    Nella sentenza i giudici constatano che le autorità avevano il dovere di effettuare immediatamente una valutazione dei rischi di nuove violenze da parte dell’uomo e prendere le misure necessarie a prevenirli. Ma non l’hanno fatto, nonostante sapessero, o avrebbero dovuto sapere, che esisteva un rischio reale per la vita della donna e dei suoi figli.

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