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    Se la propaganda Pro vax diventa propaganda esattamente come quella No vax

    Di Leonardo Biscetti
    Pubblicato il 17 Ago. 2021 alle 10:06 Aggiornato il 17 Ago. 2021 alle 10:47

    Lo spunto per questo articolo della rubrica “Parole chiare in medicina” me lo ha fornito il direttore di questo giornale Giulio Gambino nell’ambito di un dialogo che abbiamo avuto a margine del TPI Fest di Sabaudia. Stavamo discutendo del ruolo in generale dei giornali e dell’informazione nel 2021, e in particolare riflettevamo su come gli organi d’informazione debbano parlare di vaccini e, in senso lato, di questioni di ambito scientifico, al fine di fornire ai lettori gli strumenti necessari a capire esattamente di cosa si sta parlando. Sul piano generale, eravamo d’accordo: se è vero che ai nostri giorni Internet è uno strumento fondamentale che ci permette di essere aggiornati 24 ore su 24, 7 giorni su 7, su cosa sta avvenendo nel mondo, è anche vero che l’infodemia, il mare magnum di informazioni che ci sommerge, spesso non aiuta a capire. Per questo, a fianco della rete, che ormai è uno strumento irrinunciabile per ciascuno di noi, serve uno spazio in cui si può tirare il fiato, un bunker che le persone possano utilizzare per sfuggire al bombardamento dell’all-news, un’area ristoro in cui possano fermarsi ad approfondire. Ed è proprio questa l’idea che sta dietro la prossima uscita del settimanale cartaceo The Post Internazionale che quel visionario di Giulio ha deciso di lanciare e che ovviamente vi invito a leggere.

    Sul tema specifico dell’informazione scientifica, il dibattito è stato lungo e appassionante, e alla fine, pur partendo da posizioni leggermente diverse, abbiamo concordato su tre punti:
    a) molte persone non sono pregiudizialmente ostili alla scienza e non tutti quelli che hanno dei dubbi sui vaccini sono dei decerebrati: in molti casi, sono solo persone spaventate da cose che non conoscono o capiscono fino in fondo; sono persone che si tranquillizzerebbero se solamente le cose venissero spiegate in modo chiaro e onesto da chi le conosce e le studia per lavoro (non necessariamente a spiegare le cose deve essere un medico; anche un giornalista scientifico serio e preparato, ad esempio, può assolvere benissimo a questo compito);
    b) spesso, a favorire il disorientamento e la paura delle persone, è proprio l’atteggiamento di molti medici e scienziati, magari anche molto titolati, che ragionano da tifosi e che si combattono in televisione come se  i temi scientifici fossero una questione da bar sport o una resa dei conti personale, o peggio che, per narcisismo, si presentano come depositari di verità finendo col divulgare personalissime opinioni non dimostrate come nozioni acquisite dalla comunità scientifica (questo problema riguarda ovviamente il piccolissimo fronte no vax ma non risparmia purtroppo neanche la fazione opposta);
    c) nella scienza, le ipotesi, le idee sono importanti nella fase di preparazione degli studi, ma alla fine della fiera, quello che conta sono solo i fatti, le cose dimostrate, e solo i fatti, e non le opinioni degli scienziati, dovrebbe divulgare l’informazione generalista. Per inciso: tutte le opinioni, se non dimostrate, contano zero, anche se a divulgarle è un premio Nobel per la medicina. Quindi l’H index, i riconoscimenti ottenuti, pur importanti, non sono mai di per sé garanzia di verità. Insomma:
    come sappiamo dai tempi di Galileo Galiei, l’ipse dixit nella scienza non vale.

    E allora, sulla base di questi presupposti, oggi più che mai è opportuno far parlare i dati: i dati, a differenza dei medici star (sia del fronte pro-vax che del fronte no-vax), non mentono mai (purché siano correttamente interpretati). Ricapitoliamo allora cosa ci dicono i dati sui vaccini ad oggi. Nel far ciò, avremo l’occasione da una parte di riprendere ed approfondire sulla scorta di nuovi studi dei temi già affrontati nei precedenti appuntamenti della rubrica in cui avevamo spiegato quanto i vaccini rappresentino oggi un’arma assolutamente irrinunciabile, ma dall’altra potremo esplorare anche un tema inedito, ma non meno importante, provando a rispondere alla domanda: sulla base delle conoscenze ad oggi disponibili, quali risultano essere i limiti dei vaccini? Bene, partiamo.

    1) Non ci sono dubbi di nessun tipo che i vaccini, a ciclo vaccinale completo (questo è fondamentale!) riducano in modo drastico infezioni sintomatiche, ospedalizzazioni e morti da COVID 19. Questo è vero, oltre ogni ragionevole dubbio, anche per la variante delta, che, non dimentichiamolo mai, è almeno il 50 per cento più contagiosa della variante alfa, che a sua volta è più contagiosa del ceppo originario di SARS COV 2 nell’ordine del 40-90 per cento.  I dati a supporto di ciò sono tantissimi: basti vedere come il tasso di morti e ospedalizzazioni rispetto ai contagi sia sceso drasticamente da quando ci sono i vaccini, anche in un contesto, come quello attuale, in cui appunto delta è largamente dominante. Ma, come sempre, a dircelo sono soprattutto i grandi studi scientifici pubblicati sulle grandi riviste internazionali. L’ultimo e tra tutti il più eloquente è stato recentemente pubblicato sulla rivista medica leader al mondo, il New England Journal of Medicine.

    In questo grande studio, condotto nel Regno Unito, è stata confrontata l’efficacia del vaccino Pfizer e del vaccino Astra Zeneca, dopo una dose e dopo due dosi, rispetto alle infezioni sintomatiche da variante alfa (ex inglese) e da variante delta (ex indiana). Ecco i risultati: dopo una dose di vaccino, Pfizer protegge al 47 per cento da alfa e al 35 per cento da delta; dopo due dosi, lo stesso vaccino protegge al 93 per cento da alfa e all’88 per cento da delta.

    Nel caso di Astra Zeneca, dopo una dose, la protezione è del 48.7 per cento da alfa e del 30 per cento da delta; dopo due dosi, la protezione arriva al 74.5 per cento rispetto ad alfa e al 67 per cento rispetto a delta. Da questi dati si ricava che: a) sia Pfizer che Astra Zeneca, dopo una dose, offrono una protezione discreta ma non eccezionale rispetto ad alfa, e una protezione insufficiente rispetto a delta; b) dopo due dosi, sia Pfizer che Astra Zeneca offrono un’ottima protezione verso entrambe le varianti, solo leggermente ridotta per delta rispetto ad alfa; c) la doppia dose Pfizer è nel complesso significativamente più efficace della doppia dose Astra Zeneca rispetto alle infezioni sintomatiche sia da delta che da alfa (da altri studi, sappiamo però, che questa differenza si riduce drasticamente se anziché guardare il totale delle infezioni sintomatiche, consideriamo solamente il dato di ospedalizzazioni e morti). La conclusione allora è: dopo una singola dose di vaccino non possiamo sentirci affatto al sicuro; dopo due dosi, i vaccini sono molto efficaci anche rispetto a delta (ciò è vero sia per Pfizer che per Astra Zeneca, anche se non nella stessa misura). Quindi chi dice che con delta i vaccini non servono più a nulla, semplicemente dice una bugia. Questo è un fatto, non un’opinione. 

    2) È assolutamente certo che i vaccini, da quando esistono, hanno contribuito in generale a ridurre anche le infezioni asintomatiche da SARS COV 2, e non solo morti e ospedalizzazioni; con specifico riferimento alla protezione offerta dai vaccini rispetto alle infezioni asintomatiche da delta, le evidenze non sono ancora definitive poiché molti degli studi a riguardo sono ancora in fase di revisione, ma quelle preliminari a disposizione sono assolutamente tranquillizzanti. Questo è un tema che avevamo già in parte esplorato nell’ultima puntata della rubrica, in cui avevamo spiegato, sulla scorta di una montagna di studi pubblicati nell’ultimo anno, quanto i vaccini siano stati utili non sono a proteggere noi stessi dalla terapia intensiva e dal cimitero, ma anche gli altri, pur specificando che questa protezione ovviamente non raggiunge mai il 100 per cento. Se ci riferiamo poi specificatamente a delta, c’è da dire che uno studio esplorativo scozzese pubblicato su Lancet a giugno 2021, aveva già mostrato una protezione intorno all’80 per cento per Pfizer e intorno al 60 per cento per Astra Zeneca rispetto al rischio globale di infezione da questa variante (indipendentemente dalla presenza o meno di sintomi). Un successivo studio inglese (ancora in fase di revisione) ha poi confermato l’efficacia dei vaccini a ciclo vaccinale completo, almeno nel contesto inglese, nel ridurre il tasso complessivo di infezione da delta (sia sintomatica che asintomatica) nell’ordine circa del 70 per cento.

    A questi primi dati se ne sono aggiunti altri provenienti dal Qatar (anch’essi comunque preliminari) che hanno confermato l’efficacia dei vaccini a mRNA a proteggere anche dall’infezione asintomatica da delta, seppur ad un  livello inferiore rispetto alla protezione offerta nei confronti dell’infezione sintomatica dalla medesima variante; in particolare, a ciclo vaccinale completo, la protezione dall’infezione asintomatica è stata qui stimata al 53 per cento per Pfizer e all’84 per cento per Moderna, così suggerendo una maggiore efficacia di quest’ultimo vaccino rispetto al concorrente nel ridurre la trasmissione del contagio (rispetto invece alla protezione dalle infezioni gravi e dall’ospedalizzazione, la protezione è risultata in questo studio tra il 90 e il 100 per cento per entrambi i vaccini).

    Tra l’altro, anche uno studio americano, ancora in fase di pre-print (quindi non ancora pubblicato), nel confermare globalmente l’efficacia dei vaccini a mRNA nel proteggere dall’infezione da delta sia sintomatica che asintomatica, sembra suggerire in questo senso ancora una volta una prestazione migliore di Moderna rispetto a Pfizer (76 per cento vs 42 per cento): dati questi, comunque, è giusto ribadirlo, da maneggiare con grande cautela, visto che sono ancora molto preliminari, e potrebbero almeno in parte dipendere, oltreché dalle differenze intrinseche tra i vaccini, anche da differenze nelle popolazioni vaccinate e nelle tempistiche di vaccinazione.

    Se comunque su alcuni specifici aspetti, come ad esempio proprio il confronto tra Pfizer e Moderna, servono certamente molti più studi prima di pronunciarsi con sicurezza in merito, è invece  senz’altro già possibile dire che, da un punto di vista generale, seppur con qualche differenza tra un vaccino e l’altro e tra un contesto geografico e l’altro, tutti gli studi disponibili al momento supportano chiaramente l’efficacia dei vaccini- di tutti i vaccini (ma soprattutto quelli a mRNA) – anche nei confronti dell’infezione asintomatica da delta. Detto altrimenti: anche con delta, i vaccini con ogni probabilità non solo evitano che si riempiano i reparti, le terapie intensive e i cimiteri, ma contribuiscono pure a frenare l’esplosione del contagio. Uno potrebbe pensare: di fronte a dati del genere, resta poco spazio per la propaganda no-vax.  Neanche per idea: chi vuole fare confusione, si attacca a tutto pur di intorbidire le acque.

    Volete un esempio? Eccovi serviti.  Circa due settimane fa, il famosissimo virologo americano Anthony Fauci, nell’ambito di un ragionamento complessivo in cui ribadiva l’assoluta necessità di vaccinarsi e la capacità dei vaccini di proteggere da infezione, morte e ospedalizzazione, ha consigliato anche ai vaccinati di indossare la mascherina nei luoghi ad alta circolazione virale, anche in considerazione del fatto che dati preliminari in possesso del Center for disease control suggerivano che la carica virale nel nasofaringe dei vaccinati infettati da delta e dei non vaccinati infettati dalla medesima variante fosse simile. Ecco, nonostante lo stesso Fauci avesse tenuto a ribadire che “The “predominant message,” is that “if you’re vaccinated, you’re much, much more protected against getting infected than an unvaccinated who is completely vulnerable” (traduzione: il messaggio fondamentale è che se sei vaccinato, tu sei molto, molto più protetto dall’infezione rispetto a un non vaccinato che è completamente vulnerabile), qualcuno ha preso le parole di Fauci come la prova che da quando c’è delta, i vaccini non proteggono più gli altri, ma solo noi stessi e perciò  non ha senso imporre niente a nessuno.

    Allora, facciamo chiarezza. Anzitutto, lo ribadiamo, è bene pronunciarsi in modo definitivo su un tema solo quando i dati sono consolidati e ora sul tema specifico “carica virale nei vaccinati infettati da delta” non abbiamo dati consolidati: non ce l’abbiamo noi e non ce l’ha neanche Anthony Fauci (NB: per dati consolidati intendiamo dati ricavati da grande studi sottoposti a controllo preventivo da esperti revisori). Ciò premesso, è bene qui chiarire che Fauci, che è uno dei massimi esperti al mondo di malattie infettive, in quel famoso discorso che tante polemiche ha scatenato, ha semplicemente detto una cosa di buon senso e cioè: se da una parte è vero anche in un contesto in cui delta è prevalente che i vaccini restano un fondamentale presidio per proteggersi anzitutto da morte e ospedalizzazione, ma in subordine anche dall’infezione asintomatica, d’altra parte è anche vero che, nei confronti di delta, i vaccini hanno mostrato un’efficacia lievemente minore rispetto ad altre varianti e in più delta è di per sé molto più contagiosa delle altri varianti di preoccupazione; ne consegue, che, in generale ma soprattutto da quando c’è delta, è indispensabile che anche i vaccinati rispettino le misure anti contagio (distanziamento e mascherine). Come questo possa essere interpretato come una messa in discussione dell’efficacia dei vaccini rimane un mistero.

    Con specifico riferimento al passaggio sulla carica virale nei vaccinati infettati da delta, Fauci poi si è semplicemente limitato a discutere di dati preliminari che suggeriscono che da quando c’è delta lo scenario sembra cambiato nella misura in cui, mentre prima di delta, i vaccinati non solo si infettavano meno, ma quando si infettavano presentavano una carica virale significativamente minore rispetto ai non vaccinati, ora (qui è Fauci che parla) da quando c’è delta, con ogni probabilità i vaccinati continuano ad infettarsi molto meno, ma quando si infettano presentano la stessa carica virale dei non vaccinati. Posto che Fauci avrebbe fatto bene a chiarire subito che si trattava appunto di dati molto preliminari e tutt’altro che definitivi, va detto che un studio recentemente  messo a disposizione della comunità scientifica ma non ancora pubblicato poiché ancora in fase di peer review (cioè di controllo da parte di esperti), ha in effetti confermato che la carica virale all’inizio dell’infezione da variante delta sia simile tra vaccinati e non vaccinati.

    Lo stesso studio però ci ha detto anche altre cose: anzitutto, ha prodotto l’ennesima conferma dell’efficacia dei vaccini rispetto alle infezioni sintomatiche da delta e in particolare ha mostrato che i vaccini riducono significativamente la necessità di ossigenoterapia negli infetti vaccinati rispetto ai non vaccinati, ma poi -ed è questa la cosa più interessante- ha mostrato che nei vaccinati infetti la carica virale decresce molto più rapidamente rispetto ai non vaccinati. La conseguenza logica di ciò è che, anche se la carica virale all’inizio è simile, alla fine dei giochi, è legittimo attendersi che i vaccinati infettati da delta siano contagiosi per meno giorni rispetto ai non vaccinati e quindi, a parità di contatti interpersonali, finiscano per infettare meno persone dei non vaccinati infettati dalla medesima variante. 

    Insomma, tirando le somme: i) anche nel contesto attuale in cui delta è predominante, sappiamo con assoluta certezza che se ti vaccini, in caso di infezione, il rischio di finire in ospedale o al cimitero è mostruosamente basso;
    ii) anche se non abbiamo ancora stime precisissime di efficacia, i dati a disposizione suggeriscono che, anche con delta, il rischio di infezione asintomatica con i vaccini scende in modo significativo, pur ovviamente non annullandosi;
    iii) non abbiamo ancora dati solidi di confronto sulla contagiosità globale dei vaccinati  infettati da delta rispetto ai non vaccinati infettati dalla medesima variante: i pochi, pochissimi, disponibili, sembrano suggerire che le volte (relativamente rare) in cui i vaccinati si infettano con delta, presentano la stessa carica virale dei non vaccinati, ma poi si liberano del virus più velocemente: se questi dati venissero confermati, resterebbe vero che- anche con delta dominante- gli infetti non vaccinati contribuiscono proporzionalmente più alla diffusione del contagio rispetto agli infetti vaccinati (anche se forse le differenze tra i due gruppi risulterebbero alla fine minori rispetto a quelle che si osservavano prima dell’avvento di delta). Quindi, per dirla semplice semplice:
    delta o non delta, non ci sono scuse per non vaccinarsi. Non farlo significa esporre noi e gli altri a rischio. Questo è un fatto, non un’opinione

    3) Se è senz’altro vero che i vaccini aiutano moltissimo, sono fondamentali e tutti coloro che possono dovrebbero vaccinarsi, è anche vero che non sono un’arma perfetta come certa propaganda lascia intendere: hanno infatti dei limiti e da soli al momento probabilmente non bastano ad estirpare il virus. A questo proposito è bene fare chiarezza: alcuni dei limiti che vengono rimproverati ai vaccini in realtà non sono tali.  Ad esempio, qualcuno cita come limite dei vaccini, il fatto che non hanno un’efficacia e una sicurezza del 100 per cento. Questo è vero, ma vale per qualunque farmaco, nel senso che nessun farmaco è efficace e sicuro nel 100 per cento dei casi. Se parliamo dei vaccini, ci sarà senz’altro sempre qualcuno che nonostante il vaccino si infetterà: e tra coloro che si infetteranno nonostante il vaccino, ci sarà una piccolissima minoranza che finirà in Ospedale e addirittura morirà a causa del COVID. Non solo. Anche se i vaccini sono tra i presidi medici più sicuri e con minori effetti collaterali, ci potrà essere sempre qualcuno che svilupperà effetti avversi seri, e qualcuno (una quota infinitesimale del totale) che potrebbe addirittura morire per il vaccino.

    Questo è un fatto ovvio che non cambia assolutamente i termini della questione: è del tutto evidente infatti che quando si prendono decisioni di sanità pubblica bisogna considerare il rapporto costo/beneficio su scala globale e non si può cambiare strategia per alcuni, pochissimi, casi di inefficacia e per alcuni, pochissimi, effetti avversi seri. Qualcuno obietta: questo è un discorso statistico, ma se poi fossi proprio io quel caso rarissimo in cui il vaccino provoca un effetto avverso serio? E io rispondo: e se fossi proprio tu quello che muore ucciso da una tegola del tetto? Seguendo questa logica, nessuno dovrebbe più camminare vicino ai tetti per paura delle tegole che cadono, o nessuno dovrebbe più guidare l’automobile visto che ognuno di noi guidando potrebbe essere quello che quel giorno muore per un incidente stradale. Insomma: se superiamo le paure irrazionali, ci rendiamo conto che l’efficacia e la sicurezza dei vaccini è straordinaria e anzi è tutt’altro che un limite ma semmai uno strepitoso punto di forza.

    Così come non è un limite il fatto che questi vaccini siano stati approvati in tempi brevi. La brevità dei tempi di approvazione, come spiegato dall’AIFA, è dipeso semplicemente da tre fattori: i) sforzo scientifico ed economico senza precedenti per combattere la più grave pandemia dell’ultimo secolo; ii) semplificazione di alcune procedure burocratiche; iii) processo di rolling review: ovvero le agenzie regolatorie anziché controllare i dati a studio concluso come fanno in genere, li hanno verificati via via che arrivavano. Grazie a questi fattori, sono stati fortunatamente accorciati i tempi, ma tutte le procedure di verifica sono state eseguite: anzi i trial sulla base dei quali questi vaccini anti COVID sono stati autorizzati hanno visto un numero enorme di persone arruolate, fino a 10 volte superiori a trial condotti per altri vaccini (fonte: AIFA). Altro che vaccini sperimentali!

    Se non sono questi i limiti, allora quali sono? Ve lo dico subito. Un limite, forse l’unico ma assolutamente non trascurabile, che sembra delinearsi chiaramente è legato al fatto che gli anticorpi indotti dalla vaccinazione tendono a calare significativamente nel tempo. A dimostrarlo in maniera chiara è stato un recente studio pubblicato su Lancet. In questo lavoro, è stata misurata la variazione del titolo anticorpale nel tempo di 552 soggetti che erano stati vaccinati contro SARS COV 2 o con Astra Zeneca o con Pfizer. Ebbene, i ricercatori hanno dimostrato che i livelli anticorpali, misurati una prima volta nell’intervallo 21-40 giorni e una seconda volta dopo 70 giorni dalla seconda dose, erano calati di 5 volte per i vaccinati con Astra Zeneca e di 2 volte per i vaccinati Pfizer.

    Questo calo risultava significativo anche dopo aggiustamento per sesso, età e per grado di vulnerabilità clinica. Questo va inteso come la prova definitiva che dopo un po’ i vaccini smettono di proteggerci? Assolutamente no. Anzitutto va detto che con ogni probabilità almeno nei primi mesi gli anticorpi pur calando mantengono una buona capacità protettiva: nel caso del vaccino Moderna poi, secondo uno studio recentemente pubblicato su Science, gli anticorpi indotti dal vaccino per almeno 6 mesi mantengono una capacità neutralizzante eccellente rispetto a tutte la varianti di preoccupazione, pur a livelli differenti (protezione massima rispetto ad alfa e delta, inferiore ma comunque significativa rispetto a beta). Il problema si pone se ci spostiamo oltre i sei mesi: i pochi dati a disposizione ci dicono che in una buona percentuale dei casi gli anticorpi continuano ad essere dosabili (alcuni studi preliminari dicono fino a un anno), seppur a livelli bassi, ma a quel punto quanto sia esattamente la loro capacità protettiva ci sfugge.

    In ogni caso, va sempre considerato che gli anticorpi rappresentano solo uno dei meccanismi che entrano in gioco nel difenderci dall’infezione: come suggerito da uno studio pubblicato su Nature Communications, infatti, altri sistemi di difesa attivati dal vaccino, come le cellule B della memoria, verosimilmente rimangono attive più a lungo degli anticorpi e potrebbero continuare a proteggerci efficacemente almeno dalle forme più gravi di infezione nel lungo termine. Quanto a lungo? Questo con esattezza non lo sa nessuno, per la sola ragione che il COVID è apparso su questo pianeta solo alla fine del 2019 e abbiamo a disposizione i vaccini solo dalla fine del 2020. Qualcosa però possiamo già dire. Se il calo degli anticorpi non cancella automaticamente le capacità protettive del vaccino, è molto probabile che un po’ le riduca.

    Ciò è suggerito proprio dai dati che abbiamo a disposizione sull’efficacia dei vaccini nel proteggere dall’infezione asintomatica da delta, cui abbiamo fatto precedentemente riferimento: in modo quasi paradossale, i paesi che hanno raggiunto per primi alti livelli di vaccinazione sono quelli che vedono oggi un’efficacia ridotta dei vaccini nel bloccare il contagio. Un esempio su tutti: Israele. Una stima del ministero della salute parla di un’efficacia di solo il 16 per cento nel ridurre il rischio di contagio per le persone che si sono vaccinate a gennaio. Lo stesso ministero però precisa che anche per questo gruppo di vaccinati la protezione dal rischio di ricovero e di infezione grave rimane ancora oggi altissima, collocandosi tra l’80 e il 96 per cento.

    Ma al di là delle stime governative che vanno sempre considerate con cautela, come sempre è la letteratura scientifica ad aiutarci nell’interpretare quello che sta avvenendo. A questo proposito, un grande studio retrospettivo israeliano in fase di revisione ma già disponibile sul portale medrxiv, che ha incluso 33993 persone vaccinate con ciclo completo, ha calcolato che il tasso di infezione nei vaccinati aumentava all’aumentare dell’età (> 60 anni) e all’aumentare del tempo intercorso dalla vaccinazione. Si badi bene: questo studio ha delle limitazioni: è retrospettivo, non dà informazioni sull’evoluzione clinica dei soggetti infettati da SARS COV 2 né fornisce informazioni precise su quelli che erano i motivi che hanno spinto i soggetti coinvolti a sottoporsi al tampone poi risultato positivo (es. presenza di sintomi, contatti con positivi, eccetera).

    Ma, a fronte di questi limiti, dato l’alto numero di soggetti coinvolti e il rigore dell’analisi statistica, il risultato globale fornito dallo studio, cioè il fatto che il fattore tempo riduca l’efficacia dei vaccini almeno rispetto all’infezione asintomatica, pare complessivamente convincente. Per inciso, lo stesso aspetto- tempo intercorso dalla vaccinazione- potrebbe essere uno dei fattori che ha contribuito a determinare il dato di maggiore efficacia di Moderna rispetto a Pfizer nello studio qatariano sull’efficacia dei vaccini nei confronti dell’infezione asintomatica da delta precedentemente citato: infatti, mediamente in quel Paese è stato dapprima utilizzato solo Pfizer e solo successivamente è stato introdotto  Moderna, per cui è possibile che i vaccinati con Moderna siano risultati più protetti solo perché si sono vaccinati dopo. Insomma, non sappiamo ancora dire quanto sia rilevante in una prospettiva a medio-lungo termine, ma è certo che il calo degli anticorpi nel tempo è un potenziale problema che potremmo trovarci ad affrontare. Rispetto a questo problema, una via assolutamente da approfondire è quella del richiamo vaccinale. Anche qui, prima di sparare cose a caso come molti colleghi medici e ricercatori hanno cominciato a fare, bisogna aspettare che gli studi vengano fatti e i dati acquisiti, ma almeno in linea teorica è una strategia che potenzialmente potrebbe funzionare, quindi vale la pena indagarla.

    Un’altra possibilità è vaccinare tutti velocemente con la doppia dose e poi tornare a vivere senza grosse restrizioni, facendo circolare liberamente il virus: si accetta così che delle infezioni accadano spontaneamente nei vaccinati ma si conta sul fatto che queste infezioni dopo il vaccino si rivelino lievi o asintomatiche. L’obiettivo in questo scenario è ottenere una sorta di stimolazione dell’immunità per via naturale. Da un punto di vista immunologico, questa strategia potrebbe funzionare, ma è comunque una strategia rischiosa, perché nulla vieta che con il tempo il vaccino perda efficacia non solo rispetto all’infezione asintomatica ma anche rispetto alle forme gravi e poi perché far circolare liberamente il virus può favorire potenzialmente l’emersione di varianti che sfuggono completamente all’immunità, superando completamente la barriera rappresentata dai vaccini.

    C’è allora una terza possibilità che in qualche modo è quella suggerita da Anthony Fauci e dalla maggioranza degli esperti, ovvero affiancare alla vaccinazione, che resta il presidio più importante, anche le misure di contenimento dell’epidemia, ovvero distanziamento e mascherine. Non vi è dubbio alcuno infatti che la strategia più efficace per contenere il contagio da un virus respiratorio sia tenere distanti le persone. In questo senso, nessuna vaccinazione raggiunge i livelli di efficacia di un lockdown completo nello spezzare la trasmissione del contagio. Non a caso, i Paesi che si sono liberati o quasi liberati del virus sono quelli che hanno usato le manieri forti contro il SARS COV 2, con lockdown duri e precocissimi, mentre non si sono liberati (almeno per ora) dal virus quelli che hanno raggiunto numeri record di vaccinazione, come Israele o l’Islanda. E quando parlo di Paesi che hanno estirpato il virus con le maniere forti, non parlo solo di Paesi autoritari come la Cina o la Mongolia. Parlo anche di democrazie come Nuova Zelanda e Australia. In Australia, ad esempio, accade che dopo un anno c’è un caso di COVID a Canberra e si mettono in lock down 400 mila persone. Ovviamente i lock down hanno conseguenze sul piano economico e sociale drammatiche e anche queste conseguenze, non solo quelle strettamente epidemiologiche, deve considerare il legislatore (per questo è bene che la politica sanitaria la decidano i politici e non gli scienziati: gli scienziati dicono quello che funziona di più o meno sul piano epidemiologico, ma poi la valutazione globale dei pro e dei contro di tutte le scelte spetta solo ed esclusivamente alla politica!).

    Essendo questa una rubrica di scienza e medicina, non discuteremo qui dei pro e dei contro del lock down sul piano politico-sociale: ci interessa qui semplicemente far capire che affidarsi solamente ai vaccini, a questi vaccini con questa schema di vaccinazione, nel contesto epidemiologico attuale potrebbe non bastare. La chimera che molti pseudoesperti citano dell’immunità di gregge potrebbe non essere raggiunta a breve anche vaccinando il 70 per cento della popolazione.

    Insomma, pur ribadendo che i vaccini sono indispensabili e sono una vera e propria benedizione, un vero e proprio miracolo della scienza, dobbiamo anche mettere in conto che per sconfiggere definitivamente SARS COV 2 o quanto meno per renderlo una comune influenza stagionale vaccinare tutti potrebbe non bastare. Dobbiamo quanto meno investire in tamponamento diffuso e tracciamento (qui la Cina con gli 11 milioni di tamponi fatti a Wuhan per soli 7 casi di contagio potrebbe essere un esempio virtuoso!) e poi procedere a spron battuto col sequenziamento delle varianti. Inoltre, dobbiamo continuare la ricerca su vaccini e farmaci per potenziare le nostre armi contro il COVID. Infine, almeno nel medio termine, è prudente non abbandonare le tutto sommato blande misure di contenimento che ci vengono richieste: evitare luoghi affollati, stare distanziati ed indossare la mascherina. E questo, come mi ha fatto simpaticamente notare Giulio Gambino nella famosa chiacchierata con cui abbiamo aperto l’articolo rimproverandomi perché in quel momento mi ero sfilato la mascherina, vale sempre sia per i vaccinati che per i non vaccinati. 

    *** Questo articolo fa parte della rubrica di TPI “Parole chiare in medicina” tenuta dal medico neurologo dell’INRCA (Istituto Nazionale di Ricovero e Cura dell’Anziano) Leonardo Biscetti. Apparentemente sul Covid gli scienziati dicono tutto e il contrario di tutto. Vi faremo capire che la scienza non è un’opinione. Vi spiegheremo i dati e gli studi più recenti sulla pandemia. E non solo.

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