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    “Vi racconto i depistaggi su Piazza Fontana e la connivenza degli apparati di stato”: parla a TPI l’ultimo magistrato che indagò sulla strage

    Il procuratore aggiunto Grazia Pradella, ovvero l'ultimo magistrato che indagò sulla strage di piazza Fontana, racconta le indagini, i depistaggi e i risvolti di quello che rimane uno degli episodi più controversi della storia italiana.

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 12 Dic. 2019 alle 14:45 Aggiornato il 12 Dic. 2019 alle 15:05

    Strage piazza Fontana: il racconto dell’ultimo magistrato che indagò

    “Si rastrellò tutto l’ambiente dell’anarchia e quello vicino all’anarchia. Le indagini hanno portato a dire che gli anarchici non c’entravano nulla e anzi che la responsabilità del gruppo anarchico è stata esclusa del tutto”.

    A cinquant’anni dalla strage di piazza Fontana (in questo articolo spieghiamo tutto quello che c’è da sapere), il procuratore aggiunto Grazia Pradella, ovvero l’ultimo magistrato che indagò sul caso, racconta a TPI le indagini, i depistaggi e i risvolti di quello che rimane uno degli episodi più controversi della storia italiana.

    La madre delle stragi è ancora senza colpevoli o è un caso chiuso?
    Mi sono occupata della strage di Piazza Fontana e parallelamente della strage della Questura, per entrambe le stragi ci furono una condanna per il gruppo di Ordine Nuovo Veneto in primo grado con assoluzione in appello confermate dalla Corte di Cassazione.
    In questo modo si è raggiunta comunque una verità sul gruppo a cui attribuire la strage, cioè quello capeggiato da Carlo Maria Maggi. E la Cassazione comunque conferma una volta di più su Freda e Ventura, non più punibili perché erano stati assolti in via definitiva a Catanzaro.
    Ha iniziato le indagini su una strage che è avvenuta quando lei era solo una bambina, cosa ricorda di quel 12 dicembre del ’69?
    Quel giorno tutta la famiglia rimase incollata ai telegiornali perché conoscevamo una persona che era rimasta ferita e si trovava all’interno della banca, quindi era diventata una questione vicina.
    Restammo attoniti man mano che le ore passavano e il numero dei morti saliva. Di quel giorno ho un ricordo visivo: la tv in bianco e nero e le immagini della bomba, ovviamente sono ricordi di una bambina. Mai avrei immaginato che avrei trattato quel caso.
    La difficoltà delle indagini fece sì che lei richiese di farsi affiancare.
    Mi resi conto che la mole di documenti da leggere era tale che non ce l’avrei mai potuta fare da sola. Stavo seguendo anche la strage della Questura e quindi per me era impossibile lavorare da sola e mi fu affiancato il collega Massimo Meroni.
    Nel corso delle indagini ha appurato che i depistaggi, effettivamente, ci sono stati.
    Da ’96 in avanti, il mio interesse fu proprio incentrato sulle deviazioni, le deviazioni dell’allora ufficio affari riservati. Tanto è vero che durante l’indagine sentì uno per uno le persone facenti parte della cosiddetta Squadra 54. Sentì anche la fonte dell’ufficio affari riservati ma anche confidente della Questura Enrico Rovelli, nome in codice Anna Bolena, e quindi sotto questo profilo non vi erano dei riflessi immediati dal punto di vista giuridico, ma appurai esattamente quando ci fu il depistaggio e come avvenne.
    Secondo le prove che abbiamo, il depistaggio avvenne subito dopo l’esplosione della bomba, perché poche ore dopo l’esplosione il prefetto di Milano mandò un telefax al ministro degli interni attribuendo la responsabilità dell’attentato agli anarchici e dicendo che le indagini erano in quella direzione. Cosa effettivamente accaduta. Si rastrellò tutto l’ambiente dell’anarchia e quello vicino all’anarchia.
    Poi è emersa una verità molto diversa.
    Le indagini hanno portato a dire che gli anarchici non c’entravano nulla e anzi che la responsabilità del gruppo anarchico è stata esclusa del tutto dalle mie indagini.
    Tante le veline artefatte. 

    Si attribuiva la responsabilità ad alcuni anarchici appartenenti al Ponte della Ghisolfa e da lì si arrivò al Preda. Per velina si intende un documento che viene o dall’ufficio politico o dall’ufficio affari riservati come un documenti da tenere riservatamente ma sarebbe quello che riferiscono le fonti da tutelare.

    In quel momento a Milano c’era Silvano Russomanno che era il vice di Federico Umberto d’Amato, il capo degli uffici affari riservati e operava qui insieme a tutta la Squadra 54 che era l’emanazione dell’ufficio affari riservati.

    Qual è la relazione tra questa strage e le altre, come Bologna, Italicus?
    La prima relazione è con la strage della Questura che non è mai abbastanza attenzionata, ha lo stesso schema di Piazza Fontana: gruppi ordinovisti dietro la mano di un finto anarchico che in realtà era legato a Ordine Nuovo e che era Bertoli. Il quale, al grido “Viva l’anarchia” cercò di uccidere il Ministro dell’Interno Mariano Rumor – in quel momento nella questura per la commemorazione del commissario calabresi e ci furono 4 morti e decine di feriti. Fu un attentato molto grave.
    Lo stesso gruppo è dietro piazza della Loggia. Lì è un’indagine che ha potuto indagare più a lungo e sono arrivati alla condanna definita di Carlo Maria Maggi.
    Piazza Fontana e le altre stragi chiamano in causa la connivenza di parte dei nostri apparati di sicurezza. 
    Sicuramente. Le indagini si depistano in tanti modi: o nascondendo ai magistrati la verità, o occultandola parzialmente, oppure indirizzando le indagini in una direzione completamente errata. Fu proprio questo il caso di piazza Fontana. Per fortuna in quel momento intervenne la magistratura veneta che riuscì a imboccare la pista giusta.
    Le indagini le hanno procurato difficoltà e le è stata assegnata la scorta.
    Per rispetto del dovere della memoria non voglio parlare della mia persona. Ho cercato di fare al meglio il mio ruolo di investigatore, molte cose forse all’opinione pubblica non vengono spiegate correttamente perché ribadisco l’unica indagine su piazza Fontana nuovo rito è stata quella aperta dalla procura della repubblica di Milano che ha visto in primo grado una condanna all’ergastolo.
    Quindi un magistrato segue il processo secondo i relativi canoni. Sarebbe occorso più tempo per svolgere al meglio il lavoro e sopratutto implica una conoscenza documentale enorme. Ricordo l’ufficio pieno di carte dell’ufficio affari riservati, tanto da non poter camminare.

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