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    Abusate e umiliate: noi, vittime di violenza, sole contro tutti

    Maltrattate dal proprio partner, picchiate, pugnalate. Ogni anno a migliaia subiscono reati sessuali o rischiano di morire per mano di un uomo. Ma fuori dai tribunali vengono ignorate. Anche dallo Stato che nega loro risarcimenti adeguati

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 3 Feb. 2023 alle 15:19

    «Mi faceva una corte sfrenata. Mio marito mi aveva lasciata da qualche mese e ho pensato di dargli una possibilità. Una persona sana di mente pensa questo, non pensa: se non va bene mi ammazza». Lidia ha 51 anni e viene dalla provincia di Catania. Ha incontrato l’uomo che avrebbe tentato di ucciderla quando di anni ne aveva 40. Lui lavorava in un bar e «indossava una maschera bellissima». Premuroso e presente, mostrava di voler stare con lei in ogni istante, tanto da svegliarsi alle 5 di mattina per accompagnarla al lavoro «anche se non era necessario». La sera, a casa, le faceva trovare la cena pronta e le candele accese. Attenzioni che erano anche un modo di sdebitarsi per il fatto che Lidia, dopo essersi trasferita a Catania per fare l’assistente di volo in aeroporto, aveva accettato di andare a convivere pagando l’affitto dell’intero appartamento, perché lui nel frattempo aveva perso il lavoro. In città, si erano detti, lui avrebbe avuto più possibilità di trovarne uno nuovo. «Ho chiesto un prestito di 10mila euro per affrontare questo cambiamento. Voleva venire con me. Avrei scoperto solo dopo che lo stava facendo per controllarmi».

    Lidia non sa dire se il suo fosse amore, ma le continue attenzioni le davano l’impressione che lui tenesse molto a lei. «Ero coinvolta da questa persona che all’inizio mi trattava così bene. Io ero fragile, lui era l’unico appiglio. Ma la maschera questi non la possono tenere più di tanto». La maschera inizia a venire giù con il primo schiaffo, che arriva quando lei si rifiuta di mostrargli il cellulare. Poi con i continui litigi e le insinuazioni sui presunti amanti di lei. «A un certo punto non trovavo più i soldi messi da parte per l’assicurazioni dell’auto. All’inizio mi diceva: “Tu distratta chissà dove li hai messi“. Poi ha ammesso di averli presi e di averli buttati perché “chissà come li avevo guadagnati“. Secondo lui me li davano altri uomini. Io rispondevo: “Capirai, 700 euro, non sono brava neanche a fare quello“». Mentre ripercorre i passaggi della storia che le avrebbe cambiato la vita per sempre, Lidia riesce a sdrammatizzare, ma trova continue giustificazioni con se stessa per quello che le è accaduto, lasciando trasparire il senso di colpa per non essersi accorta di essere di fronte a una persona violenta. «Non ho visto, ero fragile, l’ho perdonato, pensavo fosse in buona fede», ripete. «Mia madre me lo aveva detto che non gli piaceva, mia madre non meritava questo dolore».

    Gita a Tindari

    Il dolore arriva in una notte di giugno, quando lui le propone una gita a Tindari per visitare la Madonna nera, di quel colore perché fatta con il legno di ebano. In quel periodo i due non convivevano più: lei gli aveva detto che sarebbero tornati insieme solo se lui fosse cambiato. «Al ritorno lasciamo prima mia sorella che era venuta con noi. Io dovevo tornare a casa nel mio paesino, ma c’era traffico e mi chiede se può trascorrere qualche ora a casa mia per farlo defluire. Se gli dicevo di no mi avrebbe detto che aspettavo l’amante». La sosta di un paio di ore diventa una cena, poi lui si trattiene per guardare un film e infine le chiede di fermarsi a dormire. Lidia accetta. «Come facevo a capire che stava per ammazzarmi?». Dopo essere andato in bagno «torna con una bistecchiera di ghisa con il manico di legno e inizia a colpirmi dalla nuca alla spalla sinistra», racconta. «Ha usato delle forbici per pugnalarmi. Mi ha aperto il sopracciglio sinistro fino allo zigomo. Credevo di aver perso un occhio. Ha tentato di strangolarmi. Gli chiedevo: “perché mi vuoi ammazzare?”. Lui aveva solo un’espressione di cattiveria sul volto». Dopo circa 25 minuti di aggressione, lui si ferma. Lidia sanguina e riporta diverse ferite, ma finge di non avere paura per farlo calmare. «Ho pensato che nei casi di sequestro ci vuole sempre un mediatore. Ho iniziato a parlargli con voce pacata nella speranza che andasse via. Siamo rimasti così per oltre due ore, le più lunghe della mia vita. Quando è uscito di casa mi sono chiusa a chiave, ho chiamato il 118 e poi mia madre».

    Il trauma di Lidia non è scivolato via insieme all’acqua che le ha lavato via il sangue in ospedale «bruciando come spine». E nemmeno quando, poche ore dopo, le forze dell’ordine hanno trovato il suo aggressore e lo hanno arrestato. O quando, dopo che ha accettato di patteggiare per velocizzare i tempi, l’uomo è stato condannato per tentato omicidio e sequestro di persona a quattro anni e mezzo. Perché quando ha ottenuto gli arresti domiciliari è tornato a scriverle e seguirla. Dopo essere rientrato in carcere per finire di scontare la pena, nel 2017 il periodo di condanna è terminato e Lidia ha iniziato a fare pressione rilasciando interviste e andando in tv. «È iniziato un nuovo processo mentre stava per uscire, è rientrato in carcere per scontare cinque mesi di custodia cautelare per stalking, questa volta con rito ordinario. Durante il processo sono stata umiliata, giudicata, vessata, ridicolizzata e offesa dai suoi legali, tanto che a volte mi sembrava uno scherzo. A settembre 2022 mi hanno comunicato che il processo non poteva continuare. Ancora non ho le carte, ma il problema è che io avevo fatto solo segnalazioni e non denunce. Ero talmente devastata che sono andata da psicologa e psichiatra, soffro di stress post traumatico. Non ho dormito per anni». Oggi Lidia ha un nuovo compagno e due gemelli di 7 anni, ma il suo travaglio non è mai finito. Sente di non essere riuscita a conquistare una vita dignitosa per sé stessa e per la sua famiglia, di non essere stata supportata dopo la violenza subita in un percorso che non finisce in tribunale, ma continua nella vita di tutti i giorni. Dove però lo Stato e le associazioni si mostrano assenti.

    Supporto insufficiente

    «È vero che in Italia ci sono moltissime associazioni, purtroppo però non tutte le Regioni sono coperte allo stesso modo, e talvolta anche quelle all’interno della stessa Regione non lavorano in sinergia, così ci sono problemi nella gestione dei casi», spiega a TPI Elisabetta Aldrovandi, avvocata e presidente dell’Osservatorio sostegno vittime e Garante Regione Lombardia a tutela delle vittime di reato. «Regioni come la Lombardia e l’Emilia Romagna sono coperte al 100 per cento dalle reti antiviolenze, altre, come la Sicilia o la Calabria, no», continua. Tra i risultati ottenuti dall’Osservatorio, che porta avanti un’attività istituzionale attraverso le audizioni in Commissioni Giustizia alla Camera e al Senato, vi sono l’estensione della pena per violenza sessuale da 6 a 12 anni e del periodo in cui si può sporgere denuncia da 6 a 12 mesi, la riforma del rito abbreviato che lo vieta per i reati puniti con ergastolo – come i femminicidi – l’introduzione del codice rosso nel 2019, il reato di deformazione permanente del viso con sostanze corrosive, il “revenge porn” e la costrizione o induzione al matrimonio. A fronte delle conquiste ottenute sul piano del codice penale, però, manca ancora una rete di sostegno omogenea su tutto il territorio nazionale per gli uomini e le donne che vengono maltrattati e che hanno bisogno di essere aiutati e risarciti adeguatamente.

    «Lo Stato mi ha chiesto di fare una cosa e l’ho fatta: ho denunciato. Ma lui cosa ha fatto per me?», si chiede Lidia, che da quando ha lasciato il lavoro in aeroporto non ha più trovato un nuovo impiego. «A 51 anni nessun negozio mi prenderebbe a fare la commessa, e comunque non riesco a stare in piedi 12 ore. Ogni tanto faccio qualche supplenza nelle scuole superiori o medie. Non ho avuto risarcimenti da parte di nessuno, ora non pago le visite mediche perché in esenzione per reddito, ma non mi hanno mai dato niente. Quando ho provato ad aprire un’associazione per vittime di violenza, nessuno mi ha supportata». Nel 2018 Lidia ha lanciato una petizione per inserire le donne vittime di violenza nelle categorie protette, per far sì che le aziende ottenessero agevolazioni dalla loro assunzione, come succede per esempio per gli ex detenuti. Ma anche questo tentativo non è andato a buon fine. «Perché devo vedere gli ex detenuti nelle oasi ecologiche e io, laureata, non posso nemmeno avere un lavoro di pulizia al comune? Loro hanno la precedenza su tutto e noi? Lo Stato mi dice: denuncia. Ma quante donne sono state uccise dopo aver denunciato? Dopo la denuncia che succede? Loro sono aiutati, noi abbandonate», conclude Lidia. Secondo i dati del Viminale, nel 2021 sono stati 22.602 i maltrattamenti contro familiari e conviventi, di cui l’82 per cento contro donne: un incremento del 30 per cento rispetto al 2018. Nello stesso anno, le violenze sessuali sono state 5.004, di cui il 92 per cento contro donne, il 2 per cento in più rispetto al 2018. I reati persecutori 17.539.

    Per Caino e per Abele

    «A partire dal 2019 sono aumentate le denunce per violenza sessuale, stalking e maltrattamenti in famiglia perché probabilmente grazie al codice rosso molte vittime si sentono più sicure a denunciare», spiega ancora Aldrovandi. Ma sono ancora tante le battaglie da portare avanti. Una di queste riguarda proprio la rieducazione e il reinserimento delle vittime. «Quando si subisce un reato così grave anche solo il pensiero di uscire da sola ti blocca. Si scatenano dinamiche che non vengono considerate. Ma delle vittime ci si interessa marginalmente», continua l’avvocato. Oggi l’associazione sta cercando di introdurre l’obbligatorietà del lavoro in carcere, già adottata in Germania per i condannati ritenuti psicologicamente e fisicamente idonei, «per supportare economicamente le vittime del reato, che molto spesso non ottengono un risarcimento adeguato. Quando la violenza sessuale viene consumata da un nullatenente, la vittima otterrà dallo Stato un risarcimento di massimo 25mila euro spalmato in cinque anni. Cosa se ne farà?», continua il garante. «Un condannato riabilitato significa una vittima in meno una volta che uscirà dal carcere, quella della rieducazione delle vittime è una battaglia fatta non solo per Caino, ma anche per Abele», conclude.

    Quando S. (nome di fantasia) è arrivato nel centro psichiatrico in cui lavorava Gina, aveva 21 anni ed era già stato condannato per violenza sessuale contro una donna. Lei, che oggi ha 54 anni, lavorava come operatrice socio-sanitaria all’interno della struttura. Una sera il ragazzo era agitato, Gina era di turno e aveva cercato di calmarlo. Non poteva immaginarsi che dopo poco sarebbe tornato con un coltello, l’avrebbe legata, imbavagliata, pugnalata e violentata all’interno della sua macchina. «Mi ha dato calci e pugni, avevo cinque costole rotte, i muscoli lacerati», racconta a TPI. Anche per lei, come per Lidia, il dolore e le difficoltà non sono finite con l’arrivo dei soccorsi. «Da lì è iniziato tutto, e ancora oggi lotto. Avevo un figlio della stessa età dello stupratore, siamo stati tutti male, è stato un domino. I primi tre anni ero un morto che camminava, poi piano piano ho cercato di reagire con l’aiuto di farmaci e psicologi, ma la forza la devi trovare tu. Per fortuna ho avuto la famiglia alle spalle. Ma tutto quello per cui ho lavorato per tutta la vita lo sto spendendo per le spese mediche, gli psichiatri, ho dovuto ricorrere agli avvocati per ottenere il tfr, che ancora sto aspettando». L’unico supporto che Gina ha ottenuto in questi anni, oltre a quello della sua famiglia, è stato quello fornito dall’Osservatorio vittime di violenza. «Il mio punto di riferimento è la dottoressa Aldrovandi, ma per il resto sono stata abbandonata. Dopo tutto quello che ho subito mi ritrovo senza lavoro. Non sono stata tutelata in nessun modo da nessuno, né supportata per le spese. Se riesco a raccontare la mia storia mi arrabbio e mi torna addosso tutto – continua Gina con la voce rotta – Lo Stato non esiste, non esistono le istituzioni. Esisti solo tu e i tuoi problemi».

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