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    “Questa siccità è una disgrazia mortale”: il viaggio di TPI lungo il Po

    Credit: GIUSEPPE CACACE / AFP

    Le lanche, riserva idrica del fiume, si sono prosciugate o sono state bonificate per produrre mais. Oggi il corso d’acqua alterna grandi piene a grandi secche: il suo assetto è cambiato per sempre. Il viaggio di TPI dalle pianure alluvionali fino al Delta

    Di Stefano Rotta
    Pubblicato il 24 Giu. 2022 alle 09:35 Aggiornato il 24 Giu. 2022 alle 09:36

    Il mare dei poveri si attraversa a piedi. Il fiume Po boccheggia, ma non è un rigagnolo come spesso descritto: siamo ancora sopra i 200 metri cubi di portata al secondo. Il problema non è solo l’emergenza, ma una gestione predatoria e contenitiva del fiume che, a partire dagli anni Trenta ne ha sottratto spazi vitali – le lanche – riserve di acqua e biodiversità. In questo contesto, ogni crisi idrica o eccesso d’acqua estremizza le normali fasi di magra e piena.

    Il nostro viaggio inizia nelle pianure alluvionali tra Milano, il Po e l’Adda, con Gian Enrico Grugni, agricoltore del lodigiano, zona storicamente simbolo di uso agricolo di acqua da scioglimento delle nevi, raccolta e gestita in canali, rogge e fossi.

    Un reticolato che dall’Alto Medioevo, dal tempo dei monaci benedettini, ha trasformato zone paludose in zone fertili. Oggi non è più impossibile il rischio desertificazione. Nella sua azienda agricola di Cervignano d’Adda, distese di mais, frumento, e forte produzione zootecnica, Grugni spiega: «La situazione è drammatica. Non solo per la mancanza di prodotto, che va a sommarsi alla crisi internazionale. Senza mais non avremo carne e latte, senza frumento non avremo pane. Ma c’è un grosso problema idrogeologico: una zona come la nostra è abituata ad avere un afflusso di acqua importante dall’arco alpino e dai ghiacciai. I pozzi quindi qui sono a 80 metri, non a 150-180 come al Sud. Se non ci saranno permeazioni, si abbasseranno e avremo problemi per gli approvvigionamenti di acqua potabile». Danni all’agricoltura? «Potrebbe diminuire non tanto la qualità, quanto la qualità del prodotto. E poi c’è la questione aflatossine, generate da muffe di origine naturale, con forte potere cancerogeno».

    Nel cremonese, a Motta Baluffi, incontriamo Vitaliano Daolio, pescatore e operatore turistico di professione. Da oltre trent’anni vive in golena, avendo fatto dell’acqua dolce la sua professione: «La situazione è difficile. Il problema in navigazione è il passaggio da una linea di navigazione all’altra. Tra le sassaie ci sono punti da 25 centimetri. Si rischia di arenarsi anche nella linea di navigazione, dove cioè la navigabilità è garantita da un canale scavato artificialmente. Siamo sotto di tre metri rispetto alle secche estive; diventa pericoloso lavorare». Mentre, manualmente, diserba le fragole, sotto un ombrellone (ci sono quasi quaranta gradi), chiediamo quali sviluppi prevede: «È solo l’inizio. Ieri in barca alcuni agricoltori del pavese mi raccontavano che non hanno acqua sufficiente per allagare il riso. Tutta quest’acqua del fiume, finisce in mare, va sprecata. Il fiume andrebbe bacinizzato, come all’estero. Si fanno delle conche per trattenere il flusso e questo agevola anche la navigazione. Oggi c’è un grosso problema di fondali, infatti non c’è più nessuno in barca». Da decenni non si vede una cosa del genere, «anzi non si è mai vista, ho 66 anni e così in basso non siamo mai scesi. Un agricoltore del casalasco, 82 anni, mi ha confermato che siamo al record. Nel 2003 lavoravo a Borgoforte, abbiamo battuto anche quell’annata». Usciamo in barca per constatare di persona la penuria di acqua. E navigando, al calare del sole, Daolio argomenta: «Su ai laghi si è smesso di fare energia elettrica per dare un minimo deflusso vitale al fiume. Ma non so quanto basterà. Gli impianti idrici sono stati progettati, non a caso, negli anni Trenta, per un fiume mediamente durante l’anno cinque metri più alto. Negli anni Sessanta, al tempo del benessere, sono stati sottratti ingenti quantità di inerti dall’alveo, come materia prima per costruire le città. Per il cemento, serve sabbia. È stata rubata per decenni, questo sedimento non c’è più. È cambiato l’assetto del fiume per sempre. Le lanche, riserva idrica del Po, si sono prosciugate. Oppure bonificate per fare mais. Il fiume continua a scavare, alternando grandi piene e grandi secche. Per questioni di protezione idraulica e per favorire la navigabilità, il Po è stato ristretto a circa trecento metri. Fino all’Ottocento era largo chilometri. Ma queste azioni contenitive si sono rivoltate contro l’equilibrio generale del fiume. Fino alla prima guerra mondiale si poteva partire da Locarno, in Svizzera, si faceva il lago, scendendo il Ticino, andando nei Navigli, di qui al Lambro, che allora non era marcio, poi Po, Laguna a Venezia, idrovia Veneta fino a Trieste. Si commerciava così. Le idrovie sono state abbandonate, i navigli coperti o interrotti da ponti bassi. Un fiume naturale sarebbe stato la miglior difesa per secche e piene. Oggi a Isola Pescaroli l’impianto di idrovore non pesca più acqua, tanto si è abbassato il fiume: sei trattori prendono acqua dal Po, la buttano nell’impianto fatto nel 1930, irrigano i campi e il mais, un bel po’ viene trinciato e portato negli impianti di Biogas. Un biogas bio solo a parole, che ci verrà a costare una follia».

    Sulla sponda opposta, Giulio Storci, 72 anni, in forma come un ragazzo, è un pescatore di Colorno, nel parmense, medio corso. Ci accoglie al suo circolo fluviale, dove fervono i preparativi per l’immancabile tortellata di San Giovanni. Dice: «I pescatori non escono. È pericoloso navigare, ci sono molte secche e verrà rimandata anche la tradizionale corsa dei motoscafi d’epoca. Mangeremo però i tortelli di erbetta e prosciutto e melone, con la rugiada. Il Po lo viviamo tutti i giorni, nonostante grossi problemi. Questa siccità è una disgrazia mortale. Escono secche che in 72 anni non ho mai visto. Negli anni di forte siccità, di solito vengono grosse piene in autunno, e noi qui dovremo sbaraccare tutto».

    Credit: Mauro Ujetto / NurPhoto / NurPhoto via AFP
    L’ipotesi bacinizzazione

    «Il Lando non si ferma!». Troviamo Giuliano Landini al comando della sua motonave, a Viadana, nel mantovano. Turismo e cultura, una delle poche realtà di crociera lungo il fiume, basata nella Bassa reggiana: «Peschiamo un metro e venti, nel canale navigabile c’è un metro e settanta, sono andato in retro alla fonda per non gravare sul pontile». Landini è molto chiaro sulla bacinizzazione: «Oggi abbiamo 220 metri cubi al secondo. Sulla Senna ne hanno 70 e navigano. Per noi la siccità è un grosso danno. Nel 2018-19 abbiamo avuto un incremento esagerato, nel 2020 e 2021 la pandemia, nel 2022 gran richiesta e oggi ci troviamo a dire dei no. Sabato pomeriggio (il 16 giugno, ndr) siamo arrivati a -4.55 a Boretto. L’unica soluzione è la bacinizzazione. Trattenere acqua da monte a valle. Ci fu un progetto, chiamato Sinpo, negli anni Sessanta, per cinque conche: ne hanno fatta una sola, a Isola Serafini. Oggi sono tutti contrari».

    Per Aipo, agenzia interregionale fiume Po con sede a Parma, parla il responsabile della navigazione Alessio Picarelli, in precedenza occupato nella pianificazione e gestione delle acque: «Magari la crisi idrica fosse solo sul fiume Po. La condizione è grave su tutto il bacino. I sabbioni fanno impressione in foto, ma le falde sono basse anche in Appennino e nelle zone alpine. I laghi sono al limite». Che ne pensa della bacinizzazione? «Non servono opinioni, è un progetto che ha costi economici e ambientali superiori ai benefici, come dimostrato da studi condotti da regioni sia favorevoli sia contrarie. La bacinizzazione non crea acqua, ne rallenta il deflusso verso il mare. Permane il problema delle falde e dei laghi. Verrebbe compromessa la qualità dell’acqua. E con queste basse portate, i costi non sono recuperabili dalla produzione dell’energia elettrica. Inoltre sono appena stati stanziati 360 milioni di euro per la riqualificazione del fiume Po, da Piacenza a Felonica. Il progetto prevede corrente libera, bacinizzando si perderebbero quei fondi».

    E alla fine, il mare. Che però rischia di devastare il fiume, se la portata si abbassa. Niki Penini, è un giovane pescatore e operatore turistico nel Delta del Po. A bordo del suo barchino, ci parla del dramma locale: il cuneo salino. «L’acqua salata risale costantemente, è un problema per la fauna e per la flora. Con troppo sale diminuisce la produzione di vongole veraci e di cozze, perché manca il cibo. Con i cambiamenti climatici c’è meno fitoplantcton. I bacini idroelettrici a monte trattengono troppa acqua e il sale risale. Le barriere antisale, chiamate porte vinciane, a causa della diminuzione di cinque volte della portata del fiume non funzionano più». La tua attività è danneggiata? «No, qui no, al Delta l’acqua del mare compensa l’acqua del fiume. Ma il sale, appunto, va a distruggere la biodiversità. Si perde l’avifauna di acqua salmastra e proliferano specie aliene, come il granchio blu. Mancando acqua dolce, avviene l’atomizzazione del canneto: si disgrega la canna palustre, che ha bisogno di acqua dolce. È una barriera naturale contrapposta tra mare e arginature. Le prime difese dell’ambiente, tra mondo marittimo e fluviale, scanni e bonelli, si stanno distruggendo, perdendo consistenza».

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