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    “Io, primario di pronto soccorso, vi spiego perché il Ssn non fa più il suo mestiere”

    Fabio De Iaco

    “Il Ssn ha smesso di essere il servizio che tutela la salute. È diventato un erogatore di prestazioni. Ma le risorse non bastano. E noi medici siamo limitati nelle nostre decisioni da protocolli che mirano a evitare le cause legali. Per la Sanità pubblica italiana questo è il momento più basso”. Parla Fabio De Iaco, presidente della Società di medicina d’emergenza urgenza

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 3 Nov. 2023 alle 09:52

    Fabio De Iaco, direttore del pronto soccorso dell’Ospedale Maria Vittoria di Torino, è presidente di Simeu (Società italiana medicina di emergenza urgenza). Non si tratta di un sindacato – ci tiene a precisare – ma di una società scientifica che «analizza con attenzione e metodo gli scenari complessi che si sviluppano nel contesto dei pronto soccorso e del 118, notoriamente già compromessi e in difficoltà per una serie di contraddizioni che sembrano non trovare soluzione». «Faccio il medico da 32 anni – esordisce in questa chiacchierata con TPI – e da 27 vivo in pronto soccorso».

    In che senso, «vive» in pronto soccorso?
    «Con i colleghi scherziamo sul fatto che fuori dalla struttura ci vorrebbe un citofono con il mio nome, perché ormai ci abito».

    Turni massacranti?
    «Fino a quando sono stato turnista passavo 50-60 ore a settimana tra pronto soccorso e 118. Da sette anni sono diventato primario: teoricamente dovrei lavorare dalle 8 alle 16, e mai di di notte o di sabato e domenica. In realtà passo qui non meno di 11-12 ore al giorno. In questo periodo faccio anche delle assenze, perché da presidente di Simeu mi capita spesso di muovermi. Ma se non sono in giro per la società scientifica, mi trova qua».

    I pronto soccorso di tutta Italia sono allo stremo. Perché?
    «Hanno perso la loro identità: da centro di gestione dell’emergenza urgenza sono diventati la rete di sicurezza del Servizio sanitario nazionale. Tutto ciò che non trova risposta nelle altre “reti”, dalla medicina territoriale agli ospedali, finisce qui. Allo stesso tempo, il lavoro in pronto soccorso è sempre più ingrato: scarsamente valorizzato dal punto di vista economico e della dignità professionale. Il risultato è che oggi ci ritroviamo con 5mila medici in meno nei pronto soccorso, a fronte di un boarding esagerato: tre giorni di attesa in barella per un ricovero stanno diventano la normalità in tutta Italia. E tre giorni sono una media….».

    Commentando la manovra finanziaria del Governo, lei ha osservato che «si continua a guardare al passato, imprigionati in modalità di approccio al problema che hanno già dimostrato inefficacia e anzi sono tra le principali cause della situazione odierna». A cosa si riferisce?
    «Rispetto al 1978, anno in cui è nato il Sistema sanitario nazionale, l’epidemiologia di questo Paese è profondamente cambiata. Fino a venticinque anni fa in pronto soccorso il caso tipico da gestire era l’incidente stradale grave. Oggi è il paziente cronico che ciclicamente si riacutizza: pensi a quanti  settantenni ci sono con problemi di cardiopatia, broncopatia… Sono pazienti che di tanto in tanto si riacutizzano, ma che si rivolgono a un ospedale che non è adatto per le loro problematiche, perché era nato per essere l’ospedale degli acuti, dell’incidente stradale, dell’appendicite, dell’infarto acuto del miocardio…».

    Questo è il momento più basso per la Sanità pubblica italiana?
    «Sicuramente sì. L’epidemiologia mutata di questo Paese necessita di maggiori risorse rispetto a prima. C’è un enorme problema di organico. Ma il discorso vale anche per i posti letto in ospedale: non bastano più, su questo non c’è dubbio. Poi c’è un’altra questione: in questi trent’anni ho visto crescere enormemente la competenza e l’importanza degli infermieri, ma ho visto anche diminuire di molto quella che io chiamo “la presenza etica” e il valore professionale dei medici».

    A cosa si riferisce?
    «Rispetto al passato, oggi noto una banalizzazione e una tecnicizzazione del ruolo del medico in ospedale. Mi rendo conto che può sembrare un discorso un po’ astratto…».

    Proviamo a renderlo concreto. Cosa intende per «tecnicizzazione del ruolo del medico in ospedale»?
    «Sempre più spesso ormai l’ambito decisionale del medico è limitato da una serie di vincoli. Da un lato ci sono le evidenze scientifiche, e ci mancherebbe, è giusto. Ma dall’altro lato ci sono protocolli e procedure volte a evitare il rischio del contenzioso medico-legale. Ora, questo mi può stare anche bene, ma i protocolli e le procedure non possono essere applicati sempre e ciecamente senza guardare al malato che si ha di fronte. Se, ad esempio in presenza di una patologia acuta, tratto allo stesso modo il caso di un trentenne e quello di un novantenne, allora comincio ad avere dei dubbi…».

    Come si arrivati a questa situazione?
    «È un’evoluzione che si è venuta a creare nel tempo con l’incremento del ricorso al contenzioso medico-legale e contemporaneamente con l’aver individuato nell’applicazione cieca delle procedure e delle evidenze l’unica via d’uscita da quello stesso contenzioso. Il Servizio sanitario nazionale, che dovrebbe essere il servizio che cura e garantisce la salute del cittadino, non fa più questo lavoro: siamo diventati erogatori di prestazioni».

    Come se ne esce?
    «Da tempo chiediamo la depenalizzazione della colpa medica. Finché la colpa sarà aggredibile sul piano penale, purtroppo queste cose accadranno. Oltretutto, spesso il ricorso al penale è di fatto una leva utilizzata per ottenere qualcosa di più in sede civile. Sia chiaro, l’errore del medico è possibile, nessuno lo nega. Ma la depenalizzazione è una realtà praticamente in tutta Europa. Abbiamo chiesto di intervenire anche in una recente audizione al ministero della Giustizia, ma la risposta che ci è arrivata è stata: “È impossibile, il nostro ordinamento non lo prevede”».

    E intanto i giovani aspirati medici scappano. I numeri sulle borse di studio andate deserte nelle scuole di specializzazione sono allarmanti.
    «Ai miei tempi il Sistema sanitario nazionale era un punto di arrivo fortemente voluto. Oggi invece lavorare nel Ssn significa guadagnare molto meno che nel privato lavorando molto di più. Un neo-laureato ha davanti a sé due possibilità: fare cinque anni di specializzazione a 1.600 euro al mese lavorando ore e ore tutti i giorni, oppure mettersi sul mercato privato, fra cooperative, Rsa, sostituzioni, con la possibilità di guadagnare decisamente di più e avere una qualità di vita migliore. Un 26enne, di fronte a questa scelta, secondo lei cosa fa?».

    Per queste sue posizioni, lei non è ben visto negli ambienti accademici…
    «La mia battaglia non è contro l’università tout court, ma contro una gestione universitaria delle specializzazioni totalmente avulsa dal contesto e dalla realtà. Non si può più pensare che l’università resti a guardare mentre noi stiamo impazzendo. Serve guardare alle altre realtà europee e alle esigenze formative e di vita degli specializzandi. Ma le soluzioni vanno trovate insieme alle università, non contro».

    Ci sono anche medici affermati che lasciano il Ssn per il privato.
    «Sì, assolutamente. Pensiamo a un ortopedico che si forma e fa carriera nel pubblico: quando diventa particolarmente bravo è assai frequente che venga risucchiato nel privato, che lo paga molto di più. Cosa significa questo? Che di fatto il Ssn aiuta a crescere medici che nel momento in cui sono al massimo delle proprie capacità produttive passano al privato».

    Da dove nasce questa disattenzione alla sanità da parte della politica degli ultimi anni?
    «La risposta più banale che spesso viene data è che ormai l’orientamento politico è quello di andare verso il privato. Secondo me questa è una banalizzazione. Il vero punto è che governare la Sanità in questo momento è difficilissimo perché servirebbero risorse che non ci sono». 

    Quindi dobbiamo rassegnarci?
    «Assolutamente no. Io sono anche disponibile ad adattarmi a una situazione in cui le risorse sono poche e i disagi sono tanti, lo sto già facendo del resto, ma quello che vorrei sentire è un progetto: una prospettiva differente sia per i professionisti sia per i cittadini, che devono ricominciare a fruire di un servizio efficiente. Disegniamo insieme un progetto per la sanità del futuro: sembra uno slogan, me ne rendo conto, ma bisogna cominciare a lavorarci. Per adesso non lo vedo».

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