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    Perché il ministero della Salute non fornisce i numeri aggiornati sull’aborto? (di Chiara Lalli)

    Christian Minelli - AFP

    Il ministero della Salute fornisce solo informazioni chiuse, aggregate per medie regionali e datate. È assurdo che non si possa avere una mappa dettagliata. L'articolo sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 2 settembre

    Di chiara lalli
    Pubblicato il 1 Set. 2022 alle 14:28 Aggiornato il 8 Set. 2022 alle 18:07

    «Per fare un tavolo ci vuole il legno. Per fare il legno ci vuole l’albero». L’avrò ascoltata migliaia di volte, facendo forse impazzire i miei genitori, e molti anni dopo mi viene da canticchiarla quando si parla di inferenze e della importanza di non inciampare sbagliando dei passaggi da una premessa a una conclusione. L’ho bofonchiata molto spesso in questi ultimi mesi, quasi tutte le volte che ho letto oppure ho ascoltato qualcuno parlare di aborto e della legge 194, cioè della legge che dal 1978 norma l’interruzione volontaria della gravidanza.

    Per dire qualcosa di sensato sull’aborto e sulla applicazione della legge 194 ci vogliono i dati. Per avere i dati ci vuole la volontà politica.

    Che cosa significa? Che non sappiamo che cosa succede oggi nelle strutture ospedaliere. Perché chi dovrebbe dircelo, cioè il ministero della Salute, pubblica queste informazioni chiuse, aggregate per medie regionali e vecchie.

    L’ultima relazione ministeriale è stata pubblicata lo scorso 13 giugno, ma lì dentro non ci sono i dati di giugno né di qualche mese prima, ma quelli del 2020. E questi dati sono imprigionati in tabelle pdf e commentati nella relazione che le accompagna.

    Quindi: sono dati vecchi, sono dati che non hanno molta utilità e sono dati che non possono essere interrogati.

    Che cosa possiamo dire di una realtà fotografata così male? Non molto. E non è necessariamente sfiducia, ma è difficile condividere l’entusiasmo del ministro Roberto Speranza basato quasi unicamente sulla diminuzione del numero degli aborti: «In totale nel 2020 sono state notificate 66.413 IVG, confermando il continuo andamento in diminuzione (-9,3% rispetto al 2019) registrato a partire dal 1983, anno in cui si è riscontrato il valore più alto in Italia (234.801 casi)», c’è scritto a pagina 3 della relazione e va benissimo, per carità, ma questo non ci dice che la legge funziona né che il servizio è ben garantito. Non è necessariamente sfiducia voler sapere come questi mesi di Covid hanno cambiato il servizio e se e come la riorganizzazione dei reparti ha influito sulla distribuzione delle strutture dov’è possibile eseguire le interruzioni di gravidanza. Perché non tutti gli ospedali eseguono aborti, e questo non è di per sé un problema – o non lo sarebbe se potessimo sapere quali sono e dove e non solo il numero (357 su 560, sempre nel 2020), se potessimo avere una mappa dettagliata e aggiornata e non un disegnetto sfocato, dove si fa fatica a distinguere un albergo da un cane.

    L’anno scorso io e Sonia Montegiove abbiamo usato il Foia (freedom of information act) che dal 2016, tramite l’accesso civico generalizzato, garantisce «a chiunque il diritto di accedere ai dati e ai documenti posseduti dalle pubbliche amministrazioni, se non c’è il pericolo di compromettere altri interessi pubblici o privati rilevanti, indicati dalla legge»). Il nostro intento era quello di guardare oltre le medie regionali, e in parte lo abbiamo potuto fare perché molte strutture ci hanno mandato i dati specifici.

    Purtroppo questi dati sarebbero davvero utili se fossero completi e aggiornati. Non solo non tutti i nostri interlocutori ci hanno risposto (singoli ospedali, Asl, Regioni), ma chi lo ha fatto ci ha mandato – nel miglior caso – i dati del 2021. Meglio, perché sono più aggiornati di quelli del ministero della Salute, ma sono comunque vecchi. In un anno i medici possono andare in pensione, possono essere trasferiti, un servizio può essere sospeso e un reparto riorganizzato.

    I dati sono davvero utili se possono essere confrontati (quindi non bastano dati parziali) e se sono in tempo reale o quasi. Solo su dati del genere si potrebbe disegnare una mappa dei servizi.

    Insomma, per dire qualcosa di sensato sulla applicazione della legge 194 bisognerebbe aprire i dati sulla 194. E dovrebbe farlo il ministero, che ha il potere e i mezzi ma non la volontà.

    La tecnologia oggi ci permetterebbe di farlo in modo abbastanza semplice. Proprio come abbiamo le mappe aggiornate delle vie o la possibilità di accedere ad altri servizi via app o sito, potremmo avere delle mappe aggiornate dei dati che riguardano le interruzioni volontarie della gravidanza. Se ci serve un esempio più vicino di una mappa stradale, ecco il modello E015 della Regione Lombardia. Basta scaricare un’app per sapere in ogni ospedale quante persone ci sono in attesa, quante sono in codice rosso, quante in verde, quante in trattamento, qual è il grado di affollamento e quali specializzazioni ci sono. Adesso, non due anni fa. Perché se devo andare in ospedale questo è il dato utile, non la ricostruzione di cosa succedeva mesi e mesi fa. Come si legge nel sito dedicato a questo servizio, «i dati sono raccolti dal sistema centralizzato che riceve i flussi informativi direttamente dalle strutture ospedaliere» (il corsivo è il mio).

    Questo modello potrebbe essere facilmente replicato, copiato, riutilizzato. Alcuni anni fa questa richiesta sarebbe stata impossibile e sarebbe stato complicato raccogliere e trasmettere questi dati aggiornati. Oggi no. L’impossibilità, oggi, è dovuta a disinteresse e a sciatteria. In quei “flussi” potrebbero ovviamente starci tutti i dati che il ministero della Salute usa per scrivere la relazione annuale.

    Un problema simile – vaghezza, fotografie sfocate – ce l’abbiamo se vogliamo sapere come e se l’aborto farmacologico (cioè la possibilità di interrompere una gravidanza prendendo delle pillole e non con un intervento chirurgico) è davvero disponibile. Ancora una volta, non ci basta avere una media regionale del 2020, ma ci servirebbe una mappa di oggi. Soprattutto perché in questi ultimi mesi una pandemia avrebbe dovuto consigliare tutti di stare il più lontano possibile dagli ospedali. Che cosa è successo?

    Mentre le linee guida ministeriali nel 2020 hanno allungato da 7 a 9 settimane il periodo di gestazione in cui si può scegliere di abortire farmacologicamente, dopo il parere del Consiglio superiore di sanità, le Regioni e le singole strutture che cosa hanno fatto e che cosa fanno?

    La Regione più virtuosa – almeno sulla carta – è il Lazio, che con la determina di dicembre 2020 ha recepito quelle linee guida. Ma le altre? E a parte la ricezione, è davvero garantita questa possibilità?

    Sempre a proposito di dati, forse vale la pena ricordare che l’aborto medico è sicuro e che ormai la letteratura in merito è decennale e vastissima. Certo, per chi non si fida perché chissà cosa ci raccontano, nulla serve. Perché ogni studio e ogni prova possono essere usati a conferma della nostra ipotesi (spesso sbagliata nei risultati, sempre nei metodi se formulata su paure o sensazioni o su cosa ci ha detto nostro cugino).

    Insomma sarebbe davvero utile se il ministero aprisse i dati sulla 194. Perché se devo abortire, non mi serve sapere cosa succede nella mia regione, non posso rischiare di andare in un ospedale dove magari non si può più abortire e magari vorrei perfino scegliere se andare in un reparto dove gli obiettori non superano una certa percentuale, dove è assicurato anche l’aborto nel secondo trimestre, dove è garantito il farmacologico.

    Per dire qualcosa di sensato sull’aborto e sulla applicazione della legge 194 ci vogliono i dati aperti.

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