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    Abbiamo paura dei disperati perché non riusciamo a sopportare la nostra disperazione

    Di Giulio Cavalli
    Pubblicato il 11 Mag. 2019 alle 13:59 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 02:38

    Abbiamo paura dei disperati perché non riusciamo a sopportare la nostra disperazione. Non sono i rom, non sono gli immigrati, no, noi stiamo diventando un Paese che non riesce a sopportare più i poveri, i cenciosi.

    Quelli che sulla battigia con le braccia alzate ci dicono non ho niente, non so fare niente, non sono niente perché i disperati riflettono quello che siamo e noi, di giorno in giorno, di mese in mese.

    Siamo un Paese che si è disumanizzato per riuscire a sopportare la disperazione che è nel senso letterale del termine, l’incapacità di costruire speranza, l’incapacità di programmare una vita che sia più lunga della terza settimana del mese, che speri in un contratto per il prossimo fine settimana nei giovani e che confidi nella sopportazione di qualche nipote per gli anziani.

    Temiamo i disperati perché sono orribilmente disperanti e così scegliamo il vocabolario dell’odio che ci propone qualcuno perché tenere tra le mani il vocabolario sentimentale costa fatica, ci chiede di metterci in gioco.

    Ci costringe ad osservarci in questo continuo imbruttimento che ha trasformato il Paese in un arcipelago di uomini che si sono fatti isole per sentire meno la paura che ci assale ogni volta che ci tocca avere un pensiero più lungo del fine giornata e appena più largo del nostro pianerottolo.

    Anche le notizie dei barconi rovesciati nel Mediterraneo, stragi che meriterebbero le parole che si dedicano alle stragi, escono attutite per farci meno spavento, come se fossero un incidente quotidiano di una quotidianità che invece ci chiede di non essere umani per riuscire ad essere sopportata.

    No, non è solo questione di solidarietà, è questione di comunità. Ed è comunità quell’insieme di persone che non ha bisogno di oliare i meccanismi solidali che non lascino indietro nessuno.

    E invece la comunità non c’è più, disgregata dall’arroganza e dall’irresponsabilità di qualche membro di governo impegnato a dividere il Paese in tifoserie piuttosto che occuparsi di quel blocco sociale che chiamiamo Stato.

    E così siamo diventati incapaci di empatizzare e compatire (nel suo senso più puro del patire con) perché qualcuno ci ha convinti che essere buoni sia un vizio che non ci possiamo permettere per non mettere a rischio i nostri figli, tutti impegnati a controllare il proprio pianerottolo, in un federalismo delle responsabilità che ci ha portato a essere tranquilli mica se la nostra Nazione è serena e pacifica, no, e nemmeno la nostra città: ci basta che il nostro quartiere sia tranquillo, che il nostro condominio sia tranquillo, che la nostra scala non abbia problemi.

    E così a forza di restringerci ci siamo ingrinziti e infeltriti. Per questo odiamo i disperati: perché ci specchiamo dentro. E l’immagine è davvero spaventosa.

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