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    L’Italia non difende i collaboratori di giustizia: la morte di Marcello Bruzzese è la prova di un fallimento di stato

    Di Giulio Cavalli
    Pubblicato il 14 Mag. 2019 alle 12:00 Aggiornato il 14 Mag. 2019 alle 13:27

    Fabrizio Capecelatro (che oltre che giornalista è anche un bravissimo scrittore di mafia) intervista la famiglia di Marcello Bruzzese dopo l’omicidio del collaboratore di giustizia e ne esce un quadro drammatico.

    “Nonostante la morte di Marcello – denunciano i famigliari – siamo stati di nuovo abbandonati dal Ministero dell’Interno”. E la frase è una costante per tutti i testimoni di giustizia in Italia, così come per i collaboratori, che lamentano una disorganizzazione che fa rabbrividire ma che, ovviamente, difficilmente esce sui giornali o viene amplificata dai media.

    “Non è morto soltanto Marcello Bruzzese. È morta con lui la speranza e i progetti di vita dei nostri figli e dei nostri nipoti”. Dice la moglie di Marcello.

    “Il Ministero dell’Interno, però, di questo non se ne rende conto e infatti nessuno ha pensato di interpellarci sulla morte di Marcello e sul futuro della nostra vita. Matteo Salvini, quando è andato a Pesaro, si è chiuso in Prefettura e non ha neanche pensato di riceverci”.

    E poi: “Salvini si è preoccupato unicamente di dire che Marcello aveva richiesto la fuoriuscita dal programma e che aveva il cognome sul citofono. La prima è una grande falsità, perché, come ha dimostrato il nostro avvocato, non risulta alcune richiesta di capitalizzazione avanzata da Marcello”.

    La questione dei collaboratori di giustizia e dei testimoni sembra non ricevere nessuno scossone positivo da anni, nonostante cambino i governi e nonostante le promesse sempre rinnovate ma mai mantenute.

    Documenti di copertura che non arrivano mai, dispositivi di sicurezza che non funzionano, falle preoccupanti tra i NOP (il Nucleo di Protezione che dovrebbe occuparsi di loro) e soprattutto una continua guerra psicologica con lo Stato che sembra trattare collaboratori e testimoni come se fossero un fardello di cui disfarsi il prima possibile.

    La vera questione, nonostante la propaganda, non sono le scorte ai giornalisti o ai politici ma è soprattutto la mancata tutela di chi decide di mettere la propria vita (e quella della sua famiglia) nelle mani dello Stato e invece ne riceve solo schiaffoni.

    Non è un caso che il presidente dell’Associazione Testimoni di Giustizia Ignazio Cutrò si ritrovi nella medesima condizione, con una sicurezza fallata nonostante abbia deciso di rimanere lì dove ha sempre vissuto (Bivona, vicino ad Agrigento) perché, ripete spesso “sono i mafiosi che se ne devono andare dalla mia terra, non certo io”.

    Il governo del cambiamento non ha cambiato nulla su questo, nonostante tra le sue fila conti, nel gruppo del Movimento 5 Stelle, una delle più importanti testimoni di giustizia come Piera Aiello, zia di Rita Atria e per anni rimasta nascosta per avere salva la pelle.

    Eppure non è, come verrebbe a credere, solo una questione di sicurezza personale: è soprattutto un messaggio, pericolosissimo, che viene da anni mandato alle mafie: se vi pentite o se decidete di denunciare non troverete un’organizzazione in grado di proteggervi, al contrario dell’ottimo welfare della criminalità organizzata che garantisce le famiglie dei detenuti e protezione anche militare, se serve.

    Ma a voi sembra normale vivere in un Paese così? Dico, vi sembra normale stare in un Paese che non è in grado (o forse non vuole, il dubbio a questo punto è legittimo) difendere i suoi uomini migliori, eppure a ogni piè sospinto ricorda Falcone e Borsellino senza metterne in atto le pratiche?

    Ci sono centinaia di arresti avvenuti grazie al coraggio e alla collaborazione di qualcuno che gridano vendetta: sono un fiore all’occhiello per lo Stato e sono una condanna alla solitudine per chi li ha resi possibili.

    E viene voglia di scappare, da un Paese così. Lo stesso desiderio che ha portato Lea Garofalo alla morte, per dire.

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