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    Malata oncologica lasciata 4 giorni su una lettiga: la foto che testimonia il caos del Pronto Soccorso di Rieti

    Di Paola Corradini
    Pubblicato il 10 Dic. 2021 alle 09:19 Aggiornato il 10 Dic. 2021 alle 10:07

    A volte, anche a chi lo fa di mestiere, mancano le parole, non vengono fuori perché raccontare a volte fa male. E quando devi scrivere di salute è ancora più difficile. “C’è di peggio” dice qualcuno che ha le mani legate e deve sottostare alla legge del più forte, ed ha ragione. Ma non può essere una giustificazione. Il peggio non può giustificare il “meno peggio”.

    Lo sanno bene i dodici medici che al pronto soccorso dell’ospedale De’ Lellis di Rieti devono coprire i turni lavorando anche 14 ore, come lo sanno gli infermieri, tre per turno a coprire il triage, che non riescono a gestire le urgenze, soprattutto ora che tornano i casi Covid. Molti medici sono giovani ed hanno la passione e la voglia di fare, ma gettati in una bolgia di barelle, malati, feriti, anziani e pazienti che hanno necessità di essere assistiti non ce la fanno. E qualcuno ha deciso che forse basta, che forse è ora di capire che la parola sanità non sta negli uffici, ma sul campo, in tre stanze dove arriva chi deve essere assistito e soccorso.

    Durante la pandemia li hanno chiamati eroi, dimenticando che chi sceglie questo lavoro lo fa perché ci crede, almeno la maggior parte di chi sta ogni giorno in prima linea. Forse basta. E nel cuore della notte arrivano due fotografie e un messaggio che parla a nome di molti. “Aiutateci perché qui non ce la facciamo più”. E si vedono le barelle, solo una piccola parte, un anziano steso su una lettiga con il sangue che ha bagnato il cuscino dove poggia la testa. Non si lamenta, gli occhi sono socchiusi. Accanto a lui altre barelle con sopra donne e uomini arrivati chissà da quanto che attendono di essere visitati o il trasferimento in reparto.

    Ora che il Covid torna a fare paura, portando nuovi ricoveri a malattie infettive e in terapia intensiva, la situazione peggiora ed alcuni reparti vengono nuovamente chiusi per diventare Covid ed accogliere nuovi malati. Autoambulanze arrivano al pronto soccorso senza sosta e nuove barelle si aggiungono a quelle già ammassate una vicino all’altra. Le stanze sono piene e così si passa ai corridoi e poi, quando anche lì lo spazio è finito, si va nel corridoio più avanti. E le ore passano, i giorni passano.

    Lo sa il nipote di una malata oncologica che è rimasta tre notti e quattro giorni su una lettiga, lo sa bene Sergio che ha raccontato la sua storia perché “voglio condividerla”: Domenica sera, intorno le 20, mi accompagnano al Pronto Soccorso di Rieti, io piegato in due dai dolori che a malapena riuscivo a reggermi in piedi. Riesco ad entrare alle 23, e tra analisi, ecografie ed ulteriori attese, con la diagnosi accertata di appendicite, si fanno le tre di notte e mi dicono che avrei dovuto passare la notte in osservazione in attesa di fare ulteriori analisi la mattina dopo. quanto la mattina dopo avrebbero dovuto farmi ulteriori analisi. Alla mia, credo legittima, domanda “dove dormo?”, la risposta è stata “posti letto liberi adesso non ne abbiamo, ma volendo una barella in corridoio dove sdraiarti la trovi”. Ho preteso, contro il parere dei medici, di firmare e andarmene immediatamente. Il Covid c’è ancora e io sono certificato come soggetto a rischio, infatti ti sto scrivendo con le braccia completamente indolenzite in quanto sono fresco di terza dose”. Ce ne sono tante di storie come quella di Sergio ed ognuna è segnata dalla sofferenza, dalla malattia, perché nessuno va al pronto soccorso per un raffreddore.

    E questo lo sanno anche i medici che ci lavorano come scrive Omar:“Una volta il reparto di urgenza era visto come il meglio che il dottore o l’infermiere potessero ambire. Ora non vuole andarci nessuno. Turni massacranti. Lavori 6 giorni su 7, festivi tra aggressioni, urla, dolore, proteste. Per altro la maggiori parte dei sanitari vengono da fuori città e impiegano sulla Salaria tra autovelox, buche, lavori e incidenti ore per arrivare”. E in mezzo a tutto questo ci sono i pazienti, i loro familiari che chiamano numeri per avere informazioni dove non risponde quasi mai nessuno, perché questa pandemia ha tolto anche la possibilità a chi trascorre ore e giorni su una barella, di avere vicino un affetto.

    Franco ha visto sua figlia quando è entrato d’urgenza e quando è stato dimesso. Era nudo sulla lettiga che è entrata nell’ambulanza e vicino aveva lo zaino con il pigiama e l’intimo che la figlia aveva consegnato ad un’infermiera. E allora forse basta. Dovunque e in qualsiasi modo accada. Oggi la Regione Lazio ha parlato della necessità di implementare la pianta organica delle strutture sanitarie e i macchinari come pure di aumentare il numero di medici che mancano in pronto soccorso. E tra le proposte quella che ai giovani specializzandi del primo anno possano essere assegnati i malati meno gravi per formarsi sul campo. Un campo di battaglia dove pazienti, medici e infermieri combattono la stessa battaglia contro un sistema che di giusto non ha più nulla.

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