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    “Lobby & logge”, il libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara

    Di Redazione TPI
    Pubblicato il 8 Feb. 2022 alle 08:00

    “Lobby & logge”, il libro di Alessandro Sallusti e Luca Palamara

    Gennaio 2021: arriva in libreria Il Sistema, il dirompente libro-confessione in cui Luca Palamara rivela ad Alessandro Sallusti la verità indicibile sulle correnti e la spartizione del potere all’interno della magistratura. Il libro non solo diventa ben presto il caso editoriale e politico dell’anno; avvia una reazione a catena di dimissioni, ricorsi, sentenze che non fa che confermare il racconto di Palamara.

    Gennaio 2022: l’ex magistrato e il giornalista affrontano i misteri del “dark web” del Sistema, la ragnatela oscura di logge e lobby che da sempre avviluppa imprenditori, faccendieri, politici, alti funzionari statali, uomini delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, giornalisti e, naturalmente, magistrati. Logge e lobby che decidono se avviare o affossare indagini e processi e che, come scrive Sallusti, “usano la magistratura e l’informazione per regolare conti, consumare vendette, puntare su obiettivi altrimenti irraggiungibili, fare affari e stabilire nomine propedeutiche ad altre e ancora maggiori utilità. Per cambiare, di fatto, il corso naturale e democratico delle cose”. Esiste davvero la “loggia Ungheria”, di cui farebbero o avrebbero fatto parte membri del Consiglio superiore della magistratura, imprenditori, generali della Finanza e dei Carabinieri, politici di primissimo piano? Perché, quando un faccendiere plurindagato e ben introdotto in troppe procure ne svela l’esistenza durante una deposizione, quel verbale finisce in un cassetto per due anni? Ancora una volta, le rivelazioni sconvolgenti di Palamara e Sallusti smascherano un mondo parallelo dilaniato al suo interno da inconfessabili interessi, che agisce dietro le quinte, su binari di legalità formale, e si infiltra pericolosamente nelle crepe del sistema giudiziario.

    Di seguito un estratto del libro per gentile concessione di Rizzoli:

    Silenzio, il trojan ti ascolta
    I magistrati hanno paura dei magistrati

    Data della scena: un giorno di giugno del 2020, non identificato con certezza dagli stessi attori. Luogo della scena: Palazzo dei Marescialli, storica sede del Consiglio superiore, organo di autogoverno della magistratura, che domina una piazza importante del centro di Roma, piazza Indipendenza.

    Dottor Palamara, ci spiega cosa accadde quel giorno, in quel luogo e perché lei ritiene che si sia trattato di un fatto storicamente inquietante?
    Succede che Piercamillo Davigo, in quel momento consigliere del Csm, arriva a Roma con nella borsa una copia dei verbali di Amara in cui si racconta della loggia Ungheria, gli stessi sui quali la procura di Milano non vuole indagare. Davigo sale le scale di Palazzo dei Marescialli fino al primo piano, dove c’è l’ufficio del vicepresidente, David Ermini, di fatto il numero uno perché come noto il presidente è il capo dello Stato. Qualche minuto di convenevoli, poi i due si accordano per lasciare i rispettivi telefonini sulla scrivania e di proseguire il loro incontro con a tema la loggia Ungheria in cortile. Così scendono e iniziano a passeggiare facendo slalom, immagino, tra le auto lì parcheggiate. Cosa le ricorda una simile scena?

    Non saprei, a lei cosa ricorda?
    Scene simili le ho in mente tra chi teme di dover nascondere qualcosa o comunque tra due o più signori che vogliono farla franca dalla magistratura e dalla polizia. Quante ne abbiamo viste nei tg di immagini simili, di confabulazioni all’aperto tra chi non vuole essere ascoltato da orecchie nemiche?

    Parallelo un po’ forte, ma in effetti è una scena classica della malavita.
    Già, ma qui non parliamo di malavita, qui parliamo del capo della magistratura italiana e del magistrato più famoso d’Italia, quello che dice di avere una morale specchiata e assoluta. La domanda è: che cosa temono, di chi non si fidano al punto da dovere nascondere le proprie parole nel tempio che dovrebbe custodire la sacralità della giustizia? Non si fidano dei colleghi, quindi della magistratura stessa? Temono di essere controllati da altri pezzi dello Stato, tipo dai servizi segreti? Sanno che qualche loggia o organizzazione privata ha infiltrato il Csm fino al punto di minare la libertà del proprietario di casa? Le loro sono parole lecite oppure vogliono nascondere qualcosa? Ecco, io credo che fino a quando non avremo risposte convincenti a queste domande il dubbio che il Csm non sia più la casa della giustizia sia oltremodo lecito. Anche perché, come noto, questa che stiamo raccontando non è una eccezione.

    Ammetto che anche io vorrei vivere in un Paese dove il capo dei magistrati può parlare liberamente, sentendosi al sicuro nel suo ufficio, di qualunque cosa con chiunque. Detto questo, rispetto alla non eccezione, immagino lei si riferisca al caso dell’incontro tra Davigo e il presidente della Commissione antimafia, il grillino Nicola Morra.
    Esatto, negli stessi giorni Davigo convoca a Palazzo dei Marescialli Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, suo referente politico nei Cinque Stelle. La prima parte dell’incontro avviene nel suo ufficio. Poi Davigo prende in mano il fascicolo Ungheria, porta Morra sul pianerottolo e glielo mostra. E adesso i misteri sono due. Il primo è che evidentemente Davigo teme di essere ascoltato o intercettato nel suo ufficio o tramite il suo telefonino. La seconda è che non si capisce a che titolo Davigo sveli un segreto istruttorio a un leader politico di un partito amico, commettendo secondo la procura un reato e creando una situazione di disparità con le altre forze di governo e di opposizione.

    Interpellato, Davigo ha sostenuto di aver parlato con Morra in quanto presidente dell’antimafia, non per il suo ruolo politico.
    Ridicolo, in questa storia l’antimafia non c’entra nulla. E comunque non aveva nessun mandato per fare una cosa del genere, per di più su un pianerottolo.

    Lei ha tre ipotesi di possibili mandanti di intercettazioni, magari come è successo a lei con l’uso di un trojan, cioè con un virus informatico che non solo ascolta le telefonate ma trasforma il cellulare, anche se spento, in un microfono sempre aperto che registra ogni parola. Le tre ipotesi sono: magistratura ordinaria, servizi segreti, agenzie private. Quale delle tre secondo lei temevano di più Davigo ed Ermini, al punto da doversi appartare in cortile?
    Ritengo temessero tutte e tre le ipotesi visto il clima che si è creato all’interno della magistratura dopo il mio trojan: nessuno si fida più di nessuno. Devo dirle però che, anche quando le intercettazioni sono disposte dall’autorità giudiziaria, il confine tra gli ascolti legali e quelli illegali – lei citava servizi segreti e agenzie private – non immagini sia così netto.

    Lei sta dicendo una cosa molto grave.
    Certo che è grave, ma è la verità e il motivo è molto semplice. La gente immagina che mentre è in corso una intercettazione nella centrale di ascolto ci sia un magistrato o un ufficiale di polizia giudiziaria. Non è solo così. Lo Stato per questo lavoro si affida a dei privati, cioè si mette nelle mani di aziende che, per carità, possono essere qualificate quanto vuoi ma sono pur sempre private e quindi penetrabili da soggetti interessati, magari pezzi di servizi segreti deviati a loro volta in contatto con lobby di vario genere. Mettiamoci pure che oggi tra sicurezza informatica e hackeraggio è una lotta continua, una sorta di guardie e ladri. Insomma, capisce che nessuno, neppure il capo del Csm, può sentirsi al sicuro.

    Immagino che dopo il suo caso, forse primo magistrato controllato con un trojan, la paura sia aumentata e quindi anche le precauzioni.
    Questo è vero, lo dicevo prima: il caso Palamara ha messo un po’ tutti sul chi va là, tanto che sono sempre più numerosi i magistrati che – come già facevano il procuratore di Roma Pignatone e il suo successore Prestipino, almeno fino a quando li ho frequentati io – hanno abbandonato lo smartphone. Lì si può inserire il trojan via internet, e loro sono tornati ai cellulari di prima generazione, che al massimo possono essere intercettati e che se spenti sono solo un soprammobile. E poi guardi che anche la vicenda del mio trojan non è poi così chiara. È noto che l’ascolto si inceppava ogni volta che io mi trovavo a parlare con persone che non dovevano in alcun modo essere coinvolte in questa vicenda, vedi il procuratore di Roma Pignatone. È meno noto che l’azienda privata che ha gestito il mio trojan, la Rcs, è stata indagata – proprio su mia denuncia. I miei legali si sono insospettiti di un fatto specifico: le mie intercettazioni avrebbero dovuto trovarsi in un server di Roma autorizzato dall’autorità giudiziaria, come messo a verbale dai responsabili di Rcs, mentre in realtà erano in un server a Napoli di cui nessuno conosceva l’esistenza.

    Trascrivo la notizia come pubblicata dal «Giornale» il 18 maggio 2021: «Falsa testimonianza, frode, falso in atto pubblico e accesso abusivo ai sistemi informatici. Sono le accuse rivolte a quattro funzionari della Rcs per aver convogliato le intercettazioni non verso procure o caserme ma fuori da ogni controllo verso propri uffici non autorizzati».
    Ecco, solo questo dovrebbe essere sufficiente a inficiare tutta l’indagine. Eppure, nonostante il giudice delle indagini preliminari di Perugia dove è incardinata l’inchiesta su di me si sia detto «allibito che una cosa del genere sia potuta succedere», penso che andranno avanti come se nulla fosse. C’è una ragione di Stato – me lo lasci dire – per cui Palamara va processato anche se si scoprisse che ha fatto tutto un mio sosia. Per loro tornare indietro non è più possibile, ne va della tenuta del Csm come istituzione.

    Osservazione concessa. Ma torniamo al suo trojan. Possibile che lei non abbia mai avuto il sospetto che la trappola era scattata?
    In realtà l’ho saputo.

    Non ci credo… l’ha saputo e cosa ha fatto?
    Ci arriviamo, ma a proposito di segretezza delle intercettazioni, di segretezza delle indagini e quindi di serietà della magistratura, vale la pena di ricostruire le ultime tre settimane di Luca Palamara capo del Sistema, quelle che vanno dalla notte dell’Hotel Champagne – 9 maggio 2019 – in cui durante una cena con colleghi amici, presente l’onorevole Luca Lotti, metto a segno – sapremo poi registrato dal trojan inserito nel mio telefonino – l’ultimo colpo, la nomina del nostro candidato Marcello Viola a capo della procura di Roma al posto dell’uscente Pignatone, fino all’alba del 30 maggio, quando un gruppo di finanzieri si presenta a casa mia con avviso di garanzia e ordine di perquisizione.

    Da dove partiamo?
    Direi dal 21 maggio del 2019. Verso mezzogiorno Giovanni Bianconi, giornalista del «Corriere della Sera» di grande esperienza, si presenta nel mio ufficio alla procura di Roma e mi comunica che la procura di Perugia, che stava indagando su di me, ha trasmesso al Csm le carte dell’inchiesta e che quindi ci siamo, non sono messo bene. Non so se riesco a spiegarmi: è normale un Paese in cui un giornalista avvisa il magistrato, in quel momento un magistrato al vertice del Sistema, che ha le ore contate? Altro che segreto istruttorio, tutti già sanno e tutti si riposizionano. Chi ha informato Bianconi? C’è un messaggio del giorno prima tra due magistrati del Csm che può servire: «Sai che ho visto Bianconi andare da Cascini», cioè dal capo della corrente di sinistra della magistratura. Io a quel punto capisco che la morsa si sta stringendo. Ovunque mi giro trovo conferme. Parlo con Cosimo Ferri, capo della corrente di destra della magistratura e anche lui commensale alla cena dell’Hotel Champagne. Mi dice che Stefano Erbani, il consigliere giuridico di Sergio Mattarella, ha chiamato Gianluigi Morlini, presidente della commissione nomine del Csm, e gli ha chiesto di rallentare la nomina del mio candidato Viola alla procura di Roma, che si inventi qualche cosa, per esempio nuove audizioni, e soprattutto di avvisare tutti di stare attenti alle frequentazioni, insomma di stare lontani da Ferri e da me. Sa cosa significa questo?

    Immagino significhi che lei era un morto che camminava.
    Questo è certo, ma significa che le parole captate dal trojan la notte dell’Hotel Champagne invece che custodite dalla procura di Perugia che le aveva commissionate, o nelle blindate stanze del Csm, giravano per Roma manco fossero dei dépliant. E a partire dal 9 maggio del 2019, momento in cui i finanzieri del Gico della Guardia di Finanza prima ascoltano e poi trascrivono quel colloquio, significa anche: attenti a parlare con Palamara, perché quello che dite resterà registrato e potreste farvi male. Il 27 maggio del 2019 Erminio Amelio, noto pubblico ministero di Roma, raggiunge in udienza Stefano Fava e gli dice: «Mi raccomando non parlare più con Luca». Non solo. Cosimo Ferri uno di quei giorni, non ricordo esattamente quale, mi racconta che la sera precedente stava rientrando in treno da Roma a Firenze. Mentre viaggia viene raggiunto da una telefonata del consigliere del Csm Antonio Lepre che gli intima di tornare subito indietro per una comunicazione importante che non può fare per telefono. Ferri arriva alla stazione di Firenze, cambia binario e torna con un altro treno a Roma, dove Lepre tutto agitato gli dice di aver saputo – io penso da Morlini – che al Csm sanno tutto della cena dello Champagne e che siamo tutti fottuti. Per inciso, Lepre di recente è stato sospeso per un anno e sei mesi dalla commissione disciplinare del Csm.

    Se ho capito bene: il Quirinale viene informato del contenuto che il trojan sta registrando nella persona di Erbani, che in qualche modo lo dice o la fa capire a Morlini, il quale avvisa Lepre che a sua volta parla con Ferri. E Ferri che fa?
    E qui arriviamo al punto, cioè a come lo vengo a sapere io. Ferri viene da me e mi dice: Luca, non è che a uno di noi due hanno infilato un trojan nel telefonino? E io: ma figurati, scherzi? Non è possibile, per infilare un trojan, come ben sai, bisogna essere accusati di aver commesso reati talmente gravi che né a me né a te può succedere, a meno che quelli del Gico della Guardia di Finanza che stanno conducendo le indagini, e che per mia diretta conoscenza so essere molto legati a Pignatone, possano rappresentare al pubblico ministero una situazione distorta rispetto al reale andamento dei fatti. E lui: non ne sono così sicuro. Gemma Miliani, una dei due pm di Perugia che stanno conducendo l’inchiesta su di me, è una tosta che non si ferma di fronte a niente, quella è capace di mettere il trojan nel telefonino di chiunque.

    Una supposizione o una notizia?
    Senza dubbio una supposizione, ma io l’ho vissuta come una notizia anche perché temevo una strumentalizzazione sulla mia persona per far saltare gli accordi sulla procura di Roma. E, infatti, qualsiasi dubbio residuo dura poco. Il 29 maggio, e ci risiamo con la barzelletta della segretezza delle indagini, il «Corriere della Sera» e «la Repubblica» pubblicano la notizia del trojan che ha registrato la cena pro Viola. Il giorno dopo arriva a casa mia la Guardia di Finanza e il gioco finisce. E qui mi riallaccio a dove siamo partiti. Perché Ermini e Davigo mollano i telefonini e vanno in cortile?

    Giusto, perché?
    Perché nella magistratura la notte dell’Hotel Champagne è una notte infinita. Cambiano gli invitati, gli argomenti, cambia chi parla e può cambiare chi ascolta ma non muta la sostanza: c’è sempre qualcuno contro qualcun altro, e sempre c’è chi dall’esterno, logge o lobby che siano, vuole partecipare al gioco. E questo qualcuno, il più delle volte, è quello che dà le carte. Nel caso mio e in quello della loggia Ungheria è pure lo stesso croupier.

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