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    L’uomo che amava inseguire il futuro: una profetica intervista (del 2019) a Domenico De Masi che pare scritta ieri

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 9 Set. 2023 alle 15:25 Aggiornato il 23 Set. 2023 alle 15:53

    “Il mondo sta cambiando, ecco perché bisogna introdurre salario minimo e ridurre l’orario di lavoro. Altrimenti avremo solo lavori poveri che distraggono il welfare”.

    (Sospira). La partita della politica oggi si gioca su questo semplice problema: saranno in grado di capire la vera sfida del futuro.

    Quale sfida?

    La riduzione dell’orario di lavoro.

    E chi lo dice che è questa?

    (Ride di gusto). Lo dico io. Possibilmente a parità di salario. E – necessariamente – dopo aver introdotto il salario minimo.

    Pure? Ecco perché le dicono che lei non è visionario, ma utopista.

    Certo. È il solo modo per impedire che i lavori poveri siano visti come uno strumento di concorrenza per resistere ai lavori del futuro, quelli buoni.

    Ma ci sono dei numeri che dimostrano la sostenibilità di questa visione?

    Certo. L’unico che ne ha parlato è Tridico, il presidente dell’Inps, e gli sono saltati addosso. Non capiscono la cosa più importante che ci spiega, dati alla mano.

    E cioè?

    Che se non aumentano i contributi previdenziali, grazie al salario minimo, non ci sarà un gettito capace di sostenere l’enorme aumento dell’ aspettativa di vita e i suoi effetti, gli eserciti di pensionati che saranno “mantenuti” da sempre meno giovani. Oggi, nel 2019, tutte le proiezioni demografiche ci dicono che non ci sono altre possibilità.

    Sono tuttavia cose molto difficili. Sono anche possibili per lei?

    Sono indispensabili.

    Perché?

    Siamo in un passaggio di crisi di sistema così drammatico che se non cambi paradigma ora, subito, intere economie collasseranno. Lo stato sociale andrà in frantumi.

    Professore, lei queste cose le dice da trent’anni.

    Ma adesso accadono. E qualcuno lo sta capendo. Anche la grande giostra della globalizzazione sta rallentando la sua corsa.

    Proviamo a spiegare questo cambio di paradigma.

    Stiamo passando da un’era in cui entravi in fabbrica a sedici anni e andavi in pensione senza perdere un giorno di contributi o uno solo di disoccupazione.

    E oggi?

    Fai trenta lavori diversi in trent’anni talvolta senza cumulare mai una sola busta paga o un solo anno di contributi. Quando questa generazione andrà in pensione, quella dei trentenni di oggi, la prospettiva migliore di molti di loro sarà la pensione minima. Io già lo vedo.

    Purtroppo è vero.

    E allora come può reggere il vecchio sistema se non lo ripensi? Se non c’è un paracadute?

    Con chi ce l’ha?

    In primo luogo con la sinistra da cui provengo. Se l’ho capito io negli anni Novanta come può non capirlo la Cgil oggi? Maurizio Landini molte di queste cose le dice da tempo, ma Susanna Camusso, e molti degli altri confederali hanno posizioni che possono anche avere mobili presupposti, ma che sono miopi e conservatrici.

    Lo dice perché hanno criticato Tridico quando ha parlato di riduzione dell’orario di lavoro?

    Esatto. Ha detto sì solo la UIL il sindacato teoricamente più a destra. Ma quando la frontiera è quella dell’innovazione saltano i vecchi parametri.

    Spieghi.

    Molti pensano che la riduzione dell’orario di lavoro sia un’idea di Bertinotti! Invece è una vecchia visione profetica di Keynes.

    Ma come si può fare la riduzione a parità di salario senza che saltino i conti?

    Perché è cambiato il lavoro. Ed è cambiata la dimensione del tempo e dello spazio, nel lavoro.

    Mi faccia un esempio.

    Pensi alle fabbriche: anche lì non si producono più bulloni, ma idee. Ed ecco perché con le idee, e con l’innovazione, anche riducendo il lavoro aumenta la produttività.

    Anche nell’industria?

    Soprattutto nell’industria!

    Perché?

    Perché non bisogna pensare con gli occhi del tempo che stiamo vivendo, ma con gli occhi del futuro che sta già iniziando.

    Cioè?

    Presto le nuove macchine saranno ovunque. Meno lavori, più produci. Sarà più utile un ingegnere programmatore che dieci operai. Perché l’uomo potrà solo far lavorare le macchine, non competere con loro.

    È ancora utopia.

    E se io le dicessi che dal 1 gennaio del prossimo anno i metallurgici di un paese vicino al nostro faranno solo 28 ore a settimana?

    Dove?

    E se io le dicessi che hanno già avuto un aumento del 4% di stipendio che è arrivato insieme a questa riduzione di orario?

    Dove?

    (Ride). E se io le aggiungessi che questo aumento, in paese che confina con noi, per contratto, gli operai lo ottengono se stanno a casa e si occupano anche di lavoro domestico?

    In che paese?

    In Germania. Si lavorerà anche da casa. Anche prendendo dei congedi parentali, anche facendo dei lavori di utilità sociale.

    Ma questo è un mondo utopico.

    (Ride si accarezza la barba candida). Si fidi. É solo il futuro.

    E i datori di lavoro che vogliono avere tutti intorno per controllarli?

    Dovranno dare incentivi ai giovani che gli servono, altrimenti si ritroveranno soli.

    Pare incredibile.

    Solo o con qualche forzato del lavoro, anziano, prodotto o vittima – a seconda delle interpretazioni – della legge Fornero. In ogni caso inutile. Lavoratori da manifattura novecentesca.

    Ed é sicuro che accadrà anche da noi, quel che lei descrive in Germania? Il progresso non sempre é lineare.

    Sta già accadendo. Soprattutto se lei guarda i segnali premonitori nelle punte più avanzate dello sviluppo, non solo in Germania: telelavoro, Smart working, lavoro da remoto. In America, in Francia, gli imprenditori moderni parlano di questo.

    É sicuro che accadrà anche in tutti gli altri settori?

    Sicuro: è una delle profezie del vecchio Marx che continuano ad avverarsi dalla rivoluzione industriale in poi.

    Quale?

    Ciò che si produce nel punto più avanzato della rivoluzione industriale diventa immediatamente Koiné, regola comune. Ma allora, se lo hanno già capito i tedeschi, e i conservatori illuminati come la Merkel, perché non lo capiscono anche questi nostri?

    Non me lo chieda. Me lo spieghi lei.

    Accadrà quando una serie di leggi così intelligenti la faremo anche noi. Non quel rottame regressivo che è stato pomposamente ribattezzato jobs act.

    Quando è iniziata per lei questa riflessione?

    Glielo ho già detto, con Keynes, ma il racconto è così bello che merita il conforto del dettaglio. Tutto inizia con un profeta: Keynes. In un giorno preciso.

    Quando?

    Nel 1930, a Madrid si riunisce la Società delle Nazioni e il Re di Spagna vuole regalare ai capi di Stato una conferenza del grande economista e lo invita.

    Lui accetta.

    Si. E pensi che, per un bizzarro vincolo, Keynes aveva solo 45 minuti di tempo per la sua prolusione. Così si mise a scrivere la sua orazione prendendo i tempi con l’orologio da taschino. La tenne prima in due o tre club per testarla. E poi la intitolò: “Prospettive per i nostri nipoti”.

    Bello. Soprattutto pensando che quei nipoti saremmo noi, e che in realtà oggi sono i nostri figli.

    Se fa due conti vede che è esattamente così. Keynes spiega un paio di cose. Che si arriverà ad un punto esatto della storia in cui la riduzione dell’orario del lavoro improvvisamente si realizzerà, di schianto, liberando l’uomo dalla schiavitù del tempo.

    E poi?

    Spiega che quando questo terremoto si verificherà ci sarà una crisi sociale enorme.

    E questo sta già accadendo?

    Dice che il lavoro e la ricchezza la faranno le macchine. E che a quel punto il problema sarà cosa potremo far fare agli uomini nel loro tempo libero.

    Incredibile.

    Capisce? Lo diceva nel 1930 ad una platea che rimase folgorata. E glielo fece capire in soli 45 minuti.

    Straordinario.

    Trova? Pensi che io sono stato così folgorato da questo saggio che sono tornato a leggerlo negli anni, diverse volte: mi domando sempre cosa sarebbe alzato fuori, dalla sfavillante testa di Keynes, se alle lancette del dio dell’intelligenza, vestito con sembianze di un orologio a cipolla, fosse stato consentito di girare per altri quindici minuti!!

    Profetico davvero. E poi?

    Keynes dice – parlando al suo uditorio di quel giorno, formato soprattutto da dei regali increduli – che esisteva in quel tempo un unico esempio di questa condizione.

    Quale?

    La vita delle mogli dei ricchi e il loro modo di occupare il proprio tempo. La platea rise e applaudì. Ma – aggiunse Keynes speriamo che non gli diano del misogino – queste donne non possono essere considerate un modello, perché al contrario di quelle che lavorano, sono tutte isteriche.

    Ah ah ah.

    Calò il gelo.

    Soluzione immaginata dal genio?

    L’unica possibile, ancora oggi: la cultura. Solo con la cultura si impedisce che l’uomo, liberato dalla tirannia del tempo finisca di nuovo in catene, stretto nella morsa della droga o avvelenato dalla depressione. O – diremmo oggi – segregato in altre prigioni virtuali o digitali.

    Pazzesco.

    Sa chi lo capì per primo tra i nostri industriali? Giovanni Agnelli, nonno dell’avvocato. Voleva ridurre l’orario di lavoro. E così scrisse ad Einaudi

    E cosa gli rispose il presidente economista?

    “Non lo faccia! Sarebbe un errore!”. Agnelli gli mandó un’altra lettera, per opporre nuove argomentazioni molto interessanti. Ho cercato molto, ma non ho trovato altre risposte di Einaudi. Non ridusse l’orario, ovviamente. Era una idea troppo avanzata rispetto ai tempi.

    Domenico De Masi è il sociologo più famoso in Italia. Da una vita a sinistra, ha destato scandalo quando ha dichiarato di aver fatto da tutor ad alcuni parlamentari del M5s. La sua storia personale pare un romanzo di Dickens. Piena di lutti, dolori, ma anche, come dice lui “Di grandi colpi di fortuna”.

    Da dove viene, professore?

    I miei genitori sono di Sant’Agata dei Goti. Ma io nasco a Rotello vicino Campobasso.

    E perde suo padre presto.

    Si, faceva il medico di paese. Si ammala insieme di diabete e di nefrite.

    Un dramma.

    Allora era una condanna a morte. Se curavi una malattia aggravavi l’altra. Nel 1947 in Italia non si trovava l’insulina.

    Ed è una doppia sventura.

    Dilapidiamo tutte le nostre risorse per provare a salvarlo.

    E poi?

    La pensione di mio padre arrivò un anno dopo. Nell’attesa, per noi, una sola condizione: la fame.

    E i nonni?

    Mi faccia parlare da sociologo. Allora c’erano gli zii e non i nonni. Perché i vecchi morivano presto. Io i mie nonni non li ho mai conosciuti.

    E oggi?

    (Ride). Non si riesce mai ad evolversi in modo lineare, direbbe Darwin.

    In che senso?

    Ora ci sono i nonni e non gli zii. Perché molti ragazzi sono figli di figli unici.

    Come campaste?

    Tornando nella nostra grande casa a Sant’Agata grazie a due appartamentini affittati. Ma non basta. Per via dei debiti. Dobbiamo vendere la casa. E tuttavia fu la prima fortuna della mia vita.

    Perché?

    Come orfano di un medico, avevo diritto all’assistenza dell’Opera per gli orfani dei sanitari, che allora, subito dopo la guerra, erano tanti.

    L’Opera era a Perugia.

    Perciò mi pagarono la retta del collegio per medie e liceo a Caserta, dai Salesiani.

    Come Berlusconi.

    Con esiti opposti, però. Io sono diventato comunista per via dei salesiani! Lui invece… inutile occuparci di questo dirazzamento.

    Questo mi pare esagerato.

    (Ride). Siii!!! È lui che ha dirazzato: nella formazione di quegli ottimi educatori l’eroe era chi aiutava il diverso, cioè i poveri.

    E fu un’ottima scuola?

    Ohhhh! Il primo valore che ci veniva inculcato in quei collegi salesiani era lo studio. Io ancora campo con molte cose apprese in quel liceo: dalla filosofia alla letteratura latina e greca. In collegio ero compagno di liceo di Gerardo Bianco, futuro segretario del Ppi, uomo cristallino.

    Ottimi professori.

    Sì. La mia età e la mia cultura mi fanno dire che questo mondo, quello dove viviamo è il migliore dei mondi esistiti.

    Dice sul serio?

    Certo! La ricchezza! La longevità! La vittoria sul dolore. Pensi solo cosa erano, mezzo secolo fa, un mal di denti o un mal di testa.

    Spieghi meglio.

    Nel paese del Molise dove sono nato non c’erano né acqua corrente né luce elettrica. Io le ho scoperte solo a Sant’Agata dove c’era la luce elettrica grazie a mio nonno.

    Perché?

    Da ingegnere e da visionario nel 1902 gli viene in mente di portare la luce. Dirotta un ruscello. Crea una centrale elettrica alimentata dall’acqua corrente con le turbine. Il giorno del battesimo di mio padre, tenendo insieme in una meravigliosa ambizione illuministica le due cose, illumina il paese.

    Come?

    Convincendo il Comune, anticipando i soldi di tasca sua, e andando in rovina perché non poi non lo rimborsano. Ma questo è un dettaglio.

    Rispetto a cosa?

    Cento anni dopo, il Comune ha ristampato il discorso che fece mio nonno per convincere un paese di contadini a entrare nella modernità. Un documento incredibile. Io quando lo leggo, ancora oggi. I progressisti meridionali – tutti – sono stati gli uomini più visionari di questo paese.

    In che senso?

    Immagini spiegare la luce elettrica in un paese che vive alla luce di 48 lampioni ad acetilene. Pensi che, per risparmiare carburante, non li accendevano nelle notti di luna piena. Oggi la luna piena non la vediamo neppure!

    E cosa dice suo nonno a quei contadini?

    Dice che in America stanno studiando una macchina che, grazie alla corrente elettrica, riesce a riscaldare i cibi. E un’altra macchina con cui, sempre grazie all’elettricità, i cibi si manterranno freddi. Era un visionario, ma anche uno scienziato. Doveva sembrare folle. Però gli dettero fiducia. E, votando, dissero: proviamoci!

    Perché non c’erano nemmeno i suoi zii, però?

    I miei zii paterni erano dovuti tutti emigrare in America, a Filadelfia per recuperare i soldi persi da mio nonno nell’avventura della luce elettrica.

    E dopo il liceo lei cosa fa?

    Università a Perugia nel collegio universitario opera orfani. Nel collegio femminile studiava una ragazza siciliana, anche lei orfana di medico, che poi è stata la mia prima moglie.

    E quell’università?

    Piccola e di grande qualità, con professori giovani e bravissimi. Nel dolore ho avuto grande fortuna, ne sono consapevole. Oggi, che torna l’università di Classe, quasi livelli di istruzione si pagano.

    In che cosa si laurea?

    C’erano pochissime facoltà. Non volendo fare né medicina né veterinaria, sono costretto a ripiegare su giurisprudenza. Tesi in storia del diritto. Ma a quei tempi, oltre alla tesi, era obbligatorio fare una tesina. E quella fu la mia seconda fortuna.

    Su cosa?

    Decido di scriverla sulla catena di montaggio. Me la assegna il professor Prosperetti, padre dell’attuale soprintendente di Roma.

    Un uomo di destra?

    Fu l’avvocato della Confindustria, contro i sindacati, nelle trattative per lo Statuto dei lavoratori.

    Perché fortuna?

    Perché la devo fare la mia tesi andando a lavorare in fabbrica. E così me la scelgo: l’Olivetti di Pozzuoli. E nell’anno 1958, non avendo altre idee su come fare, scrivo ad Adriano Olivetti.

    Non mi dica che le rispondono.

    Era un’altra Italia. Mi contatta una segretaria da Ivrea, mi dice:”L’ingegnere è convinto che nessun esterno possa entrare in fabbrica”.

    E lei?

    Mi si gela il sangue. Ma subito dopo la segretaria di Olivetti aggiunge che, siccome la mia richiesta è stata accolta – addirittura! – diventerò un dipendente e mi sarà corrisposto un piccolo salario.

    Cosa si faceva lì?

    Un gioiello tecnologico: la “Divisumma”.

    Cosa?

    Macchina calcolatrice a manovella. Si vendeva in tutto il mondo. La segretaria mi dice: “Può andare per un massimo di tre mesi. Le daremo 15mila lire al mese”.

    Buono?

    Figurati! Come 500 euro di oggi. Per un ragazzo squattrinato come me era una pacchia.

    E lei va.

    Non è finita. Mi ambiento. Divento amico degli operai, imparo da loro quello che chi non ha conosciuto quel mondo non può capire: la dignità del lavoro. L’etica deL lavoro che nuove le montagne.

    E poi?

    Un giorno ci dicono: “Sta per venire Olivetti! viene in visita da Ivrea!”.

    E che succede?

    Tirano la fabbrica a lustro e lui parla agli operai riuniti nel piazzale. Un discorso alato sul lavoro e sul Sud.

    E poi?

    Siamo a pranzo nel refettorio. Io al tavolo con gli operai, i dirigenti con Olivetti, quando arriva la famosa segretaria a chiamarmi: “Il presidente la vuole conoscere!”.

    Ah ah ah. Un evento.

    Scherza? Gli operai scoppiano in un applauso, si alzano in piedi: io mi muovo da un tavolo all’altro come se fossi un eroe.

    Che tempi.

    Olivetti mi fa: “Ahhhhh! Sei tu il ragazzo che mi ha scritto? Come sei giovane!”. Calcola che mi sono laureato poco dopo, a venti anni.

    E poi?

    La conversazione diventa surreale, ma giuro che è andata così. Olivetti, mentre tra i tavoli si fa silenzio mi chiede: “Scusi De Masi, ma lei che segno zodiacale é?”

    E lei?

    “Acquario”. E lui: “Ecco, lo dicevo! Buon segno. Ma che ascendente ha, scusi?”.

    E lei?

    “Acquario”. E lui: “Ottimo! Guardi che é anche raro trovare questa combinazione”.

    E i dirigenti increduli.

    Poi, fai attenzione, lui aggiunge: “Quando si laurea, De Masi, me lo fa un piacere?” mi mandi una cartolina postale con il suo nome è il suo voto. Sappia che se sarà un buon voto io la assumo subito”.

    E gliela mando?

    Certo, la prima cosa che ho fatto, pieno di adrenalina, dopo aver detto a mia madre che avevo preso il massimo dei voti.

    Eravate commosso perché pensavate a tuo padre.

    Anche. Ma erano altri tempi, e devo dirti che all’opera orfani bisognava avere almeno 28 di media e dare tutti gli esami entro ottobre, altrimenti si perdeva la borsa. Lo sapevamo entrambi.

    Arriva la risposta di Olivetti?

    Incredibilmente si. In meno di una settimana Mi chiama la segretaria e mi preannuncia l’arrivo della lettera di assunzione.

    La rivincita dell’orfano. Sistemato per la vita!

    Dici? Ma pensa che ci resto solo un mese, poi mi licenzio.

    Come mai?

    Ogni anno a ottobre finivo gli esami prima e giravo l’Europa con la Vespa. Una volta, mentre ero in Germania, finiti i soldi mi fermai, e mi misi a fare il mozzo, a bordo di un battello sul Reno. E questo finché non avevo rimpinguato il gruzzolo.

    Ma cosa c’entra la sociologia con questa vita?

    Sii paziente! Un giorno su una porta all’università leggo un biglietto affisso con una puntina.c’era scritto solo: “Antropologia culturale”.

    E sapevi di che si trattava?

    Parole misteriose, mai sentite. Così entro. C’era un professore che parlava: Tullio Seppilli. Racontava di fatucchiere, credenze popolari. Resto incantato. Appena finisce gli corro dietro gridando “professore! Professore!”.

    Incredibile per l’epoca.

    Io gli faccio: Ma dove si studiano queste cose? E lui mi risponde: “Da nesusn parte”.

    Come?

    “In Italia non ci sono corsi. Se vuoi devi andare Francia. Questa scienza nuova, si chiama ‘sociologia’. A Parigi ci sono dei corsi estivi per stranieri”. E io, dopo aver messo da parte un altro gruzzolo dando lezioni private di latino e di greco, prendo e parto.

    E come campa?

    Hai capito ormai che avevo una passione per le lettere. Chiedo una borsa di studio al ministero degli Esteri, allegando il certificato di laurea.

    Il ministero non le risponde immagino.

    Altroché: mi accorda 25mila lire una tantum. A Parigi trovo lavoro nella libreria “Joie de lire” nel Quartiere Latino. Giorni bellissimi in cui mi portavo a casa montagne di saggi, che divoravo in una notte, per poterli rimettere negli scaffali prima che aprisse la libreria.

    Una tortura.

    No, una lezione per la vita. Non potevo permettermi speculazioni astratte. Come Sherazade nelle mille e una notte il mio tempo era una risorsa finita.

    Di mattina università, di giorno in libreria, di notte lavoro? Quando dormivi.

    Era un problema. Però stavo in mezzo ai libri, gratis – non ti dimenticare da dove venivo! – mi sentivo in paradiso.

    Quali corsi frequenti?

    Alla Sorbona, all’Ecole pratique, ovunque potevo ascoltare professori di calibro. E quando torno sono di nuovo fortunato. Ero “sociologo”, e in Italia eravamo in pochi. Solo Ferrarotti e qualche altro pioniere insegnavano sociologia.

    Ora dicono: una laurea che non serve.

    Guardi. Gli unici economisti che si salvano sono quelli che sono un po’ sociologi: Smith, Keynes e Pareto. Tutti sociologi!

    E gli altri?

    Salvo eccezioni sono quelli che non capiscono mai quando il mondo è cambiato. Quelli di questa stagione, per esempio, sono convinti di stare ancora nella società industriale. Beh, io che ho amato quella società, e che in fabbrica ci sono stato, so che quel tempo è finito.

    Dove trovi lavoro?

    Intanto in una rivista: “Nord e Sud”. La più importante del Mezzogiorno, diretta da Francesco Compagna e Giuseppe Galasso: era una sorta di mensile del “Mondo”.

    Conosci Mario Pannunzio?

    Si, lo andavo a trovare a Roma. Altra fortuna. E poi il nostro artigianale centro studi “Nord e Sud” ottiene una commessa dall’Italsider di Bagnoli; una ricerca di sociologia sul lavoro operaio. E indovina a chi l’affidano?

    A te!

    (Ride). Accipicchia, é questo che dovremmo spiegare ai nostri ragazzi. Ero l’uomo giusto al posto giusto.

    Pagavano?

    Pensa: 75 mila lire al mese per dodici mesi! Con i miei libri delle notti insonni, con le mie letterine, con la borsa di studio dell’Opera e la forza di mia madre… con le mie mani e con le mie gambe ero diventato ricco!

    La vecchia Iri.

    Quell’azienda era meglio di Microsoft. La ricerca l’aveva commissionata l’amministratore delegato Gianlupa Osti, un manager di 42 anni, un genio. Ed era anche una classe dirigente onestissima! Hanno progettato quel poco dell’Italia che ancora oggi funziona.

    Diventi anche assistente universitario.

    A Napoli. Ermini era il rettore dell’Università di Perugia. Quando seppe che mi trasferivo a Napoli dove era mia madre, mi fece una lettera di referenza: “Utilizzate De Masi, ne vale la pena!”.

    E così vai dal rettore.

    Che mi dice: “Scusa De Masi Ma sta sociologia cher’è ?”. Provo a spiegarglielo. Poi lui resta qualche minuto in silenzio, come se non ci fossi. Alza il telefono, chiama la segretaria e fa: “Carmela! A’ tenimm nuje a’ sociologia?”. E lei: “No, professò, sociologia-sociologia non la teniamo. Però abbiamo una cattedra di sociologia criminale”.

    Non ci credo.

    Credici, credici. Perché, accompagnato da un sorriso del rettore é li che vengo spedito.

    E ti ritrovi con il professor Guadagno, che non era esattamente affine al progressista che eri.

    Un fascistissimo. Che però, in questa Italia rivolvente degli anni sessanta, per motivi a me inspiegabili poi divenne deputato del Pci. E che dopo poco che sono con lui mi fa: “Senti, io sono un magistrato di Cassazione, non sono temi miei. Te la sentiresti di fare tu lezione al posto mio?”.

    Ovviamente si. E poi dicono che erano baroni.

    Non ti dico. Avevo 24 anni e la maggior parte degli studenti erano più grandi di me!

    Cosa votavi all’epoca?

    Ho sempre votato Pci, Pds, Ds, fino al 2013. Lì non ho detto più.

    Conosci anche Pierpaolo Pasolini.

    Era vicedirettore de “Il Punto”. Direttrice era Marisa Bellonci. Un giorno lui chiama e mi dice: “Visto che vai in Sicilia mi scrivi un reportage sulla mafia?”. Io passavo un mese l’anno a Partitico da Danilo Dolci: “Lo consideri già fatto”.

    Davi del lei ai cattedratici e del lei a Pasolini?

    Ma tu lo hai visto nelle foto? Hai idea di cosa fosse per me la sola idea che Pasolini mi rivolgesse la parola? Era del sapere che avevo un rispetto religioso. Non ne avevo nessuno per le autorità.

    Nel 1966 entri in cattedra.

    Si: professore di “Scienze sociali”. Un’altra fortuna. I primi tre anni di mandato si dovevano fare fuori sede e scelgo Sassari dove si inaugurava la facoltà di scienze politiche. Ma hai idea di chi fossero i miei colleghi? Mi ritrovo con questi giovani: Franco Bassanini, Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky, Signorile e Giovanni Berlinguer, fratello di Enrico, uomo simpaticissimo e arguto, e grande scienziato.

    Giorni Divertenti?

    Tre anni da Dio! Dormivano tutti nello stesso albergo. 1967-1970. E ci sentivamo al centro di un mondo che stava turbinando.

    Aneddoto?

    Zagrebelsky era teutonico. E nel cinema di Sassari si proiettavano quasi sempre film pornografici.

    E voi?

    Un giorno i eravamo fermati a guardare i cartelloni dei film a luci rosse, un po’ perché i titoli erano spassosi, e un po’ , per vedere se c’era altro. Ma Gustavo era imbarazzato: “Ma insomma, siete impazziti! Ci riconoscono!”.

    E tu?

    Ma figurati! Invece aveva ragione lui… ah ah ah.

    Cioè?

    Passa un signore, ci riconosce e dice: “Hai capito i professori?”. Io rispondo: “Ma che dice? I professori, se vanno a vedere un film porno, ci vanno per studiare la colonna sonora!”. Si formò un capannello. Gustavo era diventato blu, e oggi ci ride ancora quando gli dico: “ti ricordi come eri puritano?”

    Finiti i tre anni torni a Napoli.

    La città era uscita dall’incubo populista peronista, quello della giunta Lauro. C’erano tre riviste: A poca distanza dalla redazione di “Nord e Sud” c’era “Cronache meridionali” diretta da due persone che lasceranno un segno: Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaromonte.

    E tu entri in rapporti di amicizia con il futuro presidente della Repubblica.

    Fu il primo a capire cosa intendevo quando inizia a parlare di “società post-industriale”. Pensa che gli economisti non lo hanno ancora capito oggi.

    Perché?

    Applicano le teorie industriali alla società post-industriale. Anche molti errori fatti dal Pd derivano da questo.

    In quegli anni scrivi dei saggi importanti: “La negazione urbana” e “L’avvento della società post-industriale”.

    Questo mio saggio – ebbe 11 edizioni – determinò un certo dibattito nella sinistra. Scrivevo che si andava verso una società in cui il terziario prevale sulla classe operaia.

    Oggi è banale. Ma come venne accolta la tesi allora?

    Uhhhhh!!! Altri tempi. Mi considerano quasi un traditore. Il mio amico Aris Accornero mi tolse il saluto per un anno. E mi difese proprio Napolitano.

    Davvero?

    L’Iri mi aveva mandato per una ricerca in Zaire. Ed ero lì quando il Comitato centrale del Pci aveva votato un documento in cui c’era scritto: “In quest’epoca post-industriale”. Era nato un grande dibattito sul futuro, e mi pare che sia stato proprio Fabio Mussi a proporre un emendamento: “Piuttosto scriviamo Capitalismo maturo”. Inutile dire che l’emendamento passó, 71 voti contro 42. Era una bellissima definizione anche quella, fra l’altro. Ma avevo ragione io, ovviamente. Non era una maturità: era un passaggio di epoca.

    E tu torni in Italia.

    Napolitano, preso questo resoconto del comitato centrale, me lo mise nella cassetta delle lettere, sottolineato in rosso con la sua penna, per dirmi: Guarda!”.

    E tu scrivi altre eresie, in un altro saggio di quegli anni: “L’emozione e la regola”.

    Spiego che quelle del futuro erano le professioni intellettuali. Che la leadership del progresso sarebbe passata ai creativi. Che il lavoro creativo non sarebbe più stato solo individuale. Tutte cose che oggi sono banalità comdivise. Ma che all’epoca portava qualche compagno a dirmi: “Ma come mai proprio tu sei contro la classe operaia”. Anche i confindustriali erano inquieti: “e noi cosa saremmo? Dei dinosauri?”

    Questa storia nel 2013 la porti nel suo rapporto con il M5s.

    Per il mio mondo fu uno choc. Mi hanno detto: “Traditore”, “frivolo”, “opportunista”. “Cerchi visibilità con queste provocazioni”. Io mi divertivo quasi a vedere le reazioni più apocalittiche.

    Perché questo strappo?

    Fu doloroso. Ma vedevo le leggi votate dalla sinistra. Diventavano da socialdemocratiche a liberiste a confuse.

    Perché?

    Il renzismo ha portato caos e analfabetismo nella sinistra: ma era anche figlio di un processo globale. Il liberalismo è diventato neoliberismo. Tutti i professori, tutti i governi, tutti gli stati sono diventati neoliberisti. Ed è aumentato – questo è il mio cruccio – il divario tra ricchi e poveri.

    Cosa ti stupisce di più di questa metamorfosi?

    Il modo in cui gli intellettuali tronfi, che esaltavano il marxismo più dogmatico, siamo repentinamente diventati degli esaltati neo liberisti. E come influenzano i politici. Un giorno vedo Massimo D’Alema dire in televisione: “Basta con il posto fisso”. E resto di sasso.

    Nel 2013 ci sono le politiche. Il M5s prende il 27%

    Quando vedo i Metup mi metto a studiare il Movimento. Un giorno mi telefona un deputato del M5s e mi dice: “Sette di noi sono in commissione lavoro ma non sono ancora preparati. Potrebbe farci un seminario”?

    E tu cosa rispondi?

    “Senza dubbio”. Una di loro era una caposala, gli altri tutti operai. E gli dico: “Vi tocca combattere con vecchi marpioni, dovete studiare”. Si impegnarono come matti. Uno di loro, Claudio Cominardi oggi è poi diventato sottosegretario al lavoro.

    E tu poi accetti di dirigere per loro la famosa ricerca previsionale sul lavoro.

    Impegna 14 persone, per otto mesi, e ce la pagano 56mila euro. Calcola che io ho preso pochissimi soldi.

    Sallusti ti attacca in tv: “il profsssore é in conflitto di interessi!”.

    Non mi ferisce quello. Ma che un deputato del Pd come Andrea Romano mi insulti, mesi dopo, come se fossi stato un tangentista. Altro seguace di Renzi, peraltro.

    Perché ti fa male?

    Sono andato a votare per Nicola Zingaretti alle primarie, ma capisco che questi renziani non cambiano. Sono stati selezionati da Renzi tra i più ostili alla questione sociale e al M5s.

    E cosa ne pensi, ora che Renzi non c’è più?

    Che non avrebbero mai recuperati i voti perduti a sinistra. Perché sono neoliberisti e arroganti.

    Cosa hai guadagnato con il tuo strappo?

    Nulla in termini economici o di potere. Fin dal primo momento dichiarai sui media che sono un intellettuale e mai sarei mai passato alla politica.

    E allora?

    Se il Decreto dignità, il Reddito di cittadinanza, la riduzione dell’orario e il salario minimo diventeranno realtà, sarò felice perché si saranno realizzate idee che predico da decenni.

    E il Pd?

    Con questi numeri o capisce che si può solo alleare con il M5s…

    Oppure?

    (Sospiro) Governeranno Salvini, Berlusconi e la Meloni: per altri venti anni.

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