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    Il governo usa il Covid come scusa per respingere e rimpatriare i migranti

    La sorveglianza sanitaria usata per negare il diritto d’asilo. Un altro tassello del puzzle di violazioni collegate ai maxi hotspot del mare

    Di Veronica Di Benedetto Montaccini
    Pubblicato il 29 Nov. 2021 alle 14:19 Aggiornato il 29 Nov. 2021 alle 15:04

    Sbarco, hotspot di Lampedusa, quarantena su una nave, centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), espulsione: sono queste le cinque mosse con cui i migranti rischiano di trovarsi su un aereo in meno di un mese. La destinazione finale è il Paese che li perseguita e dal quale sono scappati. Le navi quarantena, attive per un decreto della Protezione Civile da aprile 2020, dovevano essere uno strumento emergenziale per evitare contagi da Covid-19 nei porti, ma – come denunciano diversi operatori a bordo – «sono state di fatto riconvertite a hotspot galleggianti per confinare e poi rimpatriare». E alcune nazionalità sono più sfortunate di altre. In un anno e mezzo oltre 25mila persone sono transitate da queste imbarcazioni e tra quelle con cittadinanza tunisina, secondo i dati raccolti da Asgi, Cild, Indiewatch e ActionAid, il 90 per cento è stato espulso.

    Detenzione legalizzata

    Se presentare domanda di protezione internazionale all’interno delle strutture sulla terraferma è difficile, una volta saliti su una nave quarantena sembra quasi impossibile. A bordo, infatti, l’ufficio immigrazione non è previsto. «Così mentre i tunisini sono confinati in mare, le questure preparano i decreti di espulsione che aprono le porte dei Cpr. Insomma, con la scusa del Covid e sotto le mentite spoglie di un servizio reso nel rispetto dei diritti internazionali, si cela la chiara volontà di rimpatriare tutti i rimpatriabili, lontano dagli occhi della società civile», ci spiega un’operatrice legale di una delle cinque navi gestite dalla Croce Rossa e appartenenti alla Gnv, la società marittima Grandi Navi Veloci.

    La Tunisia rientra tra i 13 Paesi ritenuti sicuri dal Viminale, ma non tutti fuggono da un conflitto: tra i migranti sulle navi quarantena potrebbe esserci qualcuno perseguitato per la sua religione o per il suo orientamento sessuale e con un rimpatrio senza screening verrebbe messo in pericolo. Il motivo del diverso trattamento a seconda del passaporto è presto spiegato: il 17 agosto dell’anno scorso Italia e Tunisia hanno raggiunto una nuova intesa sul contrasto dei movimenti migratori che ha permesso di raddoppiare i rimpatri verso il paese nordafricano: due voli settimanali da 40 persone.

    «Il sistema – afferma Salvatore Fachile, avvocato dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) – va oltre le procedure che l’Ue vuole incrementare lungo le frontiere esterne. La quarantena sulle navi è una forma di detenzione illegittima in attesa del rimpatrio: un sequestro di persona». Su questo regna il più assordante silenzio della ministra dell’Interno Lamorgese che, più volte contattata, non ha mai voluto commentare. Ma d’altronde il Viminale non ha proferito parola neanche sull’interrogazione parlamentare presentata dal deputato di LeU Erasmo Palazzotto, quando era venuto fuori che sulle navi quarantena oltre ai migranti appena sbarcati, erano stati trasferiti anche alcuni richiedenti asilo prelevati nottetempo dai centri di accoglienza sulla terraferma dove erano già collocati.

    Le condizioni a bordo

    Le espulsioni accelerate aggiungono un nuovo tassello al puzzle di violazioni che ruotano attorno a questo tipo di sorveglianza sanitaria. Operatori e mediatori culturali che hanno lavorato con la Croce Rossa raccontano di condizioni a dir poco problematiche per quello che dovrebbe essere invece un luogo il più possibile sanificato: «A bordo si sta come le sardine, a contagiarsi a vicenda. Nei corridoi e nelle cabine a volte c’è l’acqua per terra, ci sono delle perdite, gli insetti proliferano e portano la scabbia in giro», dice indignata una di loro.

    Inoltre, i costi per la  manutenzione, il carburante e la logistica non sono irrisori: per ogni nave si spendono oltre 50mila euro al giorno. Secondo i dati della Croce Rossa, finora sono stati impiegati 2.400 operatori dall’inizio della missione. Forse non abbastanza, visto che i lavoratori descrivono «turni estenuanti, anche di 16 ore». Una volta saliti sulle navi, i migranti non toccano la terraferma per dieci giorni o anche di più, se il tampone di controllo risulta ancora positivo. «In carcere almeno c’è l’ora d’aria – continua l’operatrice – Qui gli ospiti possono uscire sui ponti laterali della nave solo per quindici minuti». Spesso la tensione sale oltre il dovuto, «a volte gli ospiti sono fuori controllo – evidenzia un altro operatore – fanno atti di autolesionismo o si fanno del male in altri modi. Ci sono delle ragazze che addirittura iniziano a prostituirsi nelle navi». Qualcuno arriva al gesto più estremo. Il 20 maggio del 2020, alle 4 di notte, un ragazzo tunisino di 28 anni si è buttato in mare da una delle cabine della Moby Zazà a largo di Porto Empedocle, annegando.

    Minori a rischio

    La più drammatica delle situazioni rimane ancora quella dei minori non accompagnati. Anche se il ministero dell’Interno ha emanato una circolare che vieta la loro presenza sulle navi quarantena (così come dei pazienti asmatici e delle donne in stato di gravidanza), i bambini ci sono eccome secondo gli operatori. «Anche soggetti palesemente sotto i 18 anni – spiegano – vengono identificati come adulti». Così registrati, i minori soli possono essere tranquillamente destinati alle navi Cri, invece di essere accolti in comunità specializzate come dice la legge. «Non dimenticherò mai un camerunense di sedici anni appena compiuti – asserisce un’assistente sociale che ha lavorato sulle navi nell’estate 2021 – pigiato in mezzo a cinquanta adulti, non mangiava da due giorni: piangeva e voleva la mamma».

    La risposta della Croce Rossa

    Ad occuparsi dell’aspetto sanitario e di accoglienza sulle navi quarantena è, come dicevamo, la Croce Rossa che rispetto alle accuse degli operatori preferisce adottare la più classica delle mosse: lo scaricabarile. Sulla presenza di minori non accompagnati Francesca Basile, responsabile dell’unità migrazioni Cri si difende così: «Rispettiamo la circolare del Viminale, se ci accorgiamo che non hanno compiuto 18 anni non li facciamo salire. Certo, ci sono delle situazioni borderline dove non è semplicissimo capire». Le condizioni igienico-sanitarie? «Un tubo che perde, così come la proliferazioni di insetti, sono tutte cose in capo all’armatore e su cui non possiamo intervenire», dice Basile. Il compito della Cri si esaurisce una volta che il migrante ha riattraversato il pontile della nave. Le richieste d’asilo o (molto più spesso) i rimpatri sono responsabilità del ministero dell’Interno: «Siamo sempre stati chiari con il governo, questa è una soluzione emergenziale che ha evitato problemi nei territori, ma tale deve rimanere. Il governo la deve chiudere il giorno stesso in cui termina l’emergenza sanitaria, altrimenti noi non saremo più disponibili a continuare», conclude Francesca Basile.

    Da emergenza a prassi?

    Draghi sta pensando di prolungare lo stato di emergenza fino a marzo 2022. E poi, che ne sarà delle navi quarantena? Secondo alcuni esperti legali che lavorano a bordo, «diventeranno una prassi, verranno usate anche dopo il Covid. E, con buona pace del governo, si sarà così trovato un sistema per rimpatriare velocemente e indistintamente». L’avvocato Fachile dell’Asgi è chiarissimo: «Quello che succede con le navi quarantena non è un segno di efficienza del ministero dell’Interno, ma una violazione bella e buona della convenzione di Ginevra, secondo cui la richiesta di protezione internazionale è un diritto individuale, che non può essere negato in base alla nazionalità».
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