Mentre le carceri italiane sono sovraffollate e registrano numeri record di suicidi a causa delle condizioni spesso disumane in cui si trovano i detenuti, che non ricevono nessuna formazione rieducativa, nel cuore del Mar Tirreno, a ventisette chilometri da Livorno, c’è un istituto penitenziario che negli anni è diventato un vero e proprio modello di inclusione e riabilitazione. Si tratta della Casa di reclusione di Gorgona, situata sull’omonima isola, la più piccola dell’Arcipelago Toscano. Qui, attualmente, vi sono circa 90 detenuti che lavorano e “vivono” l’isola a 360 gradi occupandosi anche della manutenzione del carcere stesso.
Dramma carcerario
Per comprendere appieno l’eccezionalità del carcere di Gorgona occorre prima capire in quali condizioni versa attualmente il sistema penitenziario italiano. Luogo di compressione più che di reinserimento, contenitore sociale più che uno spazio di rieducazione, le carceri italiane nel 2025 ospitano oltre 61mila detenuti a fronte di una capienza di circa 50mila posti. Questo significa che il sovraffollamento supera il 120% con picchi ancora più alti che si registrano in regioni quali Lombardia, Campania e Sicilia. Questo crea un vero e proprio paradosso facendo perdere al sistema carcerario la sua funzione rieducativa, così come stabilito dall’articolo 27 della Costituzione secondo cui «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». A conferma di ciò vi sono i numeri: la recidiva, ovvero il ritorno in carcere dopo una condanna già scontata, sfiora l’80%. Questo significa che otto detenuti su dieci tornano a delinquere entro pochi anni dal primo reato commesso. Nelle carcere italiane, poi, spesso si registrano condizioni igieniche precarie con accessi alle cure difficoltose e mancata assistenza psicologica. C’è un dato inquietante al riguardo: nel 2024 si sono registrati 67 suicidi tra i detenuti, il numero più alto degli ultimi decenni. La media è di uno ogni cinque giorni. A questo si sommano le condizioni di stress degli agenti e degli operatori sociali oltre alla carenza cronica di personale. Ecco perché, di fronte a questi dati drammatici, il carcere di Gorgona appare non solo come una vera e propria isola felice ma come un modello da seguire.
Una storia straordinaria
Citata, insieme a Capraia, da Dante Alighieri nel Canto XXXIII dell’Inferno, l’isola di Gorgona diventa una colonia penale già nella seconda metà dell’Ottocento. Roccaforte militare e monastica, abitata prima dai Benedettini e poi abbandonata, dopo l’Unità d’Italia il ministero di Grazia e Giustizia la sceglie nel 1869 come luogo ideale per installarvi una colonia penale agricola, ispirandosi ai modelli francesi e inglesi, e risolvere così il problema della criminalità e della sovrappopolazione carceraria. La scelta non è casuale: l’isola, infatti, non è inaccessibile ma al tempo stesso è ovviamente isolata, è aspra ma comunque fertile. Un mix perfetto dove coniugare punizione e rieducazione. I primi detenuti arrivati a Gorgona disboscarono, costruirono muretti a secco, piantarono viti e olivi con il compito di rendere coltivabile l’isola. La colonia penale crebbe nel corso degli anni arrivando a ospitare oltre trecento reclusi durante il periodo fascista.
La struttura
La casa circondariale di Gorgona, che comprende una biblioteca, ambienti dedicati al lavoro, spazi dedicati alla formazione e alla scuola, sala musica, una palestra, campo da calcio e di bocce e degli spazi dedicati all’istruzione e alla socializzazione, è suddivisa in due sezioni dette “Capanne” e “Transito”. Le “Capanne” ospitano le celle dei detenuti, ognuna delle quali arredata con due letti singoli e due armadi. Sono garantiti 3 metri quadri per ogni detenuto, mentre il bagno si trova in un ambiente separato con porta. In ognuno c’è una doccia che garantisce l’acqua calda mentre le celle sono tutte dotate di un riscaldamento funzionante. Lontano dagli spazi detentivi vi è un’area verde in cui si svolgono i colloqui settimanali con le famiglie che comprende una piccola cucina interna, dei tavoli esterni e dei giochi per bambini posti in prossimità. Destinata a detenuti di sesso maschile, senza alcuna distinzione tra giovani e anziani, la struttura ospita condannati per reati spesso gravi, che stanno scontando l’ultima parte della loro condanna. Dal 2019, inoltre, i detenuti hanno la possibilità di partecipare a un laboratorio teatrale, sotto la direzione di Gianfranco Pedullà, come avviene già in numerose carceri italiane.
Lavoro come riscatto sociale
La peculiarità di Gorgona è che i detenuti non vivono in celle chiuse, ma in una sorta di villaggio agricolo. Le celle, infatti, sono aperte dalle 7 alle 21 con i detenuti che impiegano la maggior parte del tempo a lavorare nei campi, ad allevare animali e a produrre vino, olio e pane. Nei momenti di libertà, i detenuti non vivono nella cella ma possono usufruire del cortile esterno, del refettorio o della sala attrezzi. Il lavoro non è solo una forma di impiego ma un vero e proprio percorso di recupero finalizzato al reinserimento sociale dei detenuti. La preparazione che viene fornita loro in campi quali agricoltura, allevamento, vinificazione, caseificazione, falegnameria, idraulica, muratura, provvederà, infatti, a creare un fondo finanziario e culturale di risorse funzionale alla reintroduzione nella società civile.
Progetto Marchesi Frescobaldi
Dopo aver rischiato più volte la chiusura, in particolare modo tra gli anni Settanta e Ottanta, il carcere di Gorgona ha vissuto una vera e propria svolta nel 2012 quando il ministero della Giustizia ha autorizzato un progetto senza precedenti che vede protagonista la nota azienda vinicola Marchesi de’ Frescobaldi. L’azienda, infatti, inizia a collaborare con l’istituto per produrre vino di alta qualità, coinvolgendo i detenuti in tutte le fasi della lavorazione. Nasce così il “Gorgona”, un vino bianco a base di Vermentino e Ansonica, commercializzato a circa 100 euro a bottiglia, e arrivato quest’anno alla tredicesima vendemmia. In una recente intervista a “Il Gusto”, Daniele, uno dei detenuti-vignaioli, ha raccontato: «Lavorare qui è gratificante, ti viene data una responsabilità. E questa responsabilità devi saperla rispettare e mantenere. È qualcosa che a livello umano ti dà grande conforto, in un ambiente come quello del carcere, dove vivere non è facile. Ma stare nella natura aiuta. Passare il tempo fra i filari è un’emozione grandissima, qui la giornata di lavoro è piena e il tempo scorre più velocemente. In questo periodo, che precede la vendemmia, lavoriamo molto. Ho iniziato nel giugno 2023: da allora ogni mattina ho un motivo per alzarmi. Una chance del genere non va sciupata».
Un progetto che commuove e rende orgoglioso lo stesso Lamberto Frescobaldi: «Un bicchiere di vino non è solo l’occasione per dire “mi piace” o “non mi piace”. Racchiude giornate di sofferenze, dolori, voglia di riscatto. Noi non pensiamo solo a produrre vino, noi siamo una ragione per svegliarsi la mattina. Qui in Gorgona abbiamo preso l’impegno di portare avanti il vigneto fino al 2050. E speriamo che il vino faccia bene perché vogliamo vivere a lungo nel rispetto dell’ambiente e delle persone. Il nostro mondo è bellissimo, non c’è mai nulla di codificato in una vendemmia». Esempio virtuoso di partenariato pubblico-privato, replicato anche per l’olio, la panificazione e l’orticoltura, la collaborazione ha un fine rieducativo: i detenuti, infatti, vengono retribuiti regolarmente, ricevono una formazione certificata e acquisiscono competenze spendibili una volta liberi.
Il senso di comunità
I tanti pregi del sistema penitenziario di Gorgona non rendono certo il posto, che resta pur sempre un carcere, un’oasi di pace. L’accesso limitato rende difficile l’arrivo di medici, avvocati, educatori, il turnover degli operatori è alto e la scarsità di personale incide sulla qualità dei percorsi. Alcuni detenuti spesso lamentano l’eccessivo isolamento e la difficoltà di mantenere rapporti con le famiglie. I trasferimenti sono complicati e le visite scarse. Tuttavia anche queste difficoltà si sono tramutate in un vero e proprio punto di forza per il penitenziario. I detenuti, infatti, negli anni hanno sviluppato un senso di comunità raro nelle carceri italiane. I detenuti, gli agenti penitenziari, i funzionari e i volontari condividono gli spazi, si conoscono per nome e collaborano mentre il direttore dell’istituto non è una figura lontana e distante ma parte stessa del progetto rieducativo.
Un modello che funziona
Gorgona rappresenta un’anomalia positiva nel sistema carcerario italiano: le celle non sono sovraffollate, i detenuti sono impegnati in numerose attività agricole o artigianali, apprendono mestieri, guadagnano, mangiano il cibo che producono. I tassi di recidiva a Gorgona sono inferiori al 20% mentre le attività proposte sembrerebbe aver cambiato il carattere di molti detenuti. Molti di loro, infatti, hanno deciso di prendersi cura degli animali allevati sull’isola, che sarebbero altrimenti finiti al macello.
Un altro carcere è possibile
Soprannominata “l’isola dei diritti” e definita da Papa Francesco come un esempio “di giustizia che non rinuncia alla speranza”, Gorgona ha attirato l’interesse di numerose delegazioni europee, ma anche di scrittori, registi e docenti. Pur essendo un sistema difficilmente replicabile in altre carceri, sia per la sua posizione geografica che per le peculiarità precedentemente elencate, il carcere di Gorgona può essere comunque fonte di ispirazione per far sì che le carceri trasformino la pena in una rinascita o seconda occasione che dir si voglia. Un modello che si rifà all’articolo 27 della Costituzione secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Parole che, non a caso, riecheggiano in un murales presente sull’isola dell’Arcipelago Toscano e che rappresentano il vero e proprio manifesto nonché l’essenza del carcere di Gorgona: la pena può essere redenzione, non solo reclusione.