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    I giornali italiani schiavi della pubblicità (e delle Big Tech)

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 28 Apr. 2022 alle 20:22

    «Negli anni Novanta nei giornali avevamo talmente tanti soldi che non sapevamo dove metterli. E se capitava che un inserzionista si arrabbiasse per un articolo e decidesse di cancellare il contratto pubblicitario, non ce ne fregava niente. Anzi, quella era una medaglia per il giornalista». Fa una certa impressione ascoltare questo racconto dei tempi che furono, fatto da un esperto cronista che ha lavorato in alcuni tra i più importanti quotidiani d’Italia. Oggi, rispetto a quell’era di opulenza, il mondo della stampa è ribaltato: le vendite sono crollate a picco, i ricavi dimezzati e la pubblicità – sebbene certe cifre siano un lontano ricordo – rappresenta la ciambella di salvataggio a cui aggrapparsi nella tempesta. «Di fronte alla crisi, gli editori hanno smesso di investire, si sono chiusi nel fortino e pensano solo a limitare i danni fra ristrutturazioni e tagli. Oppure vendono il giornale e basta», scuote la testa il collega.I numeri parlano da soli: nel 2005 – dati Audipress – gli italiani che leggevano almeno un quotidiano al giorno erano 21 milioni; oggi, includendo anche chi si informa solo sulle testate online, sono scesi a 11 milioni. Prendiamo il Gruppo Rcs: fino a quindici anni fa il Corriere della Sera vendeva oltre 600mila copie e la Gazzetta dello Sport più di 300mila; adesso fanno rispettivamente 250 e 100mila copie. E di pari passo i ricavi si sono dimezzati: nel 2005 Rcs fatturava 2,2 miliardi di euro, oggi 850 milioni. Idem per il Gruppo Gedi (ex Gruppo L’Espresso), precipitato da 1 miliardo a 500 milioni.

    Essendosi drammaticamente abbassata la tiratura, anche gli introiti derivanti dagli sponsor si sono ridotti. È logico: se l’inserzione sarà vista da un numero inferiore di persone, il suo costo scenderà. Ma è proprio quel poco rimasto di ricavi pubblicitari a tenere in piedi i bilanci dei giornali. Scopriamo sempre dai libri contabili di Rcs che agli inizi del Duemila le pubblicità valevano circa il 30% delle entrate del gruppo, mentre oggi – malgrado fruttino in termini assoluti la metà di allora –  pesano per almeno il 40%.Notizie in ostaggioIl risultato è che a molti editori – che quasi sempre gestiscono anche attività imprenditoriali extra-giornalistiche – oggi non interessa tanto pubblicare una notizia prima degli altri o stimolare il dibattito pubblico (insomma, fare giornalismo) quanto piuttosto raccogliere la somma più alta possibile dagli inserzionisti per mandare avanti la baracca. Con la pessima conseguenza che le notizie – quando non sono filtrate a seconda del disturbo che potrebbero arrecare agli altri business dell’editore – rischiano così di diventare ostaggio delle aziende che pagano la pubblicità. A cominciare dalle partecipate di Stato (sfogliare un giornale a caso, per credere). Peraltro, malgrado il deserto di lettori sia in espansione, ancora oggi una singola pubblicità stampata sul giornale cartaceo è ben più redditizia per la testata rispetto alla stessa pubblicità piazzata online. Costa di più. Perché? «I banner sui siti dei quotidiani servono principalmente a generare brand awareness, notorietà di marca, mentre la carta ha il vantaggio di offrire la permanenza del messaggio e di veicolare più informazioni al consumatore», spiega Pier Luca Santoro, esperto di comunicazione e amministratore delegato del think tank Data Media Hub.

    L’arrivo dei GigantiLa pubblicità, tuttavia, è ossigeno vitale anche per i giornali online, che nella maggioranza dei casi propongono i loro articoli ai lettori in via gratuita e che quindi hanno ancora più bisogno degli incassi dagli sponsor. Nel 2020 la raccolta pubblicitaria del settore digitale ha superato per la prima volta quella messa a segno dalle televisioni. Ma qui subentra un altro problema, anzi il problema con la P maiuscola del presente e del futuro dell’informazione: il mercato delle inserzioni su Internet è divorato dai cosiddetti “over the top” (Ott), ossia dai monopolisti come Google e Facebook, che agiscono come veri e propri concessionari di pubblicità, offrendo agli inserzionisti spazi dove mettersi in mostra e agli editori commissioni variabili a seconda del pubblico raggiunto. Nell’ultimo studio settoriale del centro ricerche Nielsen si legge che nel 2021 in Italia gli Ott hanno incassato con le inserzioni oltre 3,2 miliardi di euro, pari all’86% della raccolta digitale nazionale. Ma Google, Facebook e compagnia drenano anche il 36%  del totale degli investimenti pubblicitari che vengono fatti in Italia. Significa che stanno diventando dominanti sull’intero mercato. Per avere un confronto, i quotidiani hanno assorbito appena 465 milioni, pari al 5% del totale. E così, sempre più spesso, finisce che, per tirare avanti, la nobile missione del giornalismo si inchina alla cinica legge dell’algoritmo. È la stampa nell’era delle Big Tech, bellezza.

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