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    Cogito Ergo Sumud Flotilla: la lezione civile della missione umanitaria per Gaza

    Credit: AGF

    La solidarietà dal basso, l’ambiguità del Governo, le gogne mediatiche. l'iniziativa ha smascherato l’ipocrisia della politica italiana ed europea. E risvegliato coscienze e piazze. Ecco cosa può succedere ora

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 10 Ott. 2025 alle 15:27

    Per qualcuno erano solo “figli di papà” annoiati in crociera militante per sentirsi eroi per un giorno. Così si è provato a liquidare la Flotilla. Ma, mentre la propaganda costruiva caricature, migliaia di persone scendevano in piazza in Italia per difendere il diritto di quegli attivisti a portare cibo, acqua e medicine a un popolo ridotto alla fame. La realtà, più forte delle bugie, ha costretto la politica a mostrarsi per quello che è: incerta, pavida, ambigua. Nei giorni della missione, le parole pronunciate dai vertici politici italiani hanno rivelato più di quanto forse volessero. La premier Giorgia Meloni e il ministro della Difesa Guido Crosetto, nelle loro esternazioni, hanno di fatto legittimato il blocco israeliano, lasciando intendere che chi tentava di forzarlo non fosse altro che un provocatore. Un rovesciamento retorico che ha presentato attivisti pacifici come destabilizzatori e il blocco militare come atto di legittima difesa.
    Meloni si è spinta fino ad accusare gli attivisti della Flotilla di “mettere a rischio la pace a Gaza” con la loro missione. Un’affermazione che suona paradossale: attribuire a poche barche cariche di viveri e volontari disarmati la responsabilità di destabilizzare una situazione già segnata da occupazione, bombardamenti e fame. È un modo per ribaltare le responsabilità, spostando l’attenzione da chi impone l’assedio a chi prova a incrinarlo con un gesto civile e pacifico. La premier ha commentato anche le manifestazioni a sostegno della Flotilla da parte del cosiddetto “equipaggio di terra”: “Il weekend lungo e la rivoluzione non stanno insieme”. Non si è trattato di una semplice battuta infelice, ma di una frase che rivela un’idea precisa delle lotte sociali e delle organizzazioni sindacali. È il rispetto che la premier riserva al diritto di sciopero: un diritto costituzionale che non può essere ridotto a un capriccio o a un vezzo di chi vuole rovinare le vacanze. È questo il livello di distanza che separa la retorica governativa dal dettato costituzionale, ed è su questo scarto che si misura la fragilità della sua leadership: livorosa, sempre più incapace di elevarsi a leader nazionale, sempre più chiusa nel ruolo di capopartito.

    Le piazze di nuovo piene
    Eppure, mentre la politica esitava, le piazze italiane si riempivano. Migliaia di persone, in tantissime città italiane, hanno manifestato in solidarietà con Gaza e con gli attivisti della Flotilla, portando cartelli, canti, bandiere, testimonianze. Una voglia di partecipazione che sembrava sopita da tempo e che invece, in questo caso, si è riaccesa con forza. C’è un elemento che spiega questo risveglio: la consapevolezza, sempre più diffusa, che a Gaza non è in corso soltanto una crisi umanitaria, ma un genocidio dentro un’occupazione militare prolungata. Peccato che nella narrazione pubblica, le proteste sono state spesso ridotte a una questione di ordine pubblico o, peggio, a un fastidio per la vita quotidiana. Un modo per disinnescare la forza del messaggio, oscurando le ragioni di chi scende in piazza dietro il rumore delle polemiche.
    Ma la domanda ora è un’altra: siamo di fronte a un ritorno della politica dal basso? Gli ultimi anni hanno visto piazze spente, demobilitate, incapaci di incidere sul dibattito nazionale. La Flotilla, invece, ha mostrato un’Italia che non accetta più il silenzio, che cerca spazi di protagonismo civile e che sente di dover intervenire di fronte a un’ingiustizia così evidente. La Palestina sta entrando nell’immaginario delle nuove generazioni come il Vietnam negli anni Sessanta e Settanta. Un simbolo potente, a tratti struggente. I giovani sono la vera, immensa, forza motrice delle mobilitazioni che stanno attraversando il Paese. Per noi una ricchezza immensa: la speranza è che tutto questo possa arrivare fin lì, essere “utile” a quel popolo, accompagnare la loro lotta.

    Il ruolo dei media
    Accanto alle piazze, un altro campo di battaglia è stato quello mediatico. Alcuni grandi giornalisti televisivi hanno trasformato talk show e prime serate in vere e proprie gogne pubbliche, dove attivisti e cittadini solidali venivano messi sotto accusa. È il caso emblematico di Bruno Vespa, che non solo ha definito la missione una “inutile provocazione”, ma che durante un collegamento in diretta con l’attivista Tony La Piccirella – a bordo della barca Alma in navigazione verso Gaza – si è lasciato andare a un giudizio pesante: “Non ve ne fotte niente di dare aiuti alle persone”. Vespa non ha permesso a Piccirella di esporre le sue motivazioni, stroncatandolo con un giudizio liquidatorio, più simile a una condanna che a una domanda giornalistica. Quell’episodio, diventato virale, ha cristallizzato lo scontro: da un lato gli attivisti, che rivendicavano il diritto a portare aiuti rompendo il blocco, dall’altro un giornalismo televisivo che ha preferito delegittimare piuttosto che ascoltare. Una frattura che ha acceso il dibattito e alimentato la rabbia di migliaia di cittadini.

    Diritti calpestati
    In questa vicenda non sono mancate le fake news. Una delle più diffuse – rilanciata da fonti israeliane e ripresa da testate internazionali – è stata quella secondo cui la Flotilla sarebbe stata finanziata da Hamas. Un’accusa grave, che mirava a screditare l’iniziativa trasformando un’azione civile e pacifica in un presunto tassello della “guerra terroristica”.
    La realtà è che non esiste alcuna prova di collegamenti con Hamas: le navi della Flotilla sono state sostenute da associazioni europee e da reti internazionali di solidarietà, con raccolte fondi trasparenti e verificabili. Eppure la notizia, pur infondata, ha fatto il giro del mondo, alimentando sospetti e divisioni. È il potere della propaganda: colpire la credibilità degli attivisti per ridurre al silenzio la loro denuncia.
    Ma non è solo la disinformazione a emergere. La missione Flotilla ha riportato al centro un tema cruciale: il diritto del mare. In questi giorni – come ha ricordato il contrammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di porto adesso in congedo, che ha trascorso 31 anni nella Guardia Costiera – molti hanno parlato con leggerezza delle “acque israeliane” di fronte a Gaza. Un’espressione ingannevole, perché quel mare non appartiene a Israele. Israele se ne è di fatto impossessato nel 2007, quando Hamas prese il potere nella Striscia, istituendo un blocco navale ufficialmente per impedire l’arrivo di armi. Da allora le navi militari di Tel Aviv controllano uno spazio marino fino a 50 miglia dalla costa, vietando l’accesso alle navi civili e persino limitando la pesca dei palestinesi a sole tre miglia dal litorale.
    Lo stesso Alessandro ricorda come nel 2006 Israele avesse imposto un blocco simile al Libano, di cui egli stesso fu testimone diretto mentre si trovava su un’unità ONU: “restammo bloccati per ore sotto il tiro delle armi”, racconta. Ma in quel caso il blocco durò poche settimane e alla fine il controllo dei porti fu affidato alle forze UNIFIL. Per Gaza, invece, la misura dura ormai da diciotto anni, con conseguenze devastanti per la popolazione civile.

    E adesso?
    Nessuno può dire cosa accadrà nei prossimi mesi. L’occupazione di Gaza prosegue, e con essa continueranno le mobilitazioni e le tensioni. Ma la lezione che la Flotilla lascia all’Italia è chiara: non si può restare spettatori. Ogni scelta di silenzio, ogni ambiguità politica, diventa complicità.

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