Deve esserci un luogo, che alberga in ognuno di noi, dove vivono, mangiano e respirano i pensieri più liberi. Un luogo dove ci concediamo di colorare fuori dai margini, di camminare a testa in giù, di ragionare senza regole predefinite. Questo luogo, per molti resta segreto tutta la vita. Per altri, trova il modo di venir fuori. Non è facile trovare questo luogo, né entrarci. Perché può scombussolare la nostra vita e non sempre vogliamo o siamo in grado di accettare tanta libertà. Noi italiani siamo così, forse preferiamo qualcuno che ci dica sempre cosa fare, cosa mangiare, in cosa credere, come vestirci, chi odiare e chi amare. È più facile, ci toglie dalla fatica dell’impegno e ci lascia meno spazio in cui perderci. Come vivere un’intera vita in un grembo materno, solo che invece di crescere, ci rimpiccioliamo sempre più. Insomma, troppa libertà ci fa paura e allora preferiamo sguazzare in quella che troviamo su misura per noi. Non importa se nel frattempo è diventata un stagno putrido.
Paura della libertà
Ed è così che negli anni, nei decenni, abbiamo lasciato che tutti, a turno, venissero a rosicare un po’ della nostra libertà. Libertà di pensiero, libertà di dissenso, libertà di parola. Libertà dei beni comuni, libertà della natura. È per questo che oggi, quando ci informano che con un decreto (il decreto Sicurezza ndr) non saremo nemmeno più liberi di scendere in piazza per manifestare, non diciamo nulla. Restiamo zitti, convinti come siamo che di libertà ne abbiamo tanta, fin troppa. Ed è per lo stesso motivo, che quando oggi accade qualcosa, qualcosa di brutto o di grave, lasciamo che siano gli altri a dirci cosa è successo e cosa pensare sull’accaduto. Guardiamo la tv, leggiamo un post sui social e abbiamo la chiave di lettura di tutto. L’argomento è risolto brevemente con qualche lapidaria dichiarazione di un ministro o con le discettazioni televisive degli esperti opinionisti. Ma la nostra di critica vera, che fine ha fatto? È un percorso complesso e accidentato, faticoso e spesso solitario. Andare oltre intendo.
L’uccisione di Carlo Giuliani, morto ammazzato da un carabiniere durante il G8 di Genova nell’estate del 2001, è una di quelle cose che avrebbe richiesto (e ancora richiede) uno sforzo di lettura molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati. Ed è per questo che a distanza di 24 anni, c’è bisogno di tornare da Carlo, di tornare alla sua morte perché il silenzio non cali su una vicenda che tanti, troppi italiani hanno derubricato con parole di circostanza, senza chiedersi, senza capire, senza approfondire cos’era l’Italia in quegli anni e perché Carlo sia morto.
Parole e immagini
Quando sono entrata nella casa di Carlo, su da Castelletto (Genova) fino a sedermi sul suo divanetto blu che è «vecchio, ma si fa fatica a buttar via», c’è una cosa che sua madre Haidi mi ha detto e che è difficile dimenticare, «è più il tempo che è passato dalla sua morte che gli anni che ha vissuto». Carlo è morto a 23 anni, ne sono passati 24. Un’altra vita. E quante vite avrebbe potuto vivere Carlo. Carlo che «amava conoscere le persone, che aiutava gli altri in silenzio e con discrezione, Carlo a cui non piaceva essere protagonista, Carlo che scriveva, Carlo che amava viaggiare».
È sempre difficile parlare o scrivere di chi non c’è più, perché la cosa più giusta sarebbe che a parlare fosse lui stesso. «Com’era Carlo? Dovrebbe dirlo lui», afferma la sorella Elena con gli occhi fermi. Eppure nemmeno può restare di lui la sola immagine diffusa, con quel passamontagna e l’estintore tra le mani. Nemmeno si può più parlare di lui con frasi di circostanza, come del “ragazzo che se l’è cercata”, “un mezzo criminale”, “uno che aveva voglia di far casino, un black block”.
«Il termine “black block” è così generico e nemmeno esiste in Italia – afferma Haidi – sono chiamati “black block” durante il G8 tutti quelli che fanno azioni al di fuori del corteo pacifista, per cui chiunque reagisce alla violenza è un black block, anche se reagisce a una provocazione, a un’ingiustizia e per questo Carlo è stato subito messo nel registro dei black block. Viene vestito e raccontato e c’è quella famosa foto, la più diffusa, dove lui è ripreso con lo zoom e sembra un gigante di fronte alla camionetta dei Carabinieri».
Lo scatto di cui parla Haidi è quello che ha fatto il giro del mondo e si deve a un inviato della Reuters, Dylan Martinez. Realizzato con un teleobiettivo 70-200 mm – che chi si intende di fotografia sa schiacciare i piani con conseguente alterazione delle prospettive – mostra Carlo con un estintore in mano, posizionato di fronte a una camionetta dei carabinieri (apparentemente incastrata) da cui esploderanno i colpi di pistola, e che successivamente sarà invece in grado di fare retromarcia, schiacciando per due volte il corpo di Carlo ormai a terra. Tuttavia, esistono altre prove fotografiche realizzate da altri giornalisti che con una prospettiva laterale dimostrano che tra Carlo e la camionetta ci fossero circa quattro metri di distanza e diverso spazio di manovra.
Non è mai stato chiarito perché un contingente dei carabinieri avesse attaccato un corteo autorizzato, e quella che per qualcuno è stata «legittima difesa» per Amnesty International è, insieme agli altri fatti di Genova, «la più grave violazione dei diritti democratici commessi in uno Stato occidentale dopo la Seconda guerra mondiale».
Vittime e colpevoli
E Carlo da quel giorno ne esce come un ragazzo che non stava manifestando pacificamente ma che aveva intenzione di far casino. È così? Per l’opinione pubblica, per chi si limitò ad ascoltare i telegiornali affidandosi a un’informazione poco imparziale, le cose andarono così. «Carlo non fu vittima, Carlo probabilmente reagì a ore di pressioni, di oppressioni, di ingiustizie. Ma Carlo non era un criminale. E se pure lo fosse stato, meritava di morire a quel modo?». Haidi, “vecchia comunista atea”, come lei stessa si definisce, conosce già la risposta alla domanda che pone. Carlo era sì tra i manifestanti contro il G8. Durante gli scontri con le forze dell’ordine, un proiettile lo colpì al volto, a pochi passi da un Defender dei carabinieri. Dall’interno del mezzo a sparare fu il carabiniere ausiliario, Mario Placanica. «Il colmo dei colmi fu che Placanica disse di non aver visto Carlo», aggiunge mamma Haidi.
«Certe persone sono diventate le vittime e altri sono rimasti i colpevoli – prosegue Haidi con amarezza. – Perché Carlo, pur essendo stato ammazzato, è un colpevole. Carlo è un ribelle e ai ribelli non si perdona. Carlo lo sa quello che fa e reagisce alla violenza. E l’altra cosa particolare è che reagisce a una violenza fatta agli altri, a tutti, e reagisce all’ingiustizia di tutti, non di se stesso, o comunque non esclusivamente».
Carlo si trovava in piazza Alimonda, dove un Defender dei carabinieri stava facendo manovra in seguito alla “ritirata” dopo una carica respinta. Un ragazzo lanciò un estintore contro l’auto dei militari, Carlo Giuliani lo raccolse e lo brandì, ma in quel momento fu raggiunto da un proiettile sullo zigomo e cadde a terra. Passò qualche istante prima che nella piazza ci si rese conto dell’accaduto: nella confusione, vennero avvertiti almeno due spari. Il Defender, lo abbiamo detto, passò due volte sopra il corpo di Carlo, prima in retromarcia e poi in avanti, e si allontanò. Il colpo partì da quel mezzo: dentro c’erano tre agenti, tra cui Mario Placanica. Un cordone delle forze dell’ordine circondò la zona, mentre si accertò la morte di Carlo. Inizialmente si parlò di un ragazzo spagnolo ucciso da un sasso lanciato dai manifestanti, ma dopo poche ore cominciarono a circolare le immagini che mostrarono la dinamica dell’accaduto.
Verità giudiziaria
Le scene dell’uccisione di Carlo furono mostrate da tutte le televisioni del mondo e diventarono per molti un simbolo delle proteste contro il G8 e della violenza della polizia, pochi giorni prima dei tragici fatti della scuola Diaz. Come detto, i giudici stabilirono poi che Placanica aveva sparato per legittima difesa e il carabiniere fu prosciolto dall’accusa di omicidio colposo. Furono però contestate alcune lacune dell’inchiesta e la mancanza di chiarezza su quello che avvenne esattamente quel giorno a Genova; ci furono anche molte discussioni sulle presunte responsabilità di chi creò la situazione che portò alla morte di Giuliani. Oggi i processi e le commissioni di inchiesta parlamentare sono tutti chiusi ed è difficile che nel prossimo futuro si potranno chiarire ulteriormente altri aspetti di questa morte.
Il processo per l’omicidio di Carlo a carico di Mario Placanica, infatti, è stato archiviato il 5 maggio 2003: è stata accettata la versione del pm Silvio Franza che ha condotto le indagini preliminari, ovvero che egli sparò in aria e per legittima difesa. Secondo la ricostruzione ufficiale, il colpo fu poi deviato da un calcinaccio.
I genitori di Carlo (Giuliano Giuliani e Haidi Gaggio ndr), attraverso il Comitato Piazza Carlo Giuliani, si sono battuti in ogni modo contro la sentenza, contro cui si sono appellati alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. La decisione è stata resa nota nell’agosto 2009: i giudici hanno respinto il ricorso contro lo Stato italiano e hanno stabilito che Placanica sparò effettivamente per legittima difesa.
Nell’ottobre 2013 la famiglia Giuliani ha intentato una causa civile contro i ministeri dell’Interno e della Difesa, il vicequestore Lauro e Mario Placanica. Nel gennaio 2015 il giudice ha respinto il ricorso, facendo riferimento al legittimo uso delle armi già stabilito nella sentenza di proscioglimento di Placanica.
Un’eredità spartiacque
Il G8 di Genova è stato un grande fallimento, il vertice della vergogna e della paura, e che gli eventi – gravissimi – che ne sono derivati hanno fatto da spartiacque, creando un momento zero, per cui ovunque si parla di un prima di Genova e di un dopo Genova. Spesso, però, ci si dimentica che in quei giorni più di 300mila persone scesero in piazza. Quasi 1200 tra associazioni e movimenti nazionali e internazionali aderirono al Genoa social forum, la piattaforma che organizzò la protesta contro il patto politico per la globalizzazione delle merci stipulato dagli otto Paesi più industrializzati al mondo. Un movimento simile faceva paura. Per questo provarono a spezzargli le ali attraverso una violenza studiata a tavolino, per un po’ riuscendoci pure. Chi venne dopo dovette fare i conti con quella ferita, sopportarne il dolore, ma anche imparare a capire che erano le persone scese in quella piazza ad avere ragione.
E Carlo era tra quelle persone perché condivideva quegli ideali, li praticava in silenzio ogni giorno. Era un caleidoscopio di talenti e avrebbe potuto esprimere ancora tanto di sé. «A 23 anni aveva già fatto tanto», ci dice la sorella Elena, «pur essendo così giovane e pur avendo così poca possibilità di movimento, perché poco più che maggiorenne, ancora legato a certi obblighi dello Stato, di servizio civile. Il comitato che abbiamo messo in piedi (Comitato Piazza Carlo Giuliani) non ci ridarà Carlo, ma lui oggi ci dà la possibilità di parlare. La sua storia così ingiusta, con la negazione del processo, che è una storia di tanti come lui, ci dà la possibilità di parlare di tutti i temi che aveva affrontato il movimento No Global allora e di tutte quelle cose che abbiamo visto poi che sono successe nel mondo, che danno diecimila volte ragione a quei ragazzi in piazza».
Tutto era racchiuso nello slogan “Un altro mondo è possibile”, lanciato al Forum mondiale di Porto Alegre a gennaio 2001 e figlio della battaglia di Seattle al summit del WTO del 1999. Non un movimento no-global, come erroneamente i media lo hanno definito a più riprese, ma un movimento new global, internazionalista. Non è un caso che la prima manifestazione contro il G8, il 19 luglio 2001, fosse per rivendicare i diritti dei migranti: “Libertà di movimento, libertà senza confini” era lo slogan dello striscione in testa al corteo. Venivano inoltre denunciate la fallimentare finanziarizzazione dell’economia, i danni dello sfruttamento incontrollato delle risorse, il monopolio delle grandi aziende farmaceutiche sui brevetti medici e, quindi, sulla sanità. Crisi dei derivati del 2007-2008, riscaldamento globale e inaccessibilità a cure e vaccini durante la pandemia da Covid-19 sono qui a ricordarci, di nuovo, che avevano ragione loro. Se da una parte quelle parole non vennero ascoltate perché politica e mass media le rifiutarono, è anche vero che caddero nel vuoto a causa di alcuni errori interni al movimento. Mancò, insomma, la capacità di declinare sul territorio la lotta contro la globalizzazione neoliberista, tanto nelle istituzioni quanto nelle persone.
E di Carlo cosa ci resta? Sicuramente le sue parole, come i bigliettini che amava lasciare sparsi dedicando sonetti alle persone che gli stavano accanto. Ci resta molto più di un’immagine ormai sbiadita. Carlo era un genovese, un ragazzo che colorava fuori dai margini, un amante dei carruggi, con il sogno di partire per il sud America e di trovare il proprio posto nel mondo. Una vita che si è fermata per sempre quella sera di luglio in piazza Alimonda. “Nei momenti più difficili basta ricordare i momenti più belli, ma non solo, guardare alle cose che ancora si possono costruire là dove il cielo si congiunge col mare. Tanti Auguri”. (Carlo 1995).
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