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    La famiglia del bosco e il nostro bisogno di definizione

    Nathan Trevallion e Catherine Birmingham. Credit: Screenshot da "La Vita in Diretta", in onda su Rai 1

    La vicenda dei bambini allontanati dal Tribunale per i minorenni dell’Aquila riapre il dilemma tra scelte di vita radicali e diritti dei minori, tra diffidenza verso lo Stato e bisogno di protezione collettiva: un conflitto spesso cavalcato dalla propaganda politica

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 23 Nov. 2025 alle 08:46 Aggiornato il 23 Nov. 2025 alle 08:48

    “Se credi che non ci sia speranza, farai in modo che non esista alcuna speranza. Se credi che ci sia un istinto verso la libertà, farai in modo che le cose possano cambiare ed è possibile che tu possa contribuire a creare un mondo migliore.”, questa è un frase che sentire nel film Captain Fantastic e la cui visione, mai come oggi, si rende necessaria. Il film racconta la storia in cui Viggo Mortensen vive nelle foreste del Nord America con i suoi sei figli, completamente isolati dal mondo esterno, senza elettricità, coltivando e cacciando ciò che mangiano; qui insegna loro a cacciare, a studiare filosofia politica, letteratura e fisica, a meditare, a suonare e a cantare. I figli, quattro femmine e due maschi, hanno un’età che va dai 5 ai 18 anni e non sono avvezzi al mondo dei “normali”. Si scontreranno con quell’universo sconosciuto per affrontare il lutto di una persona cara che vive lontano da loro. Il viaggio si rivela un’occasione di confronto con il mondo dei “normali”, consumistico e obeso, i non luoghi della cultura americana come supermercati, pompe di benzina e diner incapaci di offrire del cibo vero e in generale una relazione vera con gli oggetti e i nostri bisogni. Purtroppo, l’utopia di una vita vissuta in completo isolamento e opposizione al sistema si scontra contro le regole di un mondo rigido e rischia di andare in pezzi. Perché racconto di questo film? Perché senza sforzare troppo la fantasia, la vicenda narrata ricorda ampiamente quella della famiglia che viveva nel bosco, nella provincia di Chieti, e che ora ha visto i propri figli allontanati dal Tribunale per i minorenni dell’Aquila.

    La vicenda mette al centro un conflitto profondo tra scelta alternativa di vita e dovere di tutela. Il tribunale ha motivato il provvedimento parlando di “grave pregiudizio per l’integrità fisica e psichica” dei minori, richiamando condizioni abitative insalubri, isolamento educativo, assenza di socialità e problemi nell’istruzione e nella salute. Gli assistenti sociali avevano segnalato già in estate “disagio abitativo, isolamento e assenza di scuola”.

    Tutto questo si inserisce in una riflessione più ampia — che in fondo riguarda ciascuno di noi — sulla genitorialità e sul vivere “a contatto con la natura”, come richiamato dal film Captain Fantastic: lo scenario ideale in cui una famiglia decide di estraniarsi dal sistema, immaginando che la purezza dell’ambiente naturale possa compensare le complessità del mondo contemporaneo. Ma il film, come la vicenda reale, mostra che nessuna scelta radicale è priva di ombre: la natura può essere meravigliosa ma anche crudele, e il ritiro dal mondo non elimina i problemi, anzi li espone a nuovi rischi — sanitari, educativi, relazionali — che non possono essere ignorati.

    In parallelo, migliaia di persone si sono schierate emotivamente a favore della famiglia: le petizioni online hanno superato prima le 7.000 firme, poi le 13.000, segno che una parte significativa dell’opinione pubblica legge questa vicenda non solo come un caso di tutela dei minori, ma come un conflitto simbolico tra libertà individuale e apparato statale. E la vicenda, nel suo insieme, ci costringe a una riflessione più profonda: quanto sono davvero “neutrali” i modelli di vita che consideriamo naturali o auspicabili? E quanto, invece, sono condizionati dall’idea di normalità che abbiamo interiorizzato, da ciò che rientra o non rientra negli ingranaggi dell’economia del consumo? Perché, paradossalmente, sembra più accettabile una famiglia stipata in 40 metri quadri, chiusa tra cemento, traffico e dispositivi elettronici, purché perfettamente allineata al ritmo sociale ed economico dominante: lavora, consuma, si connette, rispetta gli orari, esiste dentro le infrastrutture che conosciamo.

    La domanda sottesa è scomoda: quanto del nostro giudizio nasce da reali preoccupazioni per i diritti dei bambini e quanto da una difficoltà ad accettare modelli alternativi? E siamo davvero sicuri che il modello tradizionale — appartamenti minuscoli, ritmi frenetici, iperconnessione — sia di per sé il migliore possibile per crescere dei figli?

    Dentro questa tensione non va dimenticato un punto fondamentale: lo Stato, per quanto imperfetto, è anche l’istituzione che manda l’elicottero se mangi un fungo velenoso, che interviene quando qualcosa va storto, che garantisce cure immediate, istruzione gratuita e una rete di sicurezza che non percepiamo finché non ci manca. È facile immaginare la narrazione opposta: se in quel bosco fosse successo qualcosa di grave — un incidente, una malattia non riconosciuta, un ritardo nei soccorsi — oggi gli stessi che criticano l’intervento avrebbero probabilmente gridato allo scandalo inverso: “dov’era lo Stato?”. La tutela è invisibile finché non serve, ma resta essenziale.

    E dentro questa tutela rientra anche la scuola pubblica, che non è solo un luogo di trasmissione di nozioni, ma uno spazio in cui i bambini apprendono la socialità, incontrano differenze, sperimentano il conflitto, la cooperazione, l’errore, la frustrazione e il riconoscimento: un laboratorio civile prima ancora che didattico. Tuttavia, non possiamo ignorare un dato reale: negli ultimi anni la scuola fa sempre più paura a molte famiglie. La percezione — spesso alimentata dai media, talvolta basata su esperienze vere — è quella di un ambiente competitivo, stressante, segnato da episodi di bullismo, da aggressioni, da pressioni eccessive, da un clima in cui i ragazzi rischiano di sentirsi soli pur essendo in mezzo agli altri.

    In questo contesto, la scelta dei “genitori del bosco” di tenere i figli lontani da quello che vivono come un ambiente ostile non è del tutto incomprensibile. È il riflesso di un disagio diffuso: la scuola che dovrebbe proteggere e includere talvolta spaventa, disorienta, logora. Ma proprio per questo, paradossalmente, il compito della scuola pubblica rimane ancora più cruciale: garantire che tutti i bambini, non solo quelli con famiglie preparate o benestanti, abbiano accesso a un luogo che non sia né selettivo né violento, ma equo, formativo, comunitario.

    Allontanarsi dalla scuola significa anche allontanarsi da questa promessa collettiva — imperfetta, certo, ma ancora insostituibile — di uguaglianza nelle opportunità e di crescita dentro la società. Le scelte di vita alternative possono essere legittime e talvolta persino comprensibili o migliori di quelle della società, ma non possono cancellare il fatto che i diritti dei bambini esistono oltre le intenzioni dei genitori, nella città come nel bosco.

    In una stagione politica in cui scuola e sanità vengono spesso dipinte da leader come Meloni e Salvini come apparati ostili, è importante ricordare che quelle stesse istituzioni sono nate per garantire diritti e protezioni condivise. Ed è qui che la storia della famiglia nel bosco ci pone davanti a una domanda più ampia: non solo “stiamo facendo del male?”, ma “che cosa stiamo offrendo alla comunità?”. La libertà individuale non esiste nel vuoto, è sempre legata ai doveri di partecipazione che tengono in piedi la vita collettiva: contribuire a una scuola pubblica accessibile a tutti, preoccuparsi della sanità di chi non può permettersi cure private, riconoscere che i figli non appartengono solo ai genitori ma anche alla società di cui fanno parte.

    Scegliere di ritirarsi in un bosco può sembrare un gesto di coerenza o di resistenza, soprattutto in un’epoca in cui molti percepiscono le istituzioni come distanti. Ma questa scelta non elimina il patto che ci lega gli uni agli altri. Perché lo Stato, con tutti i suoi limiti, resta il luogo che interviene quando la vita si complica: manda un elicottero se qualcuno si avvelena, offre farmaci, medici, scuole, strumenti che permettono di non essere soli nelle emergenze. Ignorare questo significa dimenticare che la protezione pubblica non è un lusso, ma una garanzia costruita nel tempo grazie ai contributi di tutti.

    Captain Fantastic ricorda che anche la vita più “pura” e autosufficiente ha bisogno di un mondo condiviso per reggersi in equilibrio. E la vicenda italiana ci ribadisce che la libertà dei genitori finisce dove iniziano i diritti dei figli e dove comincia il dovere, per ciascun cittadino, di contribuire a una società in cui la sicurezza e il futuro non siano un privilegio individuale ma un bene comune. Per ora, dunque, dobbiamo accontentarci del dubbio: qual è la strada più giusta?

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