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    “Dopo 33 anni in carcere, finalmente la verità. Sono innocente”: intervista a Beniamino Zuncheddu

    Nel gennaio 1991 fu accusato e poi condannato all’ergastolo per triplice omicidio. La sentenza però si basava una falsa testimonianza. Ora il processo di revisione sta per fare giustizia. “Sogno una vita nuova. Ma il dolore resta”

    Di Giuliano Guida Bardi
    Pubblicato il 9 Dic. 2023 alle 07:00

    Può capitare a me, a te. A chiunque, anche senza aver fatto nulla, può succedere di passare quasi trentatré anni chiuso in un carcere, condannato per un triplice omicidio mai commesso. In Italia, oggi. Di sicuro è capitato a Beniamino Zuncheddu, un allevatore che aveva 26 anni all’epoca dei fatti, nel 1991: un triplice omicidio nelle campagne di Sinnai, a un tiro di schioppo (absit iniuria verbis) da Cagliari.

    Un’indagine condotta sui generis, un’unica prova: la testimonianza dell’unico sopravvissuto alla strage. Poi la condanna all’ergastolo. E trentatré anni di galera. Poi la provvidenza, che percorre sentieri strani.

    E allora unisci la combattiva sorella di Beniamino, Augusta. La determinazione di un giovane avvocato, Mauro Trogu. Lo scrupolo professionale del procuratore generale di Cagliari, Francesca Nanni. L’energia comunicativa della Garante per i detenuti della Sardegna, Irene Testa e, voilà, il miracolo: Beniamino Zuncheddu è in libertà condizionale, mentre il processo di revisione che è in corso presso la Corte di Appello di Roma si concluderà il 19 dicembre prossimo con la sentenza che dovrebbe ridare a un innocente la vita che gli è stata rubata, se tutto andrà come sembra. 

    Ma cosa sarebbe successo senza quella straordinaria miscela sorella-avvocato-procuratore-garante? Cosa succede ai mille casi di errori giudiziari che si registrano ogni anno in Italia? Beniamino Zuncheddu è ora nella casa di famiglia, a Burcei. Un paese arroccato sul monte Serpeddì, conosciuto per la bontà delle sue ciliegie e per la vista impareggiabile sulla piana di Cagliari. 

    Beniamino Zuncheddu, che sapore ha la libertà, dopo tanti anni dietro le sbarre?
    «È un sapore unico, incredibile, ma a tratti amaro. La libertà è il bene più prezioso che possiamo avere, ma non credo che tutti la apprezzino come dovrebbero. Purtroppo, anche se è banale e terribile dirlo, ci accorgiamo di quanto sia importante solo quando ci manca. Però ancora il sapore di poter fare quello che voglio, mi sfugge. Non l’ho ancora assaporato bene. Sono confuso, spaesato. Non mi raccapezzo. È come stare su un altro pianeta, per me». 

    Come si sopravvive a un’ingiustizia così grande?
    «Non lo so. Si fa, e basta. Si vive in un mondo a parte, che è il carcere. Ma dove c’è tanta sofferenza insieme a tanta umanità. In carcere soffrono tutti, gli innocenti, i colpevoli, le guardie carcerarie. Anzi, voglio salutare i miei amici che sono rimasti dentro e anche la polizia penitenziaria, che mi ha sempre trattato bene. Ma bisogna ricordare che chi vive dietro le sbarre è comunque l’ultimo degli ultimi, abbandonato dallo Stato e dalla società. Sepolto, anche se vivo». 

    Quando ha capito che forse si stava aprendo uno spiraglio per la sua scarcerazione?
    «Quando c’è stata la deposizione di Pinna che ha finalmente detto che l’assassino, quel tragico giorno, aveva un passamontagna calato in testa e che, dunque, non poteva essere riconosciuto. In quel momento ho capito che il castello di sabbia stava crollando. Anche se dopo una vita in carcere». 

    Che sentimenti prova nei confronti di chi l’ha accusata ingiustamente?
    «Solo pena. Tanta pena. Anche lui, come me, è una vittima. Vittima di chi ha voluto costruire una torre di bugie, di chi ha rovinato la vita di tante famiglie. Le famiglie delle vittime, che non hanno avuto giustizia. La mia. Ma anche quella di chi è stato indotto a testimoniare il falso». 

    Trentatré anni sono tanti. Una vita. Ovviamente lei ha avuto modo di pensare a cosa sia successo. Che idea si è fatto?
    «Sì, in oltre trent’anni da solo, certo, ho pensato tante cose. Ma davvero non è il momento di parlarne. Tante tessere devono andare ancora a posto per disegnare il mosaico. Ci sarà tempo, spero». 

    Si può avere ancora fiducia nella giustizia?
    «Questa è una domanda difficile. Però le dico di sì. Si deve soprattutto. D’altronde io ne sono la prova. C’è chi ha sbagliato. Ma c’è anche stata la procuratrice Francesca Nanni, che ha avuto dubbi, ha studiato con passione le carte, ha avuto coraggio e ci ha messo il cuore. Non solo per me, ma per la giustizia». 

    È tornato a Burcei, il suo paese. Rimarrà lì?
    «Per il momento sì. Starò qui. Mi sento più protetto e c’è la mia famiglia. Per il resto ho bisogno di tempo per capire. Poi, chissà. Nella vita non si sa mai cosa succede, no?». 

    Cosa farà, se i giudici confermeranno la sua innocenza il prossimo 19 dicembre? Inizia una vita nuova?
    «Se tutto andrà bene, come spero e credo, voglio fare una grande, grandissima festa. Il mio paese la sta già organizzando. Voglio condividere la gioia di essere libero. Una vita nuova? Me lo auguro e la desidero. Però il dolore rimane e quello che è stato non si potrà cancellare. Mi creda». 

    Che ricordo porta via da trentatré anni di carcerazione?
    «Mille ricordi. Sono stati anni molto duri e molto difficili. Il carcere è un mondo diverso e nessuno può capirlo bene se non lo si conosce dall’interno. Dopo ventisei anni, anche gli assassini confessi possono avere la libertà condizionale, se dimostrano di essersi pentiti. Chi è innocente, invece, no. Perché non ci si può pentire di quello che non si è fatto. Curiosa contraddizione. Ma trentatré anni sono troppi, davvero. Lunghissimi. Si rischia di impazzire e bisogna essere forti mentalmente per resistere nell’inferno che delle galere».

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