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    Cassazione: “Dare del ‘frocio’ è sempre diffamazione”

    Di Antonio Scali
    Pubblicato il 24 Mag. 2021 alle 20:04

    I tempi cambiano, senz’altro, ma certe parole non sono mai neutre, restano insulti. È il caso di termini come “frocio” e “schifoso”. Non è vero che alcune parole non hanno più una valenza offensiva, anzi sono lesive della personalità del soggetto a cui sono indirizzate. A stabilirlo con una sentenza è la Corte di Cassazione, che ha confermato la condanna per diffamazione nei confronti di un imputato transessuale processato dalla Corte di Appello di Milano.

    Secondo i giudici della Suprema Corte “sono espressioni che costituiscono una chiara lesione dell’identità personale” e rappresentano un “veicolo di avvilimento”. Un principio che è stato ribadito dalla sentenza 19359 della V sezione penale, pubblicata il 17 maggio 2021. In pratica, la Cassazione ha confermato che chi usa questi termini può essere denunciato e perseguito per diffamazione.

    L’imputato aveva sostenuto su Facebook che un politico locale era omosessuale e di aver intrattenuto con lui “un rapporto sessuale”, apostrofandolo come “frocio” e “schifoso”. Il politico si era risentito ed era passato alle vie legali. Nonostante le condanne in primo e secondo grado, l’imputato ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo che le parole usate “avrebbero ormai perso, per l’evoluzione della coscienza sociale, il carattere dispregiativo”.

    Giudizio diverso per gli ermellini della Suprema Corte. “Le suddette espressioni – spiega la Cassazione – costituiscono invece, oltre che chiara lesione dell’identità personale, veicolo di avvilimento dell’altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate, in ogni dove, dall’attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono, per recare offesa alla persona, proprio ai termini utilizzati dall’imputato”. Il transessuale che aveva rivolto questo epiteto all’uomo con cui avrebbe avuto rapporti a pagamento si è quindi visto rigettare il ricorso e confermare la condanna per diffamazione, oltre al pagamento di tremila euro alla Cassa delle ammende.

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