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    Fontana e il caso camici, spunta la chat tra Dini e la Regione: non fu donazione

    Attilio Fontana Credits: ANSA

    Sfumato l’appalto con la Lombardia, il cognato del governatore cercò di rivendere la partita al Ponte del sorriso

    Di Veronica Di Benedetto Montaccini
    Pubblicato il 30 Lug. 2020 alle 09:12 Aggiornato il 30 Lug. 2020 alle 09:38

    Caso camici Fontana, un sms smentisce la donazione del cognato Dini

    Un messaggio Whatsapp delle 9 del mattino risalente al 20 maggio e un anticipo di 2 ore: sono questi i due elementi su cui si fonda la convinzione dei pm di “un preordinato inadempimento” contrattuale “per effetto di un accordo retrostante” tra la Regione Lombardia e l’imprenditore varesino Andrea Dini (fratello della moglie del presidente della giunta regionale Attilio Fontana), che il 16 aprile era stato affidatario diretto con la propria “Dama spa” di una commessa da 513.000 euro per la fornitura di 75.000 camici e 7.000 set sanitari alla centrale acquisti regionale Aria spa diretta da Filippo Bongiovanni.

    Il cambio di fornitura

    La convinzione è che il suo improvviso tramutare il 20 maggio la “fornitura” in “donazione” – limitata però ai 49.000 camici e 7.000 set sanitari sino allora già forniti, e senza più ulteriore consegna alla Regione dei restanti 25.000 camici pur pattuiti all’inizio dal contratto – sia stata non una sua scelta generosa (per quanto magari affannata dopo la richiesta di Fontana il 17 maggio di soprassedere ai pagamenti per non alimentare polemiche su conflitto di interessi), ma un trucco pianificato sulla scorta di “una rassicurazione ottenuta per il tramite di un accordo stabilito altrove”.

    Caso camici Fontana, lo scambio di messaggi

    Finora, infatti, si credeva che l’ipotesi di reato di “frode in pubbliche forniture” (contestata ai tre) valorizzasse il fatto che, dopo la donazione, Dini avesse cercato di rivendere i 25.000 camici per rientrare in parte del mancato profitto al quale aveva rinunciato con la mail delle ore 11.07 del 20 maggio ad Aria spa: “Come anticipato per le vie brevi, la presente per comunicare che abbiamo deciso di trasformare il contratto di fornitura in donazione. Certi che apprezzerete la nostra decisione, vi informiamo che consideriamo conclusa la nostra fornitura”.

    Ma ora in mano ai pm c’è un Whatsapp di Dini (“Ciao, abbiamo ricevuto una bella partita di tessuto per camici. Li vendiamo a 9 euro, e poi ogni 1000 venduti ne posso donare 100”) nel quale alle ore 8.58 di quel 20 maggio, due ore prima di formulare per la prima volta l’offerta alla Regione di trasformare la fornitura in parziale donazione e contestuale riduzione della restante fornitura, Dini già “offriva in vendita” alla interlocutrice commerciale E.R. “i camici non consegnati ad Aria spa, a riprova di una rassicurazione ottenuta per il tramite di un accordo divisatosi aliunde”.

    25mila camici sequestrati

    In pratica, se Dini cercava di vendere i 25.000 camici già due ore prima di proporre alla Regione la donazione, e dunque a maggior ragione senza nemmeno sapere se la Regione l’avrebbe poi accettata (cosa che formalmente non accadrà mai), era perché Dini era già sicuro, per sottostanti accordi con qualcuno in Regione, di poter contare sul fatto che la Regione non pretendesse più i 25.000 camici restanti. Ovvio che il Whatsapp avrebbe questo valore solo se offerti fossero davvero stati quei camici della fornitura regionale, e non altri: ascoltata come teste, il 18 giugno la donna ha rafforzato questa interpretazione dei pm, aggiungendo che invece in aprile Dini le aveva detto “di dover vendere alla Regione in forza di un contratto in via esclusiva”.

    Il sequestro probatorio in Dama spa dei 25.000 camici “corpo del reato” (proprio quelli del lotto regionale) non impensierisce il legale di Dini, Giuseppe Iannaccone, anzi “contento che i pm abbiano fatto queste verifiche perché dimostrano che i camici sono sempre stati in magazzino e mai c’è stata alcuna rivendita. Confido che questi accertamenti possano accelerare le indagini e chiarire ciò che io so molto bene, e cioé che Dini è una persona specchiata”.

    Il bonifico mancato

    Il tentativo di Fontana di “risarcire”  il cognato il 19 maggio con un bonifico di 250.000 euro, viene inquadrata come una tecnica  “segnalata sospetta” da Unione Fiduciaria e bloccata: dal conto svizzero Ubs “a nome della fiduciaria italiana a un conto omnibus intestato alla fiduciaria presso la Banca Popolare di Sondrio”, e da qui alla società di Dini. Senza mai che Fontana comparisse in “un trasferimento formalmente disposto da una società fiduciaria (ma di fatto da Fontana) tramite un’operazione domestica (ma di fatto proveniente da un conto estero)”.

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