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    Caracciolo a TPI: “A Est guardano la storia, noi l’abbiamo dimenticata. Biden? Pensa alle elezioni”

    Credit: Ansa

    "L’Ue è un tentativo di ripartire patrocinato dagli Usa dopo i disastri che abbiamo fatto nelle due guerre mondiali. A Est invece tutti, da Putin a Zelensky, cercano di legittimarsi rispetto al passato"

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 27 Mag. 2022 alle 10:54 Aggiornato il 27 Mag. 2022 alle 11:11

    Come vanno i numeri di Limes sulla guerra?
    «Non posso nascondere una certa soddisfazione».

    Cioè?
    «L’ultimo rilevato, il numero scorso fissa il nostro record: 150mila copie».

    Come spieghi il risultato?
    «Tra i cittadini e tra i lettori – al contrario di quel che si dice – c’è enorme desiderio di leggere e di conoscere. E soprattutto: di capire».

    E poi?
    «Faccio una constatazione che può sembrare scontata, ma non lo è: questa guerra viene percepita come vicinissima a noi. Molto più dell’Iraq, che aveva fissato il nostro record precedente, più della ex Jugoslavia».

    E poi? Cosa c’era in particolare in quel numero?
    «È andato esaurito due volte, ma – ad esser sincero – è un numero che mi pare bello esattamente come il precedente e il successivo».

    E allora?
    «Ci sono momenti in cui si raccoglie in un solo giorno quello che si è seminato in venti anni».

    Molti onori, e anche critiche. Ti arrabbi perché ti definiscono «amico di Putin»?
    «Posso essere sincero?

    Devi.
    «La risposta è: zero».

    Non ti senti offeso?
    «L’accusa non mi tocca. Proprio il successo del lavoro, in questi mesi, ci dice che il nostro approccio non ideologico agli eventi è parte della formula segreta di Limes».

    Segreta perché non la riveli a nessuno?
    (Ride). «Segreta perché chi ci attacca evidentemente non la conosce. La racconteremo solo ai lettori di questa intervista».

    Incontro Lucio Caracciolo nella sede di Limes, nel grande Palazzone di Largo Fochetti a Roma. I numeri della rivista, accatastati dietro la sua scrivania, costituiscono, con le annate impilate, una montagna di carta. Chiedo a Caracciolo quando ha immaginato una rivista grande come un almanacco e corposa come un libro. Lui sorride con il suo leggendario understatement, estrae un numero del 1996, sorride: «Infatti il modello non l’ho immaginato io. L’ho copiato, dai francesi di Hérodote. E poi ci abbiamo aggiunto del nostro».

    Per mezzo secolo ti hanno detto che era troppo facile diventare direttore nel gruppo editoriale di tuo zio.
    «La cosa mi ha sempre divertito: come sai, non ho nessuna parentela con il mio editore Carlo Caracciolo».

    Non sei nobile?
    «Mio padre rinunciò al predicato. A Napoli, con una sintesi geniale, si dice: “Ci sono più Caracciolo della monnezza”. La mia era una normalissima famiglia di intellettuali agiati e di estrema sinistra».

    Cosa facevano i tuoi?
    «Entrambi professori universitari: papà storico dell’economia e mamma storica del diritto».

    Dove hai studiato?
    «Le medie in una scuola svizzera, a Roma».

    E poi?
    «Il classico al Tasso, dove ho avuto la fortuna di entrare nell’indimenticabile biennio 1967-1968».

    Molti di quella generazione sono diventati politici e giornalisti.
    «Mi ricordo bene Paolo Gentiloni, che stava nel movimento studentesco, e un giovane monarchico, che poi era Antonio Tajani».

    E tu?
    «Ero un normalissimo “figiciotto”, ovvero un giovane comunista italiano, insieme al mio amico Marco Magnani e molti altri. Nella nostra cellula c’era anche un giovane Walter Veltroni, solo un anno più piccolo di me. Nel movimento degli studenti c’era una splendida e brillante ragazza: Lucrezia Reichlin».

    Lo dici con un entusiasmo da ex corteggiatore?
    «Casomai con il rammarico di non esserlo stato: eravamo coetanei, ma purtroppo con lei non avevo speranze».

    Che bambino eri?
    «Un figlio di professori che mi tormentavano con continui inviti alla lettura. Quando hanno smesso ho iniziato a leggere davvero, con enorme piacere personale».

    Cosa immaginavi del tuo futuro da ragazzo?
    «Non avevo la più pallida idea di che avrei fatto».

    Fratelli?
    «Uno, più piccolo».

    Come e perché sei diventato giornalista?
    «Nella Fgci di Renzo Imbeni, che mi distaccò a Nuova Generazione, il nostro settimanale, con regolare stipendio».

    Era il 1975: quanto guadagnavi?
    «Non poco: 300mila lire. Più l’indimenticabile buono alimentare natalizio da spendere alla cooperativa La Proletaria».

    Non si scherzava.
    «È tecnicamente giusto dire di me: “pagato da Mosca”».

    Attento che di questi tempi ti prendono alla lettera.
    «È la verità!».

    Poi hai l’onore di partecipare alla fondazione di la Repubblica
    «Raccomandato».

    Che dici?
    «La verità. Sono amico di Enrica, la figlia di Eugenio Scalfari, che mi segnalò a suo padre».

    Che ricordo hai di quei giorni?
    «Una indimenticabile e febbrile atmosfera: avventurosa, direi».

    Detto così sembra un romanzo salgariano.
    «Non si potrebbe raccontare quel giornale senza il carisma dominante, elegante, trascinante, assoluto, di Eugenio».

    Tu stavi al cosiddetto “Rotor”.
    «Un servizio fatto tutto da giovani, guidato da quel gentiluomo di Gianluigi Melega. Eravamo tutti più o meno di sinistra, ma ciascuno pensava con la propria testa. Pensavano quel giornale gente come Miriam Mafai, Carlo Rivolta, Giorgio Rossi, Mario Pirani. Io ero l’ultima rotella».

    Cos’hai imparato da Melega?
    «Tutto: lavorare veloce, usare la scrittura giornalistica».

    Fai carriera nella macchina. A 30 anni caposervizio al politico.
    «Ho seguito ogni spiffero del Palazzo, passando giornate a compulsare fonti e comunicati: poi ho voluto cambiare».

    Nel 1985 passi a MicroMega, guidato da Paolo Flores D’Arcais e Giorgio Ruffolo.
    «Altra scuola, arricchita dalla differenza di idee e formazione dei due. Me ne vado nel 1993».

    E chiedi a Caracciolo di fondare una rivista.
    «Ero affascinato dal modello di Hérodote. E dalla figura di Michel Korinman, che mi propose di lanciare quell’impresa».

    Che tu però hai contaminato.
    «Con l’esperienza di MicroMega. Un doppio credito».

    Era il 1993: dopo la caduta del Muro, il mondo si era rimesso in moto.
    «Era scoppiata la guerra in Jugoslavia. L’urgenza degli eventi, come spesso accade, ci fece crescere molto velocemente. Il primo numero fu ristampato».

    E tu cosa pensasti quel giorno?
    «Che se fossimo nati dieci anni prima avremmo chiuso subito».

    Ah ah ah.
    «Nel 1989 finiva un racconto cartesiano della storia, segnato dalle dicotomia della guerra fredda, bianco-nero, bene-male. Per passare al caos».

    Da bimestrale diventate mensile. Siete stati i padri della geopolitica in Italia.
    «L’influenza più grande, su di me, l’ha avuta uno straordinario intellettuale francese, Yves Lacoste. Il geografo eclettico che ha inventato la nuova disciplina».

    Tutti oggi abusano della parola, ma cos’è la geopolitica?
    «Una scienza che si basa sull’analisi di conflitti in spazi definiti, e sulla capacità di interpretare i sentimenti e le idee che animano i protagonisti».

    Vi accusano di relativismo.
    «Bene. La geopolitica si basa proprio su punti di vista diversi: sulla capacità di entrare nelle scarpe e nella testa degli attori per capire come si comportano in base alle loro convinzioni».

    Anche in questo conflitto?
    «Soprattutto. Tutti, a partire da Putin e da Zelensky, cercano di legittimarsi sulla base della storia. Il nuovo nazionalismo in Europa orientale nasce da questa febbre».

    In Europa occidentale no?
    «Noi siamo stati educati a dimenticare la storia».

    Perché?
    «Eravamo gli sconfitti della Seconda Guerra Mondiale. Abbiamo fatto così tanti disastri, in due guerre, che la stessa Unione europea è un tentativo di ricominciare da capo, patrocinato dagli americani».

    Fammi un esempio di perseveranza di memoria?
    «In Polonia, quando parli di Ucraina, prova a nominare Leopoli! Nel 1919 si sono massacrati su quelle frontiere: lì è come se fosse ieri».

    Oppure?
    «A Budapest trovi le carte della “Grande Ungheria” nei bar. In Russia usano la cartografia sovietica e zarista come strumento di lotta politica».

    Per non dire dei Balcani.
    «La guerra jugoslava era basata sul fatto che gli jugoslavi non esistevano più. C’erano solo la grande Croazia, la Grande Serbia, la grande Albania…».

    E noi?
    «La nostra Costituzione materiale è il trattato di pace del 1947. Ci siamo illusi, attraverso la Resistenza, di avere ottenuto un ruolo nel campo dei vincitori. Ma dopo la guerra perdiamo tutte le colonie e anche qualche pezzettino di Italia. Noi per il mondo siamo quelli dell’armistizio e della capitolazione».

    Faresti contento un nostalgico dell’impero mussoliniano…
    «È un fatto. L’Italia, fino all’entrata in guerra del 1940, era una potenza. Poi, da sconfitti, siamo diventati uno Stato a sovranità limitata. E questo spiega anche l’Italia delle stragi».

    Esiste oggi un rischio di revisionismo?
    «Dal punto di vista tecnico il revisionismo è il sale della storia. Ma da noi se ne fa un uso politico e strumentale. Mettere i fascisti sullo stesso piano dei partigiani è inaccettabile».

    Come si trova un punto di equilibrio?
    «Per me è fondamentale sapere che non c’è una verità definitiva. Scorretto è usare la storia per usi politici».

    Fammi un esempio.
    «Che si arrivi a parlare del fascismo e del nazismo come di fenomeni accettabili».

    Anche in questo conflitto.
    «Pensa: il neonazismo ucraino era fondamentalmente nazionalista e anti-russo. Con effetti paradossali».

    Quali?
    «Per i nazisti la conquista dell’Ucraina era l’assoggettamento di una specie inferiore. Erano ideologicamente razzisti. E trattarono gli ucraini da subumani».

    Questo Limes adulto quanto è diverso dal Limes bambino?
    «Era già una bella rivista. Oggi, forse, la parte storica è più approfondita».

    A cosa serve Limes, se devi spiegarlo ad un ragazzo?
    «Se guardi solo la televisione questa guerra è una orribile serie di fatti di cronaca. Invece affonda in un passato secolare. Una radice che è la disintegrazione dell’impero russo, iniziata dopo la Prima Guerra Mondiale, e ancora in atto».

    E il caso Putin?
    «Una sfida: mi obbliga a riflettere su un limite del nostro modo di ragionare».

    Cioè?
    «Nella pubblicistica contemporanea si dà troppo rilievo ai capricci di singole personalità».

    Quindi è una guerra russa e non solo di Putin.
    «Vero. Ma ci sono anche le personalità, figlie di una storia, che talvolta hanno il potere di deviare il suo corso. Putin ha avuto la possibilità di decidere da solo. Per questo nell’ultimo di Limes raccontiamo alcuni caratteri della biografia di Putin decisivi per capire cosa sta accadendo».

    Che intendi?
    «Ho solo una certezza: di questa guerra, oggi, sappiamo ancora troppo poco».

    Ovvero?
    «Putin ha fatto degli errori madornali: non ha compreso i rapporti di forza in campo: il che, per un’ex spia, è un errore gravissimo».

    Anche lui impelagato nella memoria.
    «Vedi che si torna lì? Per lui la storia dell’Ucraina e della Russia comincia con il battesimo del principe Vladimiro nel 988 a Kiev. E poi l’orgoglio imperiale. Ha portato i russi dentro una guerra che pensava di risolvere rapidamente e che minaccia di portare il suo Paese alla caduta».

    E la Nato?
    «Questa guerra per gli americani deve finire solo con il crollo di Putin. Ma c’è un rischio enorme».

    Quale?
    «In Russia, quando un regime crolla, crolla anche lo Stato».

    E Biden?
    «Servirebbe un leader con un respiro più grande del voto di mid-term».

    Il discorso di Putin dei 50 minuti sembrava scritto per voi di Limes.
    «Putin vede Lenin come uno che ha tradito, un agente tedesco che ha fatto un colpo di Stato».

    Torniamo al segreto di Limes.
    «C’è un piccolo nucleo efficientissimo di collaboratori, molti dei quali miei ex studenti. E poi una formidabile rete di esperti, in tutto il mondo».

    Perché Limes non ha un concorrente “di destra”?
    «Non credo che sia una rivista di sinistra. Io sono “di sinistra”, personalmente, ma il nostro giornale non ha un punto di vista politico».

    Perché?
    «La geopolitica non è politica, e non deve mai diventarlo. Devi capire le ragioni e le motivazioni di tutti i contendenti».

    Quindi non puoi avere un concorrente di destra?
    «Se ne avessi cinque sarei felice. Pensa che quando siamo nati alcuni teorizzarono che la geopolitica fosse una disciplina fascista».

    Come mai?
    «Il fascismo creò una mitologia della geopolitica. E una rivista, con questo nome, voluta da Bottai».

    Un’operazione culturale.
    «Era diretta da Massi e Roletto: e voleva dare una giustificazione geopolitica al fascismo».

    Hai incontrato l’ex direttore.
    «E mi ha detto una cosa del tipo: “Un complotto giudaico-pluto-massonico governa il mondo”».

    Due anni fa avete aperto anche una scuola!
    «Devo dire grazie ai 200 iscritti e agli ex alunni che ci continuano a seguire».

    Quale potrebbe essere il vostro motto ideale?
    «“Ama il tuo nemico”, dal Vangelo di Matteo».
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