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    Alviero Martini in amministrazione giudiziaria: “Borse di lusso fabbricate da lavoratori cinesi sfruttati”

    Di Marco Nepi
    Pubblicato il 18 Gen. 2024 alle 12:13 Aggiornato il 18 Gen. 2024 alle 12:14

    Alviero Martini in amministrazione giudiziaria: “Borse di lusso fabbricate da lavoratori cinesi sfruttati”

    Avrebbe massimizzato i profitti “facendo ricorso a manovalanza in nero e clandestina”. È quanto emerge da un’indagine sui fornitori dell’azienda dell’alta moda Alviero Martini, sottoposta dal tribunale di Milano ad amministrazione giudiziaria.

    Nell’indagine della procura di Milano l’azienda di borse e accessori, celebri per le mappe geografiche disegnate, è stata ritenuta “incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo”. In particolare si sarebbe avvalsa, come ultimo anello della catena produttiva, di opifici in cui venivano sfruttati lavoratori cinesi.

    L’indagine dei carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro e del pm Paolo Storari ha appurato “una connessione tra il cosiddetto mondo del lusso da una parte e quello di laboratori cinesi dall’altra, con un unico obiettivo: abbattimento dei costi e massimizzazione dei profitti attraverso l’elusione di norme penali giuslavoristiche”.

    Un sistema che, secondo le indagini “consente di realizzare una massimizzazione dei profitti inducendo, con il classico sistema ‘a strozzo’ l’opificio cinese che produce effettivamente i manufatti”, ossia borse ed accessori, “ad abbattere i costi da lavoro (contributivi, assicurativi e imposte dirette) facendo ricorso a manovalanza ‘in nero’ e clandestina, non osservando le norme relative alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché non rispettando i Contratti Collettivi Nazionali Lavoro di settore riguardo retribuzioni della manodopera, orari di lavoro, pause e ferie”.

    Stando alle indagini, per un prodotto venduto sul mercato a 350 euro l’opificio cinese si sarebbe fatto pagare 20 euro. Seguendo la catena dei subappalti, secondo gli investigatori, l’azienda avrebbe pagato il prodotto finale 50 euro per poi venderlo a 350 euro.

    In una delle società appaltatrici, un operaio ha anche perso la vita in un incidente sul lavoro. Nei capannoni della ditta di Trezzano Sul Naviglio, nel Milanese, un lavoratore di 26 anni, originario del Bangladesh, è morto schiacciato dalla caduta di un macchinario. Ma, “per camuffare l’effettivo status di lavoratore in nero” dell’operaio, il giorno dopo la società “ha inviato il modello telematico di assunzione al Centro per l’impiego e agli enti contributivi e assicurativi Inps ed Inail”.

    Secondo l’inchiesta, l’impresa non avrebbe “mai effettuato ispezioni o audit sulla filiera produttiva per appurare le reali condizioni lavorative” e “le capacità tecniche delle aziende appaltatrici tanto da agevolare (colposamente) soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato”.

    “Con riferimento alla notizia di stampa riferita alla nostra società, l’Alviero Martini comunica di essersi messa tempestivamente a disposizione delle autorità preposte, non essendo peraltro indagati né la Società né i propri rappresentanti, al fine di garantire e implementare da parte di tutti i suoi fornitori, il rispetto delle norme in materia di tutela del lavoro”. Lo ha scritto Alviero Martini spa in un comunicato. “Si ribadisce in ogni caso che tutti i rapporti di fornitura della Società sono disciplinati da un preciso codice etico a tutela del lavoro e dei lavoratori al cui rispetto ogni fornitore è vincolato. Laddove emergessero attività illecite effettuate da soggetti terzi, introdotte a insaputa della Società nella filiera produttiva, assolutamente contrari ai valori aziendali, si riserva di intervenire nei modi e nelle sedi più opportune, al fine di tutelare i lavoratori in primis e l’azienda stessa”.

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