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“Contrabbandiamo la nostra felicità in cambio della sicurezza”: intervista a Massimo Recalcati

Di Vincenzo Fiore
Pubblicato il 24 Dic. 2019 alle 14:54 Aggiornato il 25 Dic. 2019 alle 11:43

Il mentale, come scriveva Freud in Psicologia delle masse, non è mai separabile dal sociale, la psicologia individuale non può mai essere sganciata da quella dei collettivi. Partendo da questo assunto, è possibile addentrarsi nel nuovo libro di Massimo Recalcati Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno (Raffaello Cortina Editore, 2019). Un libro che racconta il passaggio dal paradigma libertino del consumatore iper-moderno a quello securitario, dove l’esistenza viene spinta a chiudersi su se stessa e l’eccessiva domanda di protezione genera muri. La pulsione acefala e senza limiti della ricerca di sensazioni e di nuovi oggetti, viene sostituita così da un movimento regressivo di barricamento e di ritiro sociale. In esclusiva per TPI, Recalcati ci racconta di un tempo che sembra adagiarsi troppo comodamente nelle ombre della paura. 

Il neo-liberismo, la globalizzazione, la perdita dei punti di riferimento e l’assenza di confini ben definiti sono tutti elementi che hanno prodotto un sentimento generale di angoscia, che si sta traducendo in una richiesta sempre crescente di sicurezza. Quali rischi si nascondono dietro questa domanda di protezione?

Quelli di chiudere la vita in un desiderio di autoconservazione che può ribaltarsi nel suo contrario. La vita che protegge se stessa, la vita che situa nella protezione della vita la unica meta della vita, è una vita che perde fatalmente se stessa. Da una parte dobbiamo riconoscere che la spinta alla protezione descrive il moto primario della pulsione; dall’altra parte dobbiamo riconoscere che quando questo moto non si intreccia con Eros, con la pulsione di vita, si rivela, appunto, solo come pulsione di morte, pulsione autodistruttiva.

Lei scrive che è sempre più difficile associare la vita al senso, l’esistenza non viene più sperimentata come apertura, desiderio o trascendenza, ma è spinta a chiudersi su se stessa. Si assiste sempre più a un movimento regressivo di barricamento e a fenomeni di ritiro sociale. Perché i giovani sembrano essere la categoria più colpita da tutto questo?

La giovinezza dovrebbe essere la massima espressione della vitalità del desiderio. Invece i fenomeni di fobia sociale che si stanno diffondendo in modo epidemico stanno travolgendo proprio le nuove generazioni. Manca una trasmissione efficace del desiderio nel processo di filiazione. Il dominio della pulsione neo-libertina ha saccheggiato l’esperienza spogliandola di verticalità. Ora la tendenza è quella di una pulsione claustrale, conventuale; è il ritorno dall’ingovernabilità dell’esistenza.

Se nel paradigma della clinica del vuoto il personaggio principale è la «pulsione senza argine», in quello della clinica securitaria vi è il paradosso di un «argine senza pulsione», o meglio, lei afferma, l’argine sembrerebbe trasformarsi come il nuovo oggetto della pulsione. In che modo la chiusura, la prigione, vengono elevate a forma di godimento? Inoltre, può esservi un rapporto di coesistenza fra le due cliniche nello stesso soggetto? 

È quello che definisco come “desiderio fascista”, o, meglio, come la tendenza primariamente fascista del desiderio. È una tendenza scabrosa immanente al desiderio. Il rifiuto della differenza intesa come minaccia e difformità, l’equivalenza dell’alterità del mondo, della sua natura straniera, con l’ostilità, per usare le parole di Freud. Questa inclinazione “nera” del desiderio si manifesta nella “assetata obbedienza” delle masse del Novecento, nel contrabbandare la propria felicità, come direbbe sempre Freud, in cambio della propria sicurezza. 

Le due cliniche a cui lei si riferisce, ovvero la clinica del vuoto – “pulsione senza argine” – e la clinica securitaria – “argine senza pulsione” – non sono da pensare in una relazione di semplice successione. Si tratta piuttosto di una oscillazione che il nostro tempo evidenzia con forza: la pulsione neolibertina s’intreccia paradossalmente con quella securitaria. Sono l’ennesima versione del paradosso perverso del Super io che se da una parte esige il rigore melanconico di una Legge morta, dall’altra parte sospinge ad un godimento privo di Legge.

Come si fa a distinguere una clinica della melanconia da una clinica della nevrosi?

Nella clinica della nevrosi al centro abbiamo sempre il conflitto tra Legge e desiderio; il soggetto tende a cedere sul proprio desiderio nel nome della Legge. Il sintomo nevrotico è l’esito di questo conflitto; Legge e desiderio si avvitano in una formazione di compromesso. La clinica della melanconia è piuttosto una clinica dello spegnimento o dell’assenza del desiderio. Al suo centro non c’è alcun conflitto, ma la carenza del sentimento della vita. Per il melanconico il desiderio è impossibile. 

La nuova clinica della melanconia – lei spiega – mette in rilievo non l’uomo senza inconscio, bensì l’esistenza di un «inconscio fascista». Potrebbe entrare nel dettaglio di questa espressione? 

Come dicevo esiste una tendenza primaria (inconscia) della pulsione a difendere i propri argini. Freud ci offre diverse versioni di questo autismo primordiale della pulsione. L’esistenza tende a custodire il proprio guscio, a presidiare il proprio confine. L’inconscio fascista è l’inconscio come pulsione securitaria. Pulsione che contraddice l’apertura del desiderio, la sua Ek-sistenza, come direbbe Heidegger. L’inconscio fascista mostra che l’odio per l’Altro viene prima dell’amore perché l’Altro è incarnazione di una ostilità irrecuperabile in quanto perturbatrice dell’identità sovrana dell’apparato psichico.

È corretto sostenere che questo testo dimostra l’estrema attualità del pensiero di Freud? 

Il concetto più attuale di Freud è quello che fu più osteggiato, è il concetto di pulsione di morte. Con questo concetto egli mostra che la vita non è solo volontà di vita ma anche tendenza a rifiutare la vita, spinta a rigettare l’inquietudine della vita. È il cuore nero dell’inconscio fascista che, occorre precisare, non riguarda i fascisti ma gli esseri umani come tali… 

Attraverso una lunga disamina che si apre con il desiderio e la perversione, lei approda al discorso, per dirla alla Marx, a quell’oggetto che non è oggetto: cioè il denaro. Non siamo noi a possedere il denaro, ma è il denaro a possederci. Nel culto della nuova religione – che come scriveva Benjamin non conosce giorni che non siano festivi – si divora tutto alla ricerca di un appagamento che non sarà mai totale. Se l’analisi a questa che lei definisce bulimia del denaro è psicoanalitica, la risposta potrebbe essere politica? 

Non so. La psicoanalisi rivela che il denaro è un oggetto pulsionale. La pulsione neolibertina ha accentuato l’eccesso, lo sperpero, il dispendio, per dirla con Bataille, del denaro contraddicendo il suo carattere anale messo in luce da Freud e ripreso, a suo modo, da Weber. La politica dando un orientamento al programma della Civiltà non ha solo il compito di imbrigliare la pulsione limitandone gli eccessi, ma anche quello di offrire diverse possibili canalizzazioni della pulsione stessa. Per esempio quella della sublimazione. Il destino sublimatorio della pulsione viene scoraggiato proprio dall’idolatria del denaro che offre l’illusione di una soddisfazione immediata, senza differimento, della pulsione.

Accanto alle due grandi umiliazioni narcisistiche, quella cosmologica di Copernico e quella biologica di Darwin, che hanno ridimensionato la posizione dell’uomo all’interno del mondo e della storia, lei aggiunge quella psicologica di Freud. Il medico austriaco ha svelato come l’Io sia esiliato nella propria terra, secondo la celebre formula: «Non è padrone a casa propria». Come deve porsi la psicoanalisi, oggi, dinanzi all’ingovernabile? 

Questo è un contributo importante che la psicoanalisi può dare alla politica. Il problema non è mai quello di ridurre il carattere anarchico dell’ingovernabile, non è mai la pretesa di governare ogni cosa. Non a caso Freud riteneva che lo psicoanalizzare e il governare, insieme all’educare, fossero pratiche impossibili. Il punto è dare una forma all’ingovernabile, una forma provvisoria, ma unam forma. Ma per dare una forma all’ingovernabile bisogna fare amicizia con l’ingovernabile…. Non pretendere di scongiurare la sua presenza ma saper entrare in rapporto.

Nel 2020 andrà in onda su Rai 3 Lessico civile, programma dove lei tratterà di temi quali: confini, odio, ignoranza, fanatismo e libertà. Se dovesse scegliere una sola parola per descrivere la nostra contemporaneità? 

Tenebre.

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