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    Discarica Italia: così il nostro Paese è diventato il paradiso dei veleni

    A Trissino (VI), le donne del movimento Mamme no Pfas nel bosco a ridosso della Miteni, la fabbrica (visibile sullo sfondo) responsabile del disastro provocato dagli scarichi inquinanti. Credit: AGF

    L'Italia è teatro del peggior inquinamento da Pfas d’Europa. Sostanze nocive usate da 70 anni in centinaia di processi industriali. Ma la politica ha deciso di non intervenire. Malgrado l’impatto sull’acqua, sul cibo e sulla salute di migliaia di persone

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 1 Apr. 2023 alle 07:00

    Sono chiamati gli “inquinanti eterni” per la loro capacità di rimanere a lungo nell’ambiente. In Italia si contano più di 1.600 siti contaminati, oltre 17mila in tutta Europa: sono i Pfas. Sono ovunque e si sono diffusi anche là dove non avremmo voluto, nell’acqua, nel cibo, nel sangue, nell’ambiente. Possono essere considerati come un velo che si è adagiato per sempre sul nostro pianeta. Ma cosa sono nello specifico? La sigla indica Sostanze Perfluoro Alchiliche (acidi perfluoroacrilici): si tratta di una classe di sostanze chimiche estremamente nocive per la salute e l’ambiente ma utilizzate da 70 anni in centinaia di processi industriali. Sono impiegati per produrre molti materiali impermeabili, ignifughi o antiaderenti, ma anche nella concia delle pelli, nella produzione di tappeti, per carta e cartone per uso alimentare (per le caratteristiche oleo e idrorepellenti), per l’abbigliamento tecnico.

    Le classi di Pfas più diffuse sono il Pfoa (acido perfluoroottanoico) e il Pfos (perfluorottanosulfonato): quest’ultimo è usato per esempio nelle schiume antincendio. Pfoa e Pfos (8 atomi di carbonio) hanno un’elevata persistenza nell’ambiente (oltre 5 anni), mentre altri Pfas a catena corta (4-6 atomi di carbonio) hanno una persistenza ridotta, misurabile in qualche decina di giorni.

    Da quando sono state rilevate concentrazioni particolarmente elevate nel sangue della popolazione di alcuni comuni del vicentino, i Pfas sono diventati tristemente famosi. Già nel 2007 uno studio (poi pubblicato sulla rivista Analytical and Bioanalytical Chemistry) aveva rilevato l’elevata presenza di Pfas nel Nord Italia. Nel 2013, poi, uno studio del CNR aveva individuato nei comuni compresi tra Padova, Vicenza e Verona elevate concentrazioni di queste sostanze.

    L’Associazione italiana medici per l’ambiente (Isde) parla espressamente di «emergenza sanitaria» per quanto riguarda la contaminazione da queste sostanze. I Pfas, infatti, sono associati a diverse patologie oncologiche e non. Si ritiene che intervengano sul sistema endocrino, compromettendo crescita e fertilità, e che siano cancerogeni. Non si tratta di sostanze dagli effetti immediati: si ritiene invece che la lunga esposizione sia in relazione con l’insorgenza di tumori a reni e testicoli, lo sviluppo di malattie tiroidee, ipertensione gravidica e coliti ulcerose. Alcuni studi hanno ipotizzato una relazione tra le patologie fetali e gestazionali e la contaminazione da queste sostanze.

    Se smaltiti illegalmente o non correttamente nell’ambiente, i Pfas penetrano facilmente nelle falde acquifere e, attraverso l’acqua, raggiungono i campi e i prodotti agricoli, e perciò gli alimenti.

    Ad alte concentrazioni sono tossici non solo per l’uomo, ma per tutti gli organismi viventi: queste sostanze tendono infatti ad accumularsi nell’organismo attraverso processi di bioamplificazione (che avvengono quando gli organismi ai vertici della piramide alimentare ingeriscono quantità di inquinanti superiori a quelle diffuse nell’ambiente).

    In Italia, teatro del più grande caso di inquinamento da Pfas nel continente europeo, la politica ha deciso di non intervenire sul tema nonostante ci siano impatti sull’acqua, sugli alimenti e sulla salute di migliaia di persone. Sono passati quindici anni dal primo allarme, rimasto in larga parte inascoltato, sulla contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) negli alimenti prodotti in alcune aree del Nord Italia. Nonostante le prime allerte siano state trasmesse al ministero dell’Ambiente e all’Istituto Superiore di Sanità già nel 2007, ancora oggi non abbiamo un quadro chiaro sul rischio sanitario derivante dal consumo di alimenti provenienti dalle zone inquinate. La ragione? Una serie di ritardi, indagini parziali – o mai fatte – e negligenze istituzionali.

    Il primo allarme
    A marzo 2007 all’Istituto Superiore di Sanità arriva un’e-mail da parte del professor Michael McLachlan, docente di Chimica dei contaminanti dell’Università di Stoccolma. McLachlan sta infatti coordinando il progetto europeo “Perforce” e per un anno ha analizzato la presenza dei composti perfluoroalchilici (Pfas) nei sette fiumi più grandi d’Europa. Dalle sue analisi, emerge che il Po risulta il più inquinato tra i corsi d’acqua presi in considerazione.

    Nel nostro Paese solo nel 2013 vengono rese pubbliche maggiori informazioni sulla contaminazione da Pfas. Il 28 marzo 2013, i ricercatori di IRSA-CNR consegnano al ministero dell’Ambiente il dossier finale sui principali bacini idrici italiani. Il Po risulta il più inquinato e per la prima volta sono segnalate le fonti idriche potabili delle province di Vicenza, Verona e Padova come principale veicolo di diffusione della contaminazione.

    A settembre 2020, complice la definizione di un quadro sempre più chiaro ed esaustivo circa le conseguenze sulla salute umana dei Pfas, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) pubblica i nuovi valori di riferimento per quattro molecole. Oltre Pfos e Pfoa vengono aggiunti Pfhxs e Pfna e il limite complessivo fissato è 4,4 ng/kg di peso corporeo a settimana. Una soglia che stravolge tutti i calcoli fatti fino a quel momento.

    In uno degli ultimi bollettini tecnici interni dell’Iss, diffuso a novembre 2021, viene dedicato un capitolo proprio alla situazione del Veneto. Nel documento si legge: «L’esposizione della popolazione generale ai Pfas avviene in massima parte per via alimentare, attraverso il consumo di alimenti e acqua. Gli alimenti vegetali possono venire contaminati dal terreno e dell’acqua utilizzati per coltivarli, quelli di origine animale dai Pfas concentratisi nell’organismo animale tramite l’acqua e/o i mangimi».

    Secondo un accurato report stilato da Greenpeace Italia manca un quadro chiaro ed esaustivo sulla contaminazione da Pfas negli alimenti – non solo provenienti dalla Regione Veneto – ma più in generale a livello nazionale, inclusa tutta l’area del Po. Nonostante i numerosi allarmi sollevati in seguito all’esito di studi e monitoraggi, ad oggi non sono stati presi provvedimenti per tutelare la salute pubblica, ad eccezione del divieto di pesca nella zona rossa in Veneto.

    Timidi passi avantiPFAS
    Solo di recente, l’Europa ha fatto un passo avanti verso la messa al bando dei Pfas. L’Agenzia europea delle sostanze chimiche (Echa) ha appena aperto una consultazione pubblica fino al 25 settembre 2023 per raccogliere pareri e commenti sulla proposta di mettere fuori commercio 10mila tipi di sostanze per- e poli-fluoroalchiliche. L’iniziativa è supportata da 5 Stati – Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia – e dovrebbe approdare alla Commissione europea nell’ultimo trimestre dell’anno, una volta raccolti gli input della consultazione pubblica.

    Se la proposta dei 5 Paesi per mettere al bando i Pfas andrà in porto, sarà una delle più corpose restrizioni all’uso di sostanze chimiche di sempre in Europa. L’agenzia con sede in Finlandia, peraltro, ha stimato che circa 4,4 milioni di tonnellate di sostanze Pfas non degradabili finiranno nell’ambiente europeo nei prossimi 30 anni.

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