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    La grande bugia della Cop26: il racconto da Glasgow

    Credit: REUTERS/Russell Cheyne

    Le promesse sul clima si fondano sullo sfruttamento delle risorse del sud del mondo da parte dei Paesi ricchi (e inquinanti). Sull’ottavo numero di The Post Internazionale (TPI), in edicola venerdì 5 novembre, la storia dell’inviato sul campo alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima

    Di Andrea Rizzi
    Pubblicato il 4 Nov. 2021 alle 18:38 Aggiornato il 5 Nov. 2021 alle 08:23

    Il giorno precedente l’inaugurazione della Cop26, la natura si è letteralmente messa di traverso: alberi caduti sui binari hanno messo fuori uso varie arterie ferroviarie britanniche, tra cui quella che mi avrebbe portato – come centinaia di altri giornalisti, delegati e attivisti – verso Glasgow.

    Pur senza voler attribuire volontà antropomorfe alle piante, è impossibile ignorare il valore emblematico dell’episodio: fenomeni climatici sempre più violenti e frequenti, abbinati alla scarsa adattabilità delle infrastrutture umane, mettono a rischio le nostre attività quotidiane e – nel peggiore dei casi – la nostra vita.

    Così, mentre i leader mondiali, nei padiglioni militarizzati di G20 e Cop26, giocano a “lascia o raddoppia” con impegni finanziari che non onoreranno, la realtà presenta il conto, e la gente se ne accorge: secondo uno studio del Pew Research Center, in gran parte del mondo occidentale tre persone su quattro temono di subire personalmente le conseguenze del cambiamento climatico, con percentuali in costante aumento.

    Intanto c’è un Paese insospettabile, in Africa Occidentale, che può guardare il resto del mondo dall’alto in basso: è il Gambia, l’unico, tra quelli analizzati dal consorzio Climate Action Tracker, arrivato a Glasgow con impegni in linea con i target di Parigi. Grande quanto l’Abruzzo, dove fino all’inizio del secolo scorso pascolava ancora l’elefante (tanto da essere raffigurato sullo stemma nazionale), prima che la caccia sconsiderata di epoca coloniale ne sterminasse gli ultimi esemplari. 

    Ci vorrebbe proprio un elefante, con la sua proverbiale memoria, per raccontarci come non solo i problemi ecologici, ma anche l’esistenza stessa del Gambia sia un prodotto del colonialismo. E per ricordarci come la crisi climatica venga da molto lontano, e anch’essa non possa essere compresa se non in una prospettiva storica e globale…
    Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui.

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