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    Il glifosato è cancerogeno? Un esperto spiega perché Monsanto non andava condannata

    Un campo di soia in Argentina su cui viene usato il glifosato. Credits: Ivan Pisarenko/ AFP

    TPI ha intervistato il divulgatore scientifico Donatello Sandroni, autore di "Orco glifosato: storia di lobby, denaro, cancri e avvocati"

    Di Viola Stefanello
    Pubblicato il 16 Ago. 2018 alle 16:40 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 02:55

    Sabato 11 agosto 2018 un giudice del tribunale di San Francisco, in California, ha condannato Monsanto a pagare un risarcimento danni da 289 milioni di dollari a DeWayne Johnson, un giardiniere di 46 anni che sostiene che gli erbicidi a base di glifosato prodotti dalla multinazionale gli hanno provocato il cancro.

    Il giudice californiano ha stabilito che l’azienda sapeva che i suoi diserbanti  erano pericolosi e l’ha condannata perché, nonostante questo, non ha mai avvertito i consumatori.

    Per giungere a questa sentenza il giudice ha fatto riferimento soprattutto a un report dell’International Agency for Research on Cancer (IARC), che classifica i prodotti in base a quanto le molecole al loro interno siano cancerogene.

    La IARC, un’agenzia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), aveva classificato il glifosato come un cancerogeno di gruppo 2A, ovvero “probabilmente cancerogeno”. Nello stesso gruppo ci sono la carne rossa e le bevande più calde di 65 gradi.

    “La giuria ha sbagliato”, ha dichiarato il vicepresidente di Monsanto Scott Partridge davanti al tribunale di San Francisco. Infatti, la gran maggioranza degli studi scientifici al riguardo sono giunti alla conclusione che il glifosato non è statisticamente associato al cancro.

    Per capire quali siano le controversie e gli interessi che girano intorno alla convinzione che il glifosato causi il cancro TPI ha parlato con Donatello Sandroni, divulgatore scientifico e autore di “Orco Glifosato: storia di lobby, denaro, cancri e avvocati“.

    Sandroni ha svolto cinque anni di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano, conseguendo un dottorato di ricerca in “Chimica, Biochimica ed Ecologia degli Antiparassitari”.

    DeWayne Johnson, l’uomo che ha fatto causa a Monsanto. Credits: AFP

    Cosa sfugge della sentenza che ha condannato Monsanto?

    C’è proprio un errore di fondo nell’attribuire la condanna al fatto che Monsanto non abbia scritto sulle proprie confezioni di glifosato delle avvertenze sul fatto che il prodotto è cancerogeno.

    DeWayne Johnson ha sostenuto che lui ha sempre usato questo prodotto in maniera un po’ facilona perché sulla confezione non c’è scritto nulla.

    Dato che questo prodotto è cancerogeno secondo lo studio della IARC, la sentenza dice che Monsanto avrebbe omesso volontariamente di scrivere sulla propria etichetta che il prodotto è cancerogeno. Questo avrebbe indotto DeWayne Johnson e altri utilizzatori a usarlo con molta facilità e ad ammalarsi di tumore.

    Ma questa serie di sillogismi non prende in considerazione un dettaglio: quando si parla in un ecofarmaco come il glifosato, Monsanto sottopone il prodotto agli enti di regolamentazione. Dossier e dossier che ti occupano una stanza. Dopo anni di valutazione arriva un responso, viene accettato e viene loro detto: ecco, l’etichetta è questa.

    In questi dossier ci sono anche le eventuali prove di cancerogene. Quindi se gli enti hanno autorizzato la pubblicazione delle etichette senza dire a Monsanto di scrivere che è cancerogeno, vuol dire che non è cancerogeno.

    In pratica, ora viene punita Monsanto per una frase omessa che gli enti non hanno mai reputato che ci dovesse essere.

    La corte californiana selezionata dal tribunale a esprimere il giudizio si è scelta lei le fonti di riferimento da usare per il giudizio, e ha prediletto proprio la versione della IARC [che è l’unico studio rilevante a collegare in qualche modo il glifosato al cancro].

    Monsanto non è riuscita a far accettare alla corte la valutazione di tutte le altre agenzie che dicevano “no, guardate, il glifosato non è cancerogeno”.

    Ora in appello dovrebbero riuscire a far mettere sul tavolo tutte le varie valutazioni, non solo quella della IARC, ma già il fatto che la corte possa scegliere da sola i documenti da prendere in considerazione scegliendo tendenzialmente quelli che sono a favore dell’accusa sposta il giudizio finale.

    Ci sono davvero delle controversie riguardo al fatto che il glifosato causi o meno il cancro all’interno della comunità scientifica?

    La IARC classifica gli agenti fisici e le sostanze in quattro gruppi distinti in base alla probabilità intrinseca di portare a un tumore.

    Il gruppo 2B mostra che magari ci sono risultati nelle cavie ma non nell’uomo. Finisci nel gruppo 2A, che contiene il glifosato ma anche le carni rosse, se ci sono alcune timide evidenze epidemiologiche.

    Quando le evidenze epidemiologiche sono solide l’agente finisce nel gruppo 1: sicuramente cancerogene. È lì che stanno l’alcool, il fumo, i raggi UV, i raggi gamma, l’amianto.

    Il glifosato è finito nel gruppo 2A per via di alcuni studi ampiamente criticati dal resto della comunità scientifica.

    Uno studio epidemiologico contava sette persone: quattro esposte al glifosato e tre no. Metti che a uno di questi quattro viene un linfoma non Hodgkin [un tumore maligno che origina dai linfociti]. Il 25 per cento del tuo campione statistico ora ha il linfoma non Hodgkin.

    C’erano studi con venti persone, altri con quindici persone… o altri erano indagini su agricoltori che usavano una dozzina di prodotti attivi e sostanze diverse. Come fai a dire che è colpa del glifosato se a uno viene la leucemia?

    Il lavoro più grosso che è stato fatto dal punto di vista epidemiologico l’ha fatto il National Cancer Institute americano che peraltro è l’istituzione in cui lavora anche Aaron Blair, che è anche il chairman del gruppo di lavoro della IARC che ha lavorato sul glifosato.

    Lì hanno valutato 55mila agricoltori, il loro stato sanitario rispetto a una dozzina di tumori diversi focalizzandosi soprattutto sul linfoma non Hodgkin, che è quello che la IARC avrebbe individuato come rilevante. Ma non è emerso nulla.

    Hanno passato a setaccio 55mila agricoltori americani e non esiste tra loro un’incidenza diversa da quella nazionale. Quindi il glifosato non è incidente né sul linfoma non Hodgkin né su un’altra decina di tumori.

    Ma questo studio, ahimé, è rimasto nel cassetto e non si è mai capito perché. Essendo Aaron Blair del National Cancer Institute e avendo in mano quello studio da due anni, perché non l’ha sottoposto all’attenzione del resto del gruppo della IARC? Era il chairman!

    L’ha tenuto lì, ed è venuto fuori solo quando, durante un processo a Monsanto, lui sotto giuramento ha dovuto dire come testimone “è vero, ce l’avevo nel cassetto da due anni e non l’ho mai pubblicato”. Però non si è mai capito perché. Non si capisce perché lo studio più robusto, solido e innocentista non è stato tirato fuori.

    Perché IARC e gli altri enti sono giunti a due conclusioni diverse rispetto alla cancerogenicità del glifosato?

    C’è stato uno studio interessante sulle cavie. Sono state date badilate di glifosato alla cavie per due anni e alla fine è venuto loro un tumore.

    Ora, IARC non interessa se per anni le hai cibate solo a quantità immense di glifosato. Se alle cavie viene un tumore, per la IARC il glifosato è un possibile cancerogeno.

    Il problema sta nel fatto che nei calcoli della IARC non c’è nessuna variabile che tenga in conto l’esposizione.

    Tutte le altre agenzie di regolamentazione guardano i dati, valutano l’esposizione umana e se l’esposizione umana è molto lontana da quei dati concede l’autorizzazione e non reputa cancerogeno il prodotto.

    Dicono “a nessuno verrà mai un tumore per questo prodotto, perché con l’attuale esposizione tramite l’acqua e il cibo e la quantità che viene utilizzata lavorando non si raggiungerà mai lontanamente un millesimo delle concentrazioni che quelle povere bestiole hanno ingoiato tutti i giorni”.

    La IARC mette al centro della valutazione la molecola, le autorità di regolamentazione mettono al centro l’uomo e l’ambiente usando il criterio dell’esposizione.

    Sono due modalità di valutazione diverse di un prodotto. La IARC è considerata un’autorità dal punto di vista della ricerca, ma non è lei che decide se concedere un’autorizzazione o meno.

    È per questo che mentre tutti gli enti del mondo hanno detto che il glifosato non è cancerogeno, IARC rimane l’unica a dire che lo è.

    Una foto di Roma invasa dalle erbacce. Credits: Luca Petroni per La Repubblica Roma.

    Ci sono degli interessi attorno alla disinformazione sul glifosato?

    Sicuramente la lobby del biologico ha i suoi interessi, perché più le persone sono spaventate più loro crescono.

    In America hanno fatto un survey sui consumatori del biologico: il 95 per cento per loro ha detto di usare il biologico perché non si fidano dei prodotti degli altri. Poi hanno chiesto: ma secondo te, il biologico cos’è? E il 75 per cento ha risposto: “Un prodotto non trattato”. Non è vero: il biologico è trattato con una serie di prodotti spesso a base di rame, che dal punto di vista tossicologico e ambientale è anche peggio del glifosato. Ma dato che è naturale, il biologico lo può usare.

    Allo stesso modo, ad esempio, la Coldiretti ha tutto l’interesse a dare contro al grano canadese dicendo che è trattato con il glifosato e non ha mai perso l’occasione di farlo negli ultimi anni. Lo stesso ha fatto Barilla annunciando che non comprerà più grano canadese.

    Ci sono anche gli interessi delle altre multinazionali. Quelli che vendono l’acido pelargonico, per esempio: è un competitore del glifosato, anche se ha dei limiti tecnici. Ne va usato quattro volte di più, costa molto di più, ha un odore terribile e ha le sue criticità, essendo un acido.

    Le aziende che lo vendono ovviamente sono contente se viene eliminato il glifosato.

    Infine, c’è il business subdolo degli avvocati negli Stati Uniti: in America degli studi legali si sono specializzati proprio in casi simili.

    Una delle ombre più nere che veleggia sopra l’operato della IARC è che il presidente che amministrò la riunione in cui si metteva sotto inchiesta il glifosato è da sempre stato un attivista anti-pesticidi. Già lì c’era un conflitto d’interesse, perché chi partecipa a queste riunioni dovrebbe essere neutrale.

    Ma la cosa più grave che è emersa dopo che la monografia era stata pubblicata è che questo soggetto aveva già preso contatti con lo studio legale che poi avrebbe preparato la class action contro Monsanto e si era accordato con loro per una cifra considerevole: 160mila dollari.

    L’idea che una persona che aveva una consulenza con uno studio legale che preparava la class action contro Monsanto abbia potuto in qualche modo influire su determinate decisioni della IARC è inquietante.

    Sembra quasi che gli studi legali possano chiedere loro: “Ehi, cos’è che mi fai diventare cancerogeno questo mese?”.

    Cosa pensa del “principio di precauzione” che è applicato in Italia?

    Il principio di precauzione è sacrosanto se applicato in maniera ragionevole.

    In America un prodotto si può vendere finché non si dimostra che è pericoloso, mentre in Italia facciamo il contrario: non lo puoi vendere finché non hai dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che non lo è.

    Se esasperi questo approccio cadi nella paralisi, perché è impossibile assicurare il 100 per cento di sicurezza.

    Un esempio di questo rischio è quanto successo a Roma: nelle aree urbane frequentate da persone è stato vietato l’uso del glifosato nel 2015.

    Il problema è che togliendo uno strumento così efficace e veloce un operaio che prima con la sua pompetta a spalla riusciva a trattare mezza Roma in qualche giorno si è trovato con decespugliatore, zappetta e rastrello. Non riescono più a starci dietro.

    In tante città italiane, come Bolzano e Genova, per questo le erbacce si sono moltiplicate e le persone sono finite in ospedale per crisi allergiche.

    Quali sono i rischi principali che si corrono quando la giurisprudenza tratta di scienza?

    La scienza andrebbe valutata da scienziati.

    Se la corte selezionata dal tribunale americano fosse stata una corte di tossicologi, oncologi, chimici, agronomi con ogni probabilità il signor DeWayne Johnson si sarebbe sentito dare una pacca sulla spalla e dire: “Scusami, mi dispiace molto per la tua situazione, ma non è questa la strada da percorrere”.

    Il problema è quando argomenti scientifici vengono trattati come una lite condominiale dove vale il testimone migliore, l’avvocato più bravo, delle prove che possono essere ammesse o no anche per motivi formali. Entrano in ballo delle dinamiche per cui delle sentenze possono andare in senso diametralmente opposto.

    Tante volte in tribunale la scienza ha una voce molto flebile, anche perché un giudice oggi amministra una causa sul glifosato, domani su un terremoto, il giorno dopo su una strage ferroviaria. Non può essere un esperto.

    Forse bisognerebbe rivedere quando si parla di aspetti scientifici le voci da ascoltare. Mentre invece ora dipende tutto da chi è più bravo ad accaparrarsi il perito più accattivante, più furbo, più scaltro.

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