Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Ambiente
  • Home » Ambiente

    Ma l’emergenza climatica non interessa più a nessuno

    Credit: AGF

    Migliaia di vittime ogni anno in tutto il mondo. E miliardi di euro di danni. I governi cancellano il problema dall’agenda. E gli ambientalisti sono criminalizzati. Ma anche i cittadini sembrano aver perso interesse

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 10 Lug. 2025 alle 17:16

    Così come possiamo dire di aver vissuto un’epoca in cui la presa di coscienza della gravità del cambiamento climatico era forte e reale, così oggi possiamo ammettere che gran parte dell’umanità guarda al fenomeno con un atteggiamento diverso. Che sia negazionismo o arrendevolezza, la lotta al cambiamento climatico è ormai una “guerra persa” da delegare a qualcun altro. Anche l’atteggiamento dei governi dei Paesi più potenti al mondo ne è la prova. Dopo solamente un mese dall’inizio del secondo mandato di Donald Trump, le politiche climatiche e ambientali statunitensi sono velocemente tornate indietro nel tempo, a inizio 2017, quando la prima ventata di negazionismo trumpiano revocò oltre 125 norme ambientali. Dal 20 gennaio 2025 è accaduto di nuovo: dal secondo ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi alla strategia “di dominio energetico” a base di Oil & Gas Made in Usa, fino ai tagli del personale di diverse agenzie federali, tra cui l’Environmental Protection Agency (Epa). Stessa storia in Europa: Geert Wilders nei Paesi Bassi, Marine Le Pen in Francia, Giorgia Meloni e Matteo Salvini in Italia, Alice Weidel in Germania sono leader sicuramente molto diversi fra loro, per idee e temperamento, ma hanno nel mirino un nemico comune, il Green Deal europeo. Certo, la destra-destra che siede tra Bruxelles e Strasburgo è divisa in due formazioni, i Conservatori e riformisti (Ecr) e Identità e democrazia (Id). Ma sono molte più le analogie che le differenze: spesso e volentieri, nel corso della passata legislatura Id e Ecr hanno fatto fronte comune contro le proposte della Commissione Ue presentate nell’ambito del Green Deal e del Fit for 55, il pacchetto di riforme e regolamenti economici e sociali dall’Unione europea per abbattere le emissioni di gas serra. 

    Violenza sistemica
    Se ciò non bastasse, anche la visione di chi ha fatto dell’ambientalismo una battaglia di vita è peggiorata notevolmente: oltre 6.400 attacchi contro difensori dei diritti umani sono stati registrati tra il 2015 e il 2024, il 75 per cento dei quali rivolti a chi difende l’ambiente, le comunità locali e i territori indigeni. Lo attesta un nuovo rapporto pubblicato dal Business & Human Rights Resource Centre (Bhrrc), che spiega come il settore minerario risulti il più pericoloso (1.681 attacchi), seguito da agricoltura industriale, combustibili fossili, energie rinnovabili e disboscamento. Le regioni più colpite sono America Latina, Caraibi, Asia e Pacifico. Un attacco su cinque ha colpito popolazioni indigene, che rappresentano il 31 per cento delle vittime uccise. Oltre 3.300 sono cause legali pretestuose. La maggior parte degli episodi resta impunita, alimentando un clima di violenza sistemica. Un segnale inquietante arriva anche da contesti considerati democratici. Nel Regno Unito, gli attacchi sono aumentati da sette nel 2022 a 21 nel 2023 (anno dell’introduzione del controverso Public Order Act), fino a 34 nel 2024. Il 91 per cento riguarda molestie giudiziarie, spesso rivolte a chi critica il settore dei combustibili fossili. In tutto il mondo, oltre metà degli attacchi (3.311) si concretizza in procedimenti giudiziari, arresti arbitrari e Slapp (azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica). 

    Lassismo generalizzato
    Quindi, se oggi ci lamentiamo del caldo asfissiante, dell’ultima ondata di canicola che ha mietuto anche diverse vittime e dei disastri ambientali come le alluvioni, la colpa è anche nostra e del lassismo generalizzato. Una considerazione che ci conferma anche Luca Mercalli, climatologo e divulgatore scientifico italiano, in libreria con la sua ultima opera “Breve storia del clima in Italia”, pubblicata da Einaudi. «È in atto una rimozione collettiva. Ogni volta che c’è un problema climatico si fa la cronaca, si fanno un po’ di commenti scontati e poi tutto torna come prima. Poi c’è qualche mese di calma e dopo si ripete tutto allo stesso modo. Una storia ripetuta negli ultimi tempi con le alluvioni, con tutto quello che è successo in Emilia Romagna. Di cosa ci dobbiamo stupire? L’unica cosa di cui stupirsi è che c’è una patologia climatica e noi non vogliamo fare la cura. Cura che doveva essere iniziata 30 anni fa. Questa non è di certo la prima ondata di calore a cui assistiamo in Italia e in Europa occidentale, la prima grande estate africana, forse addirittura più stupefacente di tutte perché ci colse di sorpresa, fu quella del 2003», racconta Mercalli a TPI. «Abbiamo avuto 71mila morti di caldo in Europa nel 2003 e 61.000 nel 2022. Quindi di cosa ci meravigliamo oggi?».

    Eppure, come ricorda Mercalli, c’è stato un tempo in cui il mondo intero ha riconosciuto il cambiamento climatico come un problema non più rimandabile: «Il punto di svolta mondiale dove il clima diventa un problema politico, e prima era solo un problema scientifico, è il 1992. Nel ’92 si firma la Convenzione sul Clima delle Nazioni Unite. Basta, non ci sono più questioni, 198 Paesi del mondo firmano a Rio de Janeiro la Convenzione sul Clima (UNFCCC). Articolo 1. “Il cambiamento climatico è la più grave minaccia per l’umanità”. Si è deciso di provare a fare qualcosa. Quel qualcosa è stato il tentativo del protocollo di Kyoto, 1997. Poi fallito. E adesso c’è l’accordo di Parigi del 2015. Sono passati dieci anni e non abbiamo ancora raccolto un frutto di quell’accordo». 

    Futuro ostile
    Secondo il rapporto WMO (Organizzazione meterologica mondiale), entro il 2029 c’è un’alta probabilità che la temperatura media globale superi temporaneamente la soglia di +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, con impatti sempre più gravi su salute, agricoltura, biodiversità e sicurezza climatica. In realtà, come spiega Mercalli, quella soglia è già stata superata in un’occasione. «Non dimentichiamo che il 2024 ha già superato la soglia del grado e mezzo. Si tratta per ora di un anno singolo, per definire superata e perduta la soglia del grado e mezzo dovremmo avere una serie di anni consecutivi, però il 2025 rischia di nuovo di andarci molto vicino. Considerando il fatto che non stiamo mettendo in atto nessuna politica internazionale efficiente per ridurre le emissioni, la probabilità che il grado e mezzo sia ormai perduto è molto elevata e lo step successivo sono i due gradi. Ai due gradi entriamo davvero in un mondo ostile, soprattutto per le generazioni più giovani».

    Nel suo ultimo libro, Mercalli traccia anche un quadro di com’era il clima d’Italia a partire da 24mila anni fa e come sarà nei prossimi 100-200 anni a seconda degli scenari che oggi sono a disposizione. «Se il trend continua in questo modo», ci spiega Mercalli, «ci ritroveremo sicuramente con un’Italia meno vivibile e con molti problemi. Teniamo conto che il Mediterraneo è una zona molto sensibile al riscaldamento, più di altre del pianeta. Avremo problemi con l’agricoltura che diventerà meno produttiva per le siccità e per le temperature troppo elevate, problemi con la disponibilità di acqua, gli incendi boschivi, il turismo, i ghiacciai che se ne vanno, meno neve per gli sport invernali, le ondate di calore che diventeranno sempre più frequenti e con temperature più elevate di quello che vediamo oggi, le alluvioni, ogni genere di eventi estremi, grandinate di grandi dimensioni. Sono eventi che già oggi creano problemi e che in futuro verranno ulteriormente amplificati».

    Chi ostacola la transizione
    Se molti politici, imprenditori e cittadini gridano all’allarmismo e si nascondono sotto lo spauracchio della disinformazione, Mercalli ribadisce come i numeri siano oggettivi e ormai consolidati, mentre gli interessi in gioco siano ben altri, e chi rema contro la transizione ecologica ha armi potenti: «C’è una corrente, possiamo dire disfattista, chiamiamola così, secondo la quale in base ai dati che abbiamo oggi sul clima, ormai non c’è più niente da fare. Una corrente che incita a lasciar perdere le politiche sul clima e impedisce le azioni che ancora si possono fare per limitare i danni. Che la situazione sia grave non c’è alcun dubbio, poi però bisogna passare alla cura, non è ancora un malato terminale, ma questa cura richiede un impegno massiccio di tipo economico e sociale, richiede cambiare il nostro modo di pensare, rivedere la vita quotidiana, ripensare i consumi. Esistono delle pressioni economiche gigantesche che vogliono lasciare le cose come stanno. Pensiamo a tutto il mercato dell’energia fossile, sono migliaia di miliardi di dollari, e allora crediamo che i pochi player internazionali che si occupano di petrolio e di carbone stiano fermi? Stanno facendo di tutto per fomentare negazionismo, dubbi, incertezze sul problema, in modo da lasciare le cose come stanno. Se a un certo punto mettessimo in atto una vera politica sulle energie rinnovabili, qualcuno si ritroverebbe con migliaia di miliardi in meno», afferma il climatologo. «Uno dei motivi per cui questa cura non viene fatta, sono le pressioni economiche dei portatori di interessi consolidati. Il secondo motivo è che i risultati politici di qualsiasi attività sul clima, fatti da un solo governo, non pagano. Perché non è che se un governo fa una politica verde ottiene un risultato tangibile tra due anni. Saranno forse i figli di quei governanti a ottenere il risultato tangibile. Quindi per il politico che invece vuole il risultato a brevissimo termine per le prossime elezioni, occuparsi di problemi alla scala di un secolo non paga. Dove finisce il cambiamento climatico? All’ultimo posto dell’agenda politica».

    C’è poi una responsabilità del singolo, quella responsabilità morale ed etica che cade in capo ad ognuno di noi è che non è possibile demandare: «La società nega il problema del clima, nega per togliersi un’ansia, per dire non è colpa mia», prosegue Mercalli. «Il negazionismo attecchisce continuamente. Tutti vogliono togliersi la responsabilità. Dieci anni fa, nell’enciclica “Laudato Si”, Papa Francesco le aveva scritte chiare tutte queste cose. Ma c’è anche un’etica personale. Ognuno ha la sua responsabilità. I poveri hanno una responsabilità piccola. I ricchi ce l’hanno grande. Quando vedo che 800 miliardi di euro vengono spesi in armamenti invece che in transizione ecologica, è ovvio che mi senta anch’io adirato e frustrato nei confronti dei leader politic. Però attenzione, i numeri ci dicono che comunque la responsabilità individuale esiste. Quanto emette in CO2 ogni cittadino italiano? Un italiano, in media, fa 6.500 chilogrammi di CO2 all’anno. Allora bisogna che ognuno inizi a fare la sua parte. Dal non prendere l’aereo per tratte internazionali per puro svago, fino a diminuire il consumo di carne. Dal riutilizzo degli oggetti e degli abiti fino al consumo consapevole e sostenibile di energia elettrica, sfruttando al massimo le opportunità offerte dalle energie rinnovabili». 

    Business is business
    A ragionare sulla situazione attuale è anche Giuseppe Forino, docente di Geografia Umana alla University of Salford, nel Regno Unito, che si occupa di disastri ambientali e cambiamenti climatici dovuti alla presenza e agli interventi dell’uomo. «Se è vero che resistono delle sacche ben rumorose di negazionisti, negli ultimi anni si sono avute molte prese di consapevolezza sul cambiamento climatico», afferma Forino a TPI. «Non soltanto tra i giovani, come i Fridays for Future o le varie forme di attivismo ambientale, ma anche in ambito lavorativo più in generale, si veda proprio in questi giorni la discussione – molto superficiale ma comunque esistente – sugli impatti delle onde di calore sui lavoratori e soprattutto la battaglia portata avanti dal Collettivo di Fabbrica Gkn, un tentativo ben riuscito di tenere insieme giustizia sociale e climatica dal basso. Al netto di questi esempi, resta tuttavia una grande sfida: quella di connettere la questione climatica alla nostra realtà quotidiana. Come gli eventi estremi non sono “esterni” ai nostri sistemi di vita di riferimento (occupazione dello spazio, lavoro, casa, tempo libero) anche il cambiamento climatico è un prodotto delle nostre azioni quotidiane, individuali e collettive. Il cambiamento climatico è dunque un argomento assolutamente politico. Vedo tuttavia che la politica, sul cambiamento climatico, fa poco. In Italia, come in molti altri Paesi, il cambiamento climatico non fa parte di una discussione quotidiana a livello politico e non si vedono strategie lungimiranti e a lungo termine che cerchino di prevenire i problemi che potranno accadere domani. Seppure in un regime di grande incertezza e sulla base di scenari molto generali, sappiamo che gli effetti del cambiamento climatico di oggi potrebbero essere moltiplicati in un futuro davvero prossimo».

    «A livello globale, le Cop annuali si sono rivelate fallimentari», prosegue Forino, «passando da un tentativo almeno di facciata di mettere insieme i Paesi del mondo a discutere della questione con spirito collaborativo, a un meeting annuale di capi di Stato e banche, finanza globale e multinazionali. Il cambiamento climatico, da questione impellente di giustizia sociale, si è trasformata in un modo per fare affari, in puro spirito neo-liberale. Con queste premesse, mentre il nuovo mondo multipolare si assesta, come possiamo pretendere di avere una discussione franca, quotidiana e soprattutto pratica sul cambiamento climatico? Sarebbe impossibile e forse anche ingiusto riuscire a dare una risposta sul nostro sentire comune, viste le tante soggettività in gioco, ma credo sia la politica in primis a dover prendere seriamente questo tema invece di marciare su temi opposti come guerra e aumento delle disuguaglianze».   

    Quando si parla di cambiamento climatico, assistiamo a uno scarto evidente tra ciò che sappiamo in termini di conoscenze scientifiche e ciò che percepisce e discute l’opinione pubblica. Tra ciò che è scienza e ciò che – in assenza di una definizione migliore – potremmo chiamare “il senso comune”. La crisi climatica non è un rischio futuro, è una voce di bilancio già attiva. Parliamo di perdite dovute a inondazioni, siccità, frane, incendi. In Italia il 2023 è stato l’anno con il maggior numero di eventi estremi di sempre. Eppure, nella narrazione pubblica, il cambiamento climatico continua a sembrare un problema “altrui”: troppo grande per essere risolto, troppo lontano per essere urgente, troppo globale per essere locale.

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version