Per la prima volta dopo tre anni, la Conferenza sul Clima non è ospitata da un’autocrazia fossile. Si tiene in una democrazia, ma non esattamente una democrazia rinnovabile. Il Brasile ha deciso di entrare nell’Opec Plus, l’organizzazione estesa di produttori ed esportatori di petrolio, a nove mesi dall’inizio della Cop30. E a due settimane dell’evento il suo governo ha autorizzato le perforazioni esplorative nel bacino di Foz do Amazonas. Il presidente brasiliano Inácio Lula gode ancora di tutta la credibilità del post-Bolsonaro, ma non è tutto verde come sembra.
Oro nero
Lula è stato recentemente in Angola per firmare nuovi accordi in favore di Petrobras, che aumenterà la produzione di petrolio e gas del 20% da qui al 2030, e ha fatto enormi pressioni sull’agenzia per l’ambiente Ibama, che inizialmente non aveva dato il via libera al colosso del fossile brasiliano per trivellare Foz do Amazonas. In merito al progetto, parlando col quotidiano O Globo, il presidente aveva dichiarato: «Vogliamo quel petrolio, perché il petrolio esisterà ancora a lungo, e abbiamo bisogno di usarlo per poterci finanziare la transizione energetica, che avrà bisogno di molti soldi».
Con quasi quattro milioni e mezzo di barili venduti solo l’anno scorso, il Brasile è divenuto il settimo produttore globale di greggio, appena dietro agli Emirati Arabi Uniti e molto avanti rispetto all’Azerbajan, i Paesi che hanno ospitato le due ultime Cop.
Nel 2024 il petrolio ha superato come principale prodotto d’esportazione persino la soia che, destinata per la stragrande maggioranza a uso animale, è una dei responsabili principali di deforestazione e uso del suolo.
Punto di non ritorno
La deforestazione nella Foresta Amazzonica e di altri ecosistemi delicati come il Certado e il Pantanal ha toccato il minimo negli ultimi dieci anni. Ciononostante, secondo i dati riportati dalla Fondazione di sostegno alla ricerca dello Stato di San Paolo, negli ultimi due anni il degrado forestale dell’Amazzonia brasiliana è cresciuto del 163%. Circa 25mila chilometri quadrati di foresta pluviale amazzonica si sono degradati tra il 2023 e il 2024. Il 66% dei danni è legato agli incendi, alimentati da siccità, caldo record e attività umane come la combustione agricola.
Il cambiamento climatico sta anche indebolendo la struttura degli alberi, riducendo la funzionalità ecologica di vaste aree di foresta. Secondo il rapporto di MapBiomas, negli ultimi quarant’anni l’Amazzonia ha perso 52 milioni di ettari di vegetazione, pari all’estensione della Francia. Tra le principali cause l’agricoltura e l’allevamento.
Nel report si legge che «l’Amazzonia brasiliana si sta avvicinando al punto di non ritorno del bioma», al di là del quale la foresta non sarebbe più in grado di sostenersi.
La riduzione della copertura di alberi ha portato a un calo del 75% della pioggia nel bacino dell’Amazzonia, come testimoniano molti brasiliani arrivati a Belém, e ha provocato un aumento di ondate di calore nella foresta.
Tra politica e mercato
Eppure, per il successo di immagine della sua Cop30, il Brasile ha puntato proprio sull’Amazzonia, e più precisamente su un nuovo strumento finanziario per la sua protezione. Si chiama Tropical Forest Forever Facility e l’idea è quella di un meccanismo finanziario che non dipenda da un sostegno pubblico (significativamente ridimensionato col disimpegno statunitense) ma da “bond forestali” ad alto rendimento: investimenti in titoli e azioni emessi da parte di governi e imprese, i cui profitti saranno ripartiti con un tasso di deforestazione annuale non superiore allo 0,5%; gli investitori dovrebbero ricevere quattro dollari all’anno per ogni ettaro di foresta preservata (questo almeno è l’obiettivo).
È un’iniziativa creativa, ma che resta pur sempre un meccanismo di mercato, legato a una logica di mercantilizzazione della natura ed esposto alle turbolenze della finanza globale. Lo stesso mercato che oggi continua a incentivare l’estrazione di risorse e quindi la deforestazione.
Oltre a Regno Unito, Norvegia, Emirati Arabi Uniti e Cina – quest’ultima sempre più presente nella finanza ambientale e partner del Brasile nell’ambito Brics – il Governo brasiliano ha ottenuto il supporto degli altri sette Paesi del bacino amazzonico nel corso della riunione dell’Amazon Cooperation Treaty Organization. Supporto che invece non ha trovato Susana Muhamad, fino a poco fa ministra dell’Ambiente della Colombia, che voleva coinvolgere gli altri Stati amazzonici nella creazione di una zona franca dai combustibili fossili. Il Brasile però ha fatto orecchie da mercante, il Venezuela è una dittatura fossile, l’Ecuador ha un governo di destra che ha proposto una modifica della Costituzione per fare piazza pulita dei diritti indigeni e della natura e permettere la presenza di basi statunitensi nel Paese, il Perù sta affrontando una fase di forte instabilità politica e la Bolivia, che non dispone di giacimenti petroliferi avrebbe declinato affermando che se un giorno ne scoprisse, non potrebbe fare a meno di utilizzarli.
“I soldi non si mangiano”
In Amazzonia c’è un quinto dei giacimenti fossili scoperti al mondo negli ultimi anni. In una direzione opposta a quella in cui va la proposta della Colombia – che in primavera ospiterà la prima Conferenza internazionale per l’abbandono dei combustibili fossili – la foresta rischia di diventare la nuova frontiera dell’estrazione petrolifera.
Trentasette terre indigene sono state circoscritte, mentre 70 lo sono state dichiarate, ma dal 1993 attendono di essere riconosciute dal governo. Lula potrebbe sbloccare la situazione come eredità della Cop30, tuttavia non sembra intenzionato a farlo. Anzi, il decreto n.12.600 ha privatizzato aree nel Tapajós, Tocatins e Madeira, mentre la legge «della distruzione» – la n.15.190, approvata dalla maggioranza che sostiene Lula, che include forze centriste e sulla cui precedente versione lo stesso presidente aveva messo un veto – introduce modifiche significative alle licenze ambientali.
Per questo, nelle due settimane della Cop, gruppi di persone indigene hanno prima aperto una breccia nella sede del negoziato per rivendicare i propri diritti, e qualche giorno dopo hanno bloccato per due ore la Zona blu, quella che nel corso dell’evento passa sotto il controllo delle Nazioni Unite, fino alla trattativa con il presidente di Cop30 che ha sbloccato la situazione.
«Non possiamo mangiare soldi. Vogliamo che le nostre terre siano libere dall’agribusiness, dallo sfruttamento petrolifero, dall’attività mineraria e dal traffico illegale di legname», ha ribadito il coordinatore del Consiglio indigeno Tupinambá, il cacique Gilson.
Come lui, moltissimi rappresentanti di comunità indigene, dai Kayapó ai Panará, dai Munduruku ai Mura, hanno viaggiato per un mese e mezzo e tremila chilometri in una carovana fluviale che ha preso il nome di Amazon Flotilla, partita dall’Ecuador e giunta a Belém.
L’Assemblea dei Popoli
La capitale del Pará, regione grande quattro volte l’Italia, si è sviluppata intorno ai molti canali di quest’area dell’Amazzonia: ci sono insediamenti irregolari, un’alta densità abitativa e case costruite con materiali di scarsa qualità.
In base agli ultimi dati, l’80% dei residenti di Belém non è collegato alla rete fognaria. Secondo l’Istituto brasiliano di geografia e statistica (Ibge), la città è la capitale statale con la percentuale più alta di residenti che vivono nelle favelas.
Uno studio del 2024 indica che su 1,3 milioni di abitanti, 745mila (il 57,1%) vivono in baraccopoli senza servizi. Lo spazio in cui a Belém si è provato ad affrontare l’intersezione tra crisi climatica e sociale non è stata tanto la Cop30, ma la Cúpula dos Povos, l’Assemblea dei Popoli.
«Le Cop non sono naturalmente inclusive, sono negoziati tecnici tra Stati. Tuttavia, i loro dibattiti devono includere coloro che sono in prima linea nella crisi climatica. A Belém, l’aumento dei prezzi degli alloggi rischia di aggravare l’esclusione, rendendo ancora più difficile la loro presenza. Per questo motivo, nonostante le sfide logistiche e la crisi degli alloggi, abbiamo organizzato una risposta massiccia e popolare: l’Assemblea dei Popoli». Sono le parole di Bruna Balbi, consulente legale dei movimenti sociali per l’organizzazione Tierra de Direitos e membra del comitato politico della contro-Cop.
Il documento conclusivo dei cinque giorni di incontri, culminati con una grande manifestazione che alle Cop non si vedeva dai tempi di Glasgow nel 2021 e con una plenaria di sintesi, esprime l’unità dei popoli originari, delle comunità tradizionali, dei quilombolas, dei pescatori, dei «rompicocchi» babasu, dei contadini, dei lavoratori e delle lavoratrici urbane, dei giovani, dei movimenti femministi, della popolazione Lgbtqiaon+, dei sindacati, dei residenti delle periferie e dei difensori di tutti i biomi.
La lettera denuncia che la crisi climatica si sta aggravando con l’avanzare dell’estrema destra, del fascismo e delle guerre, e afferma che i Paesi del Nord del mondo e le élite economiche sono i principali responsabili delle molteplici crisi ambientali e sociali. C’è un forte ripudio del genocidio del popolo palestinese e solidarietà attiva con i popoli che resistono ai progetti imperiali, alla militarizzazione e alla violazione dei loro territori. Il testo ribadisce anche una visione che pone al centro il lavoro di cura, riconoscendo il femminismo come parte essenziale della risposta alle crisi.
La saggezza ancestrale dei popoli originari, la creatività dei territori e la forza spirituale che guida le lotte appaiono come fondamenti di soluzioni reali e radicate.
Nella giornata conclusiva, il documento è stato consegnato alle ministre Marina Silva e Sônia Guajajara e al presidente di Cop30 André Corrêa do Lago, presenti alla plenaria conclusiva. La Cúpula, organizzata soprattutto dalla società civile brasiliana e ospitata dall’Università federale del Pará, riflette il difficile rapporto tra movimenti e governo: da una parte legame e sovrapposizione, dall’altra sofferenza e contestazione. Corrêa do Lago all’inizio della Cop aveva parlato di virada, termine calcistico che indica la rimonta. Sarà necessaria per recuperare fiducia e terreno letteralmente perso.