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    Alla Cop del petroliere si fa il doppio gioco sul Clima

    Credit: AP

    Al Jaber, presidente della Cop28 e manager dell’oro nero, chiude l’accordo sul Loss&Damage. Ma i fondi stanziati sono una miseria. L’Italia prende impegni importanti, poi però Meloni frena sulla transizione. Ecco perché quello nel Golfo è il summit dei paradossi e degli opportunismi

    Di Giorgio Brizio
    Pubblicato il 10 Dic. 2023 alle 07:00

    Dubai è una città del deserto, ma un deserto trasformato in grattacieli, superstrade, tubi di aria condizionata a palla. È un luogo alienante, che non aiuta gli sforzi di immaginazione per un mondo abitabile e che può esistere solo perché si regge sul capitalismo fossile, nel suo stadio più avanzato e predatore. 

    Il petrolio non ha portato la democrazia nei Paesi del Golfo, che però sono diventati economicamente potenti e decisivi nella politica internazionale. A Doha si sono tenuti gli incontri per trattare il prolungamento del cessate il fuoco a Gaza, il salvataggio degli ostaggi e della sua popolazione, fino a quando la carneficina non è ricominciata. Poco più a est, a Dubai appunto, 177 leader e 198 delegazioni stanno negoziando per salvare l’umanità. Poco più a ovest, c’è Riad, che si è aggiudicata prima i Mondiali di calcio del 2034 e poi, battendo Roma qualche giorno fa, l’Expo del 2030. Doha ha ospitato l’ultimo Mondiale, Dubai l’ultima Expo, che è la sede della Cop in corso. 

    Parole, parole, parole
    La plenaria della 28esima Conferenza delle Parti sul Clima si è aperta giovedì 30 ottobre sotto la guida di quattro uomini: il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) Simon Stiell, il presidente del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) Jim Skea, il presidente uscente di Cop27 Sameh Shoukry e il controverso presidente designato di Cop 28 Ahmed Al Jaber, che ha affermato che «non bisogna perdere di vista la stella del Nord degli 1,5 gradi centigradi» e che «i Paesi del Global South non devono essere costretti a scegliere tra sviluppo e mitigazione».

    Al Jaber non si è nascosto dietro il fatto di essere l’amministratore delegato di Adnoc, una delle aziende fossili più impattanti al mondo, il cui coinvolgimento considera necessario per il processo di transizione. 

    Il giorno successivo, all’apertura del Leaders Summit, anch’esso aperto da quattro uomini, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha rilanciato la patata bollente al mittente: «Concedetemi di mandare un messaggio ai leader delle compagnie fossili: la vostra vecchia strada sta invecchiando rapidamente». Li ha invitati a guidare la transizione con le ingenti risorse di cui rispondono, anche perché «le rinnovabili garantiranno l’unica possibilità di stabilità per le vostre aziende». 

    Dopo il suo discorso ci sono stati gli onori di casa del presidente degli Emirati Arabi Uniti e l’entrata in scena di Re Carlo, che nel 2015 era intervenuto alla Cop21, quella dell’Accordo di Parigi, «rispetto alla quale le emissioni di anidride carbonica e metano in atmosfera sono aumentate rispettivamente del 30% e 40%».

    Il quarto intervento è stato quello di Lula, che ha suonato la carica: «Il Pianeta è stanco di accordi climatici che non vengono messi in atto. Quanti leader mondiali si stanno effettivamente impegnato per salvare il Pianeta?». Il presidente brasiliano ha voluto portare l’attenzione sul fatto che «solo l’anno scorso il mondo abbia speso più di due trilioni di dollari in armi». 

    Sono intervenuti poi i primi ministri e presidenti Macron, Al Sisi, Erdogan, Ruto, Herzog, Kishida, Sanchez, Rutte, Sunak. Oltre a Lula, anche il Re giordano e lo stesso Guterres, «bombes are sounding again in Gaza», si sono soffermati sull’impatto umano e ambientale delle guerre. La delegazione iraniana sembra aver abbandonato l’evento, o non esserci mai arrivata, per la presenza di Israele. 

    Il bombardamento in corso a Gaza è l’unico tema esterno all’agenda che è riuscito a entrare nella sede dei negoziati e l’unico su cui la società civile sta riuscendo a farsi notare: i colori della bandiera palestinese sono sui badge, sulle spille e sugli orecchini degli delegati e delle delegate, in giro si vedono bandiere azzurre con al centro un’anguria, il frutto che contiene appunto il verde, il rosso, un po’ di bianco e un po’ di nero. 

    Ad aumentare l’impatto visivo contribuisce la bandiera emiratina, che sabato 1 dicembre era onnipresente per la 52esima giornata nazionale e che ha gli stessi colori di quella palestinese: «Anche di quella italiana, solo con in più il petrolio», mi ha detto un rappresentante di un’azienda.

    Protestare negli Emirati Arabi Uniti è proibito, «non è chiaro come gli attivisti potranno farlo in sicurezza e in modo politicamente significativo in un Paese dove gli spazi critici sono chiusi, ci sono severe restrizioni alla libertà di espressione e il dissenso pacifico viene criminalizzato». È un problema, perché nell’architettura delle Cop, per come le abbiamo conosciute finora, la protesta è un elemento chiave. 

    Imbarazzo
    Finora, gli unici episodi di rumore si sono concentrati nella Blue Zone, l’area centrale che durante le due settimane dell’evento passa sotto il controllo delle Nazioni Unite, e sul cessate il fuoco a Gaza. Le cose potrebbero però rapidamente cambiare alla luce del sempre più evidente doppio gioco di arbitro e giocatore di Al Jaber. 

    Domenica 2 dicembre sui telefoni dei delegati è iniziato a circolare un audio, individuato dal Centre for Climate Reporting e diffuso poi da The Guardian, in cui si sente il presidente di Cop28 dire che per restare entro l’aumento di 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali non c’è nessuno scenario o evidenza scientifica che presuppone di abbandonare i combustibili fossili e che farlo «ci riporterebbe nelle caverne».

    Parole, a cui è seguita la richiesta di dimissioni da parte di una serie di importanti climatologi guidati da Micheal Mann, che lo hanno costretto a una conferenza stampa da coccodrillo e che hanno minato la sua reputazione di abile politico che si era costruito nei primi giorni di negoziato. 

    Alla plenaria d’apertura Al Jaber era infatti riuscito, a sorpresa, a far approvare il Loss&Damage, un fondo per risarcire delle perdite e dei danni degli eventi climatici atmosferici i Paesi più colpiti seppur meno responsabili, cioè la forma più avanzata di giustizia climatica ad oggi contemplata.

    Gli Emirati, la Germania, la Francia e sorprendentemente anche l’Italia hanno stanziato 100 milioni di dollari ciascuno, il Regno Unito 60 milioni di sterline, gli Stati Uniti, dove ha sede la Banca Mondiale che gestirà il fondo, poco più di 10. È una notizia storica e sono tanti soldi, ma vanno contestualizzati.

    Provate a immaginare quanti milioni di danni ha fatto la sola alluvione in Toscana, quanti miliardi quella in Pakistan. L’Università di Wellington stima che nel decennio 2010-2019 i danni causati dalla crisi climatica nel mondo siano stati in media pari a 140 miliardi di dollari ogni anno e che siano stati pari a 240 miliardi nel 2021. 

    L’impressione è che Al Jaber abbia utilizzato un’altisonante ma minuscola parte dei fondi di cui dispone (nel secondo trimestre del 2023 Adnoc ha messo a segno un utile netto di 984 milioni di dollari) e la pressione politica aumentata dopo l’invasione in Ucraina che esercita su Italia, Francia e Germania e le rispettive partecipate (Eni possiede il 25% del del giacimento Ghasha) per intestarsi una vittoria politica in grado di oscurare le contraddizioni dell’evento che sta guidando. 

    #Melodi
    Come si sta comportando, allora, l’Italia a questa Cop? Discretamente. Pochi giorni prima dell’inizio della Conferenza sul Clima, il Parlamento aveva approvato in sordina una mozione che impegna il Governo a sostenere appunto il Loss&Damage, a contribuire ai fondi per l’adattamento e a mobilitare la finanza in favore del procedere nella riduzione ai combustibili fossili, valutare l’uscita dalle garanzie pubbliche degli investimenti privati (Sace) su di essi, raggiungere l’obiettivo dello 0,7% del Pil in aiuti allo sviluppo e dedicare il 50% di queste risorse al cambiamento climatico. È notevole soprattutto quest’ultima promessa, dal momento che, secondo il think talk Ecco, ciò si tradurrebbe in 7 miliardi per il clima. 

    Meloni ha parlato nella seconda, e meno importante, sessione del Leaders Summit. Lo ha fatto in inglese, contrariamente ai suoi omologhi dei principali Paesi europei – Scholz in tedesco, Macron in francese – ed è stata una delle pochissime donne a intervenire: oltre a lei la presidente estone Kallas, che ha attaccato con forza la Russia, quella delle Barbados Mottley, che alle Cop è un punto di riferimento, e altre 7 su 170.

    Quello della poca rappresentatività diversità è un antico problema dei meeting internazionali: l’80% delle persone sfollate a causa del cambiamento climatico sono donne, ma le donne rappresentano solo il 33% delle decisioni sulla regolamentazione climatica; l’87% dei giovani vive nel Sud Globale, ma i giovani non europei sono relativamente pochi. 

    Tornando al ruolo dell’Italia, che è responsabile dell’1% delle emissioni globali ma è anche il sesto Paese investitore nel fossile al mondo, Meloni ha avuto il buon senso di affidarsi per il suo discorso ai consigli della delegazione italiana che da anni segue la Cop, ma non ha rinunciato ai suoi cavalli di battaglia sul tema: dai pericoli della transizione al sostegno dei biocombustibili, passando per la retorica dell’«Aiutiamoli a casa loro» in funzione anti-immigrazione fino al rifiuto di un approccio “ideologico”, qualsiasi cosa intenda: «Ecological, non ideological, transition».

    «L’Italia sta facendo la sua parte nel processo di decarbonizzazione, ma la fa in modo pragmatico». Se l’intenzione è attuarla come il suo amico indiano, il presidente Modi, con cui ha postato un selfie in favore del popolarissimo hashtag #Melodi, siamo in una botte di ferro. 

    La scienza è chiara: se vogliamo salvare l’obiettivo +1,5 gradi, abbandonare quella vecchia strada di cui parla Guterres e imboccare il nuovo corso che auspica Mottley, dobbiamo lasciare carbone, petrolio e gas nella terra e sotto il mare. Non basta un “phase-down” (riduzione), serve un “phase-out” (uscita). Il successo della Cop si deciderà su queste poche lettere.

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