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    Il cambiamento climatico favorisce il ritorno del colera: nel 2022 boom di casi e letalità triplicata

    Credit Image: Ali Hashisho/Xinhua via ZUMA Press

    I vaccini? Non bastano: l'Oms ha dimezzato le dosi

    Di Vittoria Vardanega
    Pubblicato il 11 Nov. 2022 alle 07:41 Aggiornato il 11 Nov. 2022 alle 07:44

    Il numero di focolai di colera è in rapido aumento in diversi Paesi in Africa, Medio Oriente, Asia meridionale e Caraibi, mettendo a rischio la salute di milioni di persone. Negli ultimi anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) aveva registrato una diminuzione dei contagi a livello globale, ma nel 2022, e in particolare nelle ultime settimane, si è assistito a un incremento significativo di casi e aree geografiche colpite. Nel corso di quest’anno il colera è stato diagnosticato in 29 Paesi, 13 dei quali non avevano registrato alcun caso nel 2021.

    Tra questi c’è il Libano, dove il 6 ottobre scorso è stato segnalato il primo caso dal 1993: in un mese, i casi sono saliti a circa 1.500 e i decessi a 147. Il virus è arrivato in Libano dalla vicina Siria, dove solo nelle ultime settimane sono stati riportati 10mila casi sospetti. Secondo le Nazioni Unite, nel Paese dilaniato dalla guerra che dura ormai da undici anni, il focolaio è stato causato dall’uso dell’acqua del fiume Eufrate per bere e irrigare i campi, con una conseguente contaminazione non solo dell’acqua ma anche degli alimenti. Le risorse del fiume sono purtroppo necessarie per la popolazione, spesso sfollata a causa della guerra, senza accesso ad acqua potabile.

    Crisi umanitarie

    Il colera è una malattia infettiva che si diffonde attraverso l’ingestione di acqua o alimenti contaminati dal batterio Vibrio cholerae. In contesti in cui mancano l’accesso all’acqua potabile o servizi igienici adeguati si è particolarmente a rischio di contrarre la malattia: è per questo che spesso i focolai scoppiano in coincidenza di altre emergenze umanitarie.

    Spesso il colera si presenta in forma asintomatica o con sintomi lievi, tanto da poter passare inosservato o quasi. In altri, tuttavia, il corpo reagisce alla presenza del batterio cercando di espellerlo tramite violenti attacchi di vomito e diarrea, che portano a una rapida disidratazione. In assenza di cure mediche, il colera può rivelarsi fatale, e la disidratazione così grave da portare talvolta persino alla morte nel giro di poche ore dalla comparsa dei primi sintomi. Fortunatamente la cura è abbastanza semplice (una soluzione di reidratazione orale diluita nell’acqua, e, se necessario, antibiotici) ma è vitale che venga somministrata tempestivamente. I bambini sono particolarmente vulnerabili a questa malattia e rischiano di sviluppare forme più gravi, in particolare se il loro sistema immunitario è già indebolito dalla malnutrizione.

    Tuttavia è difficile stimare il numero di pazienti e decessi di colera, dal momento che moltissimi casi non vengono diagnosticati o registrati. Secondo le statistiche dell’Oms e del Centers for Disease Control and Prevention (l’Agenzia federale sanitaria statunitense), ogni anno nel mondo ci sono tra 1,3 e 4 milioni di contagi, e tra i 21mila e 143mila decessi. La letalità, ovvero il numero di morti in rapporto al numero di malati entro un periodo di tempo, dovrebbe rimanere sotto all’1%, se si ricevono cure mediche. Ma il mese scorso il direttore generale dell’Oms, Tedros Ghebreyesus, ha dichiarato che secondo i (pochi) dati disponibili al momento la letalità del colera nel 2022 è quasi triplicata rispetto alla media degli ultimi cinque anni, che era intorno al 3%.

    I Paesi più colpiti

    L’aumento di focolai è dovuto a diversi fattori, secondo Philippe Barboza, a capo del team Oms che si occupa di coordinare la risposta dell’organizzazione al colera. Alcuni di questi non sono cambiati: conflitti armati, emergenze umanitarie, povertà. Ciò che è cambiato in maniera drammatica, invece, è l’impatto del cambiamento climatico. Diversi Paesi sono stati vittima dei suoi effetti, come uragani, siccità e monsoni particolarmente violenti.

    Le persone colpite da questi disastri naturali spesso si trovano a dover lasciare le proprie abitazioni, o a non avere più acqua potabile accessibile nelle loro case, aumentando così il rischio di contrarre il batterio. Un esempio significativo è quello della Nigeria: più di un milione e mezzo di persone sono state sfollate in seguito alle alluvioni più violente nel Paese dal 2012, dopo mesi di piogge intense; l’emergenza ha portato a un’ondata di colera, di cui sono stati riportati 6mila casi sospetti, secondo l’organizzazione umanitaria International Rescue Committee, attiva sul campo.

    Anche in Pakistan l’aumento di casi di colera si può ricondurre al cambiamento climatico: un terzo del Paese è stato sommerso da alluvioni causate da piogge monsoniche tre volte superiori alla media degli ultimi trent’anni, aggravate dallo scioglimento di ghiacciai a seguito di temperature particolarmente elevate. Circa 8 milioni di persone sono state sfollate, e casi di colera sono stati riportati in decine di zone diverse del Paese.

    In Kenya le autorità hanno confermato la presenza di colera in 6 contee su 47, tra cui quella della capitale Nairobi: alla luce dell’attuale siccità, che potrebbe favorire la diffusione del virus, il governo ha deciso di mettere queste regioni in stato di allerta. Tra gli altri stati africani colpiti dall’emergenza ci sono Etiopia e Malawi. Ad Haiti, invece, il colera è tornato dopo più di tre anni, proprio quando il Paese si preparava a ricevere ufficialmente lo status di cholera-free, per confermare l’eradicazione della malattia. Il focolaio si è sviluppato nella zona della capitale Port-au-Prince, dove interi quartieri sono stati sfollati e gli abitanti costretti e dormire in strada in seguito alle violenze delle gang.

    Sanità in affanno

    In molti dei Paesi citati, la diffusione del colera non ha ancora raggiunto il livello di un’epidemia, e un intervento rapido, tramite somministrazione di vaccino nelle zone più a rischio o in cui il batterio è già in circolazione, potrebbe ancora scongiurare che lo diventi. Ma le riserve di vaccini sono molto basse, e non sufficienti a soddisfare la domanda.

    La vera strategia di prevenzione del colera, in realtà, consiste nel garantire accesso ad acqua pulita e potabile e a servizi igienici. Tuttavia si tratta di una soluzione di lungo periodo, mentre in situazioni emergenziali, come le ondate di quest’anno, i vaccini sono fondamentali. Nel 2013 l’Oms e altri partner internazionali hanno coordinato un sistema di scorte di vaccini che, nel caso di nuovi focolai, permetta all’organizzazione di inviare le dosi necessarie per rispondere alla crisi.

    Dei tre vaccini anti-colera esistenti, due sono considerati particolarmente adatti per la distribuzione durante un’emergenza umanitaria: solo nel 2021, grazie a questa iniziativa sono state distribuite 27 milioni dosi. Peraltro l’aumento di casi significa che le scorte disponibili non sono sufficienti a soddisfare la domanda: la carenza di vaccini è così grave che l’Oms si è vista costretta a diminuire le dosi consigliate da due a una soltanto, cercando così di immunizzare più persone possibile, nonostante la protezione offerta da una sola dose sia minore.

    La situazione è ulteriormente peggiorata dal fatto che una delle due compagnie produttrici dei vaccini utilizzati dall’Oms ha deciso di interromperlo. La produzione del vaccino Sanchol, infatti, si fermerà entro la fine del 2022, e le ultime scorte verranno distribuite nel corso del 2023. Una decisione «deludente», per Barboza. L’azienda produttrice Shantha Biotechnics, dal canto suo, si è difesa sostenendo che la decisione era stata presa due anni fa e che l’Oms e i suoi partner ne erano stati debitamente informati. Intanto EuBiologics, l’azienda sudcoreana che produce l’altro vaccino anti-colera utilizzato dall’Oms, sta facendo del suo meglio per aumentarne la produzione. Ma dipendere da un unico venditore, rendendo la distribuzione delle dosi molto esposta alle decisioni di una singola azienda, non rappresenta una situazione ideale. Anche per questo, oltre che per far fronte all’emergenza, l’Oms sta esortando altre case farmaceutiche a farsi avanti per produrre il vaccino.

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