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    Inquinamento nascosto: così le microplastiche hanno invaso il mare della Puglia

    Intorno al polo industriale di Brindisi sono stati raccolti 7.938 granuli di plastica grandi come lenticchie. Lo rivela un report di Greenpeace che denuncia: “Riconducibili alla filiera produttiva della zona, chiediamo alla magistratura di intervenire”

    Di Niccolò Di Francesco
    Pubblicato il 1 Lug. 2022 alle 07:00

    Altro che Mare Nostrum: a dispetto di tante belle parole spese da parte della politica, la salvaguardia e il benessere dei nostri mari è messa in pericolo dalle industrie che, direttamente o indirettamente, contribuiscono a inquinare le acque italiane in nome del profitto.

    Ne è un esempio l’area di Brindisi, dove si trovano impianti petrolchimici, tra cui la Versalis, società del gruppo ENI, specializzata nella produzione di materie plastiche, in cui sono stati registrati picchi di contaminazione di granuli di plastica, le cosiddette pellet o nurdles, che, come tutte le microplastiche, entrano nella catena alimentare degli organismi marini, accumulandosi negli animali che si trovano al vertice, inclusi gli esseri umani.

    La scoperta è frutto del report di Greenpeace Italia “Inquinamento silenzioso” che TPI ha potuto visionare in esclusiva insieme a Il Fatto Quotidiano. La lettura del rapporto fa tremare le vene dei polsi a chi, come noi, ha potuto scorrere i dati che sono stati elaborati.

    Nel corso del 2021, infatti, l’associazione ambientalista ha condotto un’indagine in 12 spiagge pugliesi situate a differenti distanze, da 0 a 100 chilometri, dall’impianto petrolchimico di Brindisi, un’area industriale che si estende per 4.600.000 metri quadri situata a sud est della città, a circa tre chilometri dal centro urbano. Delimitata a nord e a est dal mare Adriatico, il sito presenta le seguenti società: Versalis ed EniPower, entrambe controllate da Eni, Basell Poliolefine Italia, che fa capo al gruppo LyondellBasell, Chemgas e Brindisi Servizi Generali.

    Il risultato? Sono stati raccolti 7938 pellet, granuli di plastica delle dimensioni di una lenticchia. Il 66,8% del materiale è stato individuato nei tre siti vicino allo stabilimento brindisino, mentre la concentrazione maggiore è stata registrata nei pressi dell’isola di Sant’Andrea, situata nell’area portuale di Brindisi.

    Non solo, le rivelazioni effettuate nei siti di campionamento più distanti hanno mostrato livelli di contaminazione ben inferiori: a 50 chilometri a nord dal polo petrolchimico, infatti, sono stati raccolti appena 9 granuli.

    Siti di campionamento investigati nell’indagine. L’ingrandimento evidenzia i punti di campionamento situati nell’area portuale di Brindisi limitrofi al petrolchimico. Credit: Greenpeace

    Per sottolineare la gravità della situazione, occorre fare un piccolo passo indietro. I granuli di plastica, il cui rilascio nella sola Europa può superare le 167 mila tonnellate annue, vengono prodotti negli impianti petrolchimici e costituiscono il materiale di base da cui si ricavano gli oggetti in plastica: dagli imballaggi ai componenti elettronici fino all’edilizia e l’industria automobolistica.

    Il loro rilascio nell’ambiente può avvenire o a causa di un incidente oppure in seguito a perdite nella filiera logistica-produttiva delle materie plastiche, che possono essere causate dalla fase di carico e scarico dei materiali o, ad esempio, da perdite accidentali dai contenitori e dai silos di stoccaggio.

    Il dato più interessante e preoccupante al tempo stesso del report è che circa il 70% dei campioni raccolti erano traslucidi e trasparenti. Che significa? Che le microplastiche con molta probabilità erano state rilasciate nell’ambiente di recente. Secondo alcuni studi scientifici, infatti, i granuli di plastica a causa del sole e di altri agenti atmosferici, con il tempo tendono ad andare incontro a processi di degradazione cambiando colore dal trasparente/traslucido a colori tendenti al giallo e all’arancione.

    Una possibile causa in tal senso potrebbe essere stato il fermo dell’impianto di Versalis avvenuto nel maggio del 2021 a causa di alcuni lavori di manutenzione. La chiusura dello stabile, o la sua minore operatività, potrebbe dunque aver determinato una riduzione della dispersione di granuli nell’ambiente circostante.

    Sempre dai dati disponibili, inoltre, è emerso che di tutti i granuli raccolti, il 78% era in polietilene, un tipo di plastica prodotto nello stabilimento Versalis di proprietà di Eni, mentre poco più del 17 per cento era in polipropilene, prodotto dalla Basell Poliolefine Italia, situata sempre nell’area di Brindisi.

    I dati, dunque, sono piuttosto eloquenti ed evidenziano che, pur non essendo dimostrabile una responsabilità diretta di una singola azienda nel rilascio del materiale, nelle aree industriali e portuali di Brindisi si concentra il maggior numero di pellet.

    Motivo per cui, a seguito dell’indagine, Greenpeace Italia ha presentato un esposto in procura, chiedendo alla magistratura di investigare sull’inquinamento e verificare se sussistano le condizioni affinché si proceda al sequestro delle attività industriali presenti nell’area specializzate nella produzione di granuli.

    “Chiediamo alla magistratura di intervenire, a Versalis e Basell Poliolefine Italia, le due società specializzate nella produzione di granuli nell’area brindisina, di rendere pubbliche le prove in loro possesso che dimostrino la loro estraneità a questo inquinamento” dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace.

    A differenza di altre materie plastiche, infatti, l’origine di questa tipologia di inquinamento è riconducibile, solo ed esclusivamente, alla filiera produttiva delle materie plastiche e alla logistica di supporto. Lo dimostrano, oltre all’area di Brindisi peraltro già gravemente impattata, le rilevazioni effettuate nelle aree limitrofe agli impianti di Rotterdam e Anversa, ma anche in Texas dove le aziende ritenute responsabili dell’inquinamento sono state condannate a pagare ingenti risarcimenti.

    Nel caso di Rotterdam, infatti, in seguito a un esposto della Ong Plastic Soup Foundation, l’azienda petrolchimica Ducor, ritenuta responsabile dell’inquinamento dell’area, è stata costretta a pagare una penale di 15mila euro e farsi carico delle attività di pulizia dell’area portuale inquinata da granuli. In Texas, invece, dopo anni di battaglia legale, la Formosa Plastics, azienda produttrice di granuli, è stata costretta a versare 50 milioni di dollari come risarcimento.

    “I dati dimostrano che la plastica inquina già dalle prime fasi del suo ciclo di vita – aggiunge Giuseppe Ungherese – In un pianeta già soffocato da plastiche e microplastiche, è necessario azzerare tutte le fonti di contaminazione, inclusa la dispersione dei granuli, il cui rilascio nell’ambiente rappresenta un grave pericolo per gli ecosistemi marini ed è riconducibile alla filiera logistico-produttiva delle materie plastiche”.

    Ecco perché Greenpeace, che chiede agli enti pubblici nazionali e locali di realizzare un monitoraggio indipendente e approfondito sulla presenza di pellet nell’area brindisina volto ad individuare tutte le fonti di inquinamento, ribadisce la necessità e l’urgenza di realizzare un trattato globale sull’inquinamento da plastica, sotto l’egida delle Nazioni Unite, che includa una concreta riduzione di tutti gli impatti nell’intero ciclo di vita di questo materiale, inclusa la dispersione di pellet nell’ambiente.

    Secondo l’associazione ambientalista, inoltre, è necessario che il ministero della Transizione Ecologica preveda, nei futuri rinnovi delle autorizzazioni ambientali relative agli impianti industriali che producono granuli, prescrizioni specifiche per azzerare parametri sull’inquinamento da microplastiche.

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