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Jackie: quando il lutto diventa grande cinema

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Il film di Pablo Larraìn, dal 23 febbraio nelle sale italiane, vede Natalie Portman in una fedele interpretazione della donna che fu la moglie di John Kennedy

“Dov’eri quando hanno sparato a Kennedy?”.

S&D

È una domanda alla quale oggi per ragioni d’età solo alcuni sono in grado di rispondere, ma che per più di una generazione di americani è stata un ritornello inevitabile. Qualcuno era a scuola, altri al bar, altri guardavano la tv e ascoltarono la notizia dalla voce rotta di Walter Cronkite – un giornalista e personaggio televisivo statunitense della Cbs.

Ma per anni domandarsi a vicenda dov’erano fu lo strascico lento a morire di un momento che segnò per sempre le vite di un intero popolo, ormai orfano della sua guida e della sua innocenza.

Tra i milioni di cittadini che il 22 novembre 1963 vennero a sapere dell’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti assassinato a Dallas, ce n’è però una di cui tutti conoscono già la risposta a quella domanda: Jackie.

Jacqueline Lee Bouvier, com’era nota all’anagrafe prima che il suo semplice diminutivo bastasse ad identificarla, era nata nel 1929. Aveva sposato JFK nel 1953, era diventata first lady, icona di stile e sex symbol nel 1960, e fu sempre lei che in una mattinata di novembre del 1963 visse l’orrore della morte improvvisa di suo marito mentre viaggiava al suo fianco su un’auto scoperta che attraversava Dallas.

Jackie di Pablo Larraìn, presentato alla Mostra di Venezia 2016 e in uscita nei cinema italiani giovedì 23 febbraio, non vuole essere la ricostruzione di quell’enigma che fu l’assassinio del presidente – già ampiamente affrontato da Oliver Stone in JFK. Un caso ancora aperto. Né una biografia di Jackie Kennedy, né una versione romanzata della storia d’amore senza lieto fine che per qualche anno monopolizzò l’attenzione delle cronache rosa.

Nei pochi anni che li videro occupare la Casa Bianca, Kennedy e sua moglie furono il simbolo di una nuova nobiltà americana, che rimase nelle cronache con il soprannome di “Camelot”, come la corte di re Artù e della principessa Ginevra nelle epopee medievali, tanto amate da John. 

La first lady in persona aveva personalmente provveduto a restaurare la residenza e a riempirla di quadri e oggetti d’arte. Erano leggendari i balli, i concerti e le feste tenuti dai due in una versione a stelle e strisce dei banchetti reali delle casate europee del passato.

La vita di Jackie, interpretata dalla rediviva Natalie Portman, è quasi inesistente nel film prima e dopo quel tragico evento. Ciò su cui il regista e sceneggiatore hanno scelto di concentrarsi è il brevissimo scorcio della settimana successiva all’assassinio, che vide come principale avvenimento i funerali pubblici del presidente.

Un intero film basato quasi esclusivamente sul lutto di una donna, scrutata in ogni sua espressione e seguita senza sosta dalla macchina da presa per scandagliarne ogni variante del dolore, potrebbe sembrare quantomeno poco coinvolgente. Ma il lavoro fatto da Larraìn e da Portman è talmente solido da rendere avvincente quanto un thriller anche una storia che inizia quando ormai il protagonista è già defunto.

Sì, perché se è vero che oggi, a cinquant’anni di distanza, la figura di Kennedy è da tempo entrata nel mito, nessuno poteva necessariamente prevedere allora che le cose sarebbero andate così. Anche dopo il suo omicidio fu necessario assicurarsi di trasmetterne l’immagine ai posteri e far sì che la sua storia rimanesse viva. 

Nel film di Larraìn, Jackie si incarica proprio di questa missione, pur sconvolta dal dolore che la lacera, pianificando ogni dettaglio dei funerali del marito e di fornire alla stampa un mito a cui aggrapparsi per far sì che il presidente fosse ricordato nel modo più degno e regale possibile. Il tutto mentre la donna fa i conti con la sua nuova condizione di vedova e madre di due orfani.

Esemplare è la scena in cui, mentre accompagna il feretro del marito da Dallas alla Casa Bianca, chiede all’autista del carro funebre: “Lei sa come morirono i presidenti Garfield e McKinley?”. Alla sua risposta negativa, lo informa: “Furono assassinati”. Di Abraham Lincoln l’autista conosce bene l’assassinio, e quando Jackie gli chiede perché, la risposta è: “Liberò gli schiavi”.

Jackie sa che suo marito, col passare degli anni, potrebbe non avere nel suo curriculum un’eredità così positiva, e si batte in ogni modo per far sì che, dalla parata al luogo di sepoltura, tutto miri a fare di JFK un eroe della patria. Non solo un viveur figlio dell’alta società.

Natalie Portman dà corpo alla first lady con un’interpretazione straniante nella sua intensità e nella sua capacità imitativa, per i modi affettati e il tono di voce poco umano dell’originale, che, riprodotti alla perfezione, contribuiscono a dare l’idea di una donna fragile, ma acuta, complessa e imperscrutabile.

La macchina da presa la segue per le stanze della Casa Bianca come Kubrick nei corridoi dell’Overlook Hotel di Shining. Il film è un tour de force in cui, nonostante i tanti comprimari, dal cognato Bobby Kennedy al neopresidente Lyndon Johnson, ogni movimento della ormai ex first lady è coinvolto dall’abbraccio virtuosistico dei movimenti fluttuanti del regista.

Accompagnata dall’efficace e avanguardistica colonna sonora di Mica Levi, Portman cattura senza sosta l’attenzione dello spettatore. Si mostra raggiante ma apparentemente inconsistente mentre offre agli spettatori televisivi un tour della Casa Bianca in un flashback sui suoi giorni più felici. Si trasforma poi nell’intellettuale altolocata e fredda che concede un’intervista esclusiva sulla vita e la morte di suo marito per preservarne il ricordo.

“Prima di andare a dormire, John suonava spesso il disco del musical Camelot, e la canzone che amava di più era alla fine di quel disco. Una frase gli piaceva sentire: Non lasciate che venga dimenticato che è esistito un luogo che per un breve, splendente momento si è chiamato Camelot”.

Questo il trailer di Jackie, da giovedì 23 febbraio al cinema, distribuito da Lucky Red:

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