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L’italiana che ha combattuto contro l’Isis a TPI: “Ecco perché sono andata in Siria a unirmi alle Ypj”

Maria Edgarda Marcucci, detta Eddi, rischia la sorveglianza speciale insieme ad altri quattro ragazzi italiani dopo essere tornata dalla Siria

Intervista Maria Edgarda Marcucci | Ha combattuto contro l’Isis insieme alle donne curde delle Ypj, in Siria, ma per la procura di Torino è “socialmente pericolosa”. Maria Edgarda Marcucci, conosciuta col nome Eddi, rischia la sorveglianza speciale insieme ad altri quattro ragazzi italiani dopo essere rientrata in Italia al termine di nove mesi di esperienza nella regione siriana del Rojava.

In questa regione sorge la Confederazione Democratica della Siria del Nord e dell’Est, un’entità non riconosciuta a livello internazionale, ispirata agli ideali del rivoluzionario curdo di sinistra Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e attualmente prigioniero nell’isola-carcere di Imrali in Turchia.

Eddi e i suoi compagni sono in attesa di una decisione del Tribunale di Torino, che ha preso 90 giorni di tempo (a partire dal 25 marzo) per decidere sul loro caso. Ma lei, che da quando è rientrata in Italia si adopera per far conoscere meglio la situazione in Siria, è convinta che a essere sotto attacco non sia – come sostiene la procura – la capacità di usare le armi acquisita in Siria.

“Sotto accusa c’è la natura politica della mia esperienza”, dice in un’intervista telefonica a TPI.

maria edgarda marcucci
Maria Edgarda Marcucci, Eddi. Credit: Matteo Nardone
Eddi, come e quando hai iniziato a interessarti al tema dei curdi?

Il massacro di Shengal è stato decisivo per me (la città dell’Iraq nord-occidentale, nota anche come Sinjar, è stata attaccata dall’Isis ad agosto 2014, ndr).

Conoscevo la lotta del popolo curdo anche per il passaggio di Ocalan in Italia, ma devo dire che per molti anni non ho approfondito.

Quando sono arrivate le immagini dell’orrore avvenuto a Shengal ad agosto 2014 e, soprattutto, la notizia che qualcuno stava riuscendo ad arrestare questo massacro e a proteggere la popolazione mi sono cominciata a interessare.

Ho scoperto che oltre alle forze del Pkk sulle montagne irachene c’era anche una forza armata rivoluzionaria in Siria e ho conosciuto il contesto sociale per cui questa forza combatteva.

Cosa ti ha spinta a partire?

Mi hanno spinta delle domande. Volevo capire cosa comportasse questa rivoluzione anche nel quotidiano delle persone. Avevo tanti interrogativi anche sul ruolo delle donne, su cui non si trovavano tante informazioni. Insieme ad altri giovani abbiamo deciso di dare il nostro contributo per rispondere a queste domande, che non eravamo gli unici a porci.

Volevo anche portare una solidarietà concreta per la gratitudine che avevamo nei confronti della rivoluzione confederale, perché se oggi possiamo andare in giro senza il timore di un attentato dello Stato islamico è grazie a loro e a nessun altro.

Parliamo di giovani donne e uomini come noi, nulla più nulla meno, che hanno protetto anche la nostra incolumità. Questo meritava senz’altro riconoscenza e rispetto.

Nei 9 mesi che hai trascorso in Rojava hai trovato le risposte a queste domande?

Non ho la pretesa di dare una risposta definitiva. Ma senz’altro ho avuto la possibilità di vivere concretamente quella realtà e di far parte di quella rivoluzione.

Su quello che mi sembrava interessante e possibile, ovvero come creare un’alternativa a un modello di vita che non è più sostenibile né per gli esseri umani né per l’ambiente, ho sicuramente trovato delle risposte: ciò che accade lì è sicuramente una prospettiva migliore e necessaria rispetto alla distruzione in cui versiamo ora.

Cosa ti ha colpito di questo modello diverso di vita?

Sicuramente le relazioni sociali tra le persone. Siamo in una situazione di guerra da quasi 10 anni e non c’è nessuno che muoia di fame. Siamo in una zona molto violenta per la popolazione civile e soprattutto per le donne. Eppure in mezzo a tutto questo c’è una vasta area in cui il ruolo delle donne è qualcosa intorno al quale la società si organizza. Non è invisibile come nel resto del mondo ma, anzi, è ritenuto centrale nel quotidiano.

Il primo dato che si impone all’esperienza, però, è cosa possono fare le persone quando si organizzano e si mettono a lavorare per seguire un ideale. Tante cose che sembrano impossibili tutto sommato invece vengono realizzate.

Pensi che questo modello replicabile altrove?

Sì, ma penso che il suo valore sia soprattutto quello di interrogarci sulla necessità di elaborare un modello diverso da quello attuale. Può essere il confederalismo democratico o un altro, ma di certo la realtà che ci circonda, il capitalismo attuale e la continua razzia delle risorse naturali e sociali non può durare ancora molti anni.

Prima parlavi del ruolo delle donne, come ti sei trovata nel relazionarti con loro?

Ho conosciuto persone straordinarie, donne meravigliose con cui ho condiviso tantissimo, che incarnano i più alti valori di questa rivoluzione.

Ho conosciuto un mondo diverso, un’esperienza di vita come donna completamente diversa, in cui non c’è nulla che tu non possa fare organizzandoti con le altre.

Puoi farci qualche esempio?

Anche seguire un sogno, quindi ad esempio voler diventare pittrice, informatica, matematica, quindi avere un luogo, che è la Casa delle donne, dove andare a porre questo problema e sapere che nessuno lo considererà mai di second’ordine. Si farà sempre qualcosa affinché si creino le condizioni perché ciascuna realizzi nella direzione in cui vuole.

Oppure avere la possibilità, se si vive in un matrimonio violento, di sottrarmi. O di sottrarmi al matrimonio tout court. O avere la possibilità di un’autonomia emotiva ed economica, di rompere qualsiasi tipo di dipendenza nei confronti di qualcosa di esterno che non sia la collettività stessa.

Alcune di queste donne imbracciano le armi e combattono nelle Ypj, le Unità di Protezione delle Donne, come hai fatto tu. Come hai vissuto il rapporto con la violenza?

Il discorso non riguarda la violenza o la nonviolenza. È l’autodifesa. Si tratta di qualcosa di necessario, tanto che fa parte del corredo biologico di ogni essere vivente.

L’autodifesa della società è la società stessa, mentre quella della difesa armata è un’evenienza tragica determinata dalla guerra.

La società si difende attraverso la sua coesione e un livello di altruismo e solidarietà tra le persone. Questo è ciò che muove anche la forza militare. È chiaro che sono due realtà distinte a livello formale, ma non possiamo considerare quella forza armata come staccata da ciò per cui si batte.

Non è solo chi combatte – in questo caso le donne – a segnare la differenza con qualunque esercito regolare o con i miliziani l’Isis, è anche come combatte.

C’è un livello devozione nei confronti della causa e degli ideali che si portano avanti, ma anche una vicinanza reciproca: hai la consapevolezza che la compagna che hai accanto farà di tutto per arrivare all’obiettivo che è anche il tuo, cioè quello di arrivare a una società più libera e giusta, migliore per tutte e tutti, in cui il rapporto parassitario tra persone non esiste, ma c’è una cooperazione continua.

Che intendi quando dici che “l’autodifesa della società è la società stessa”?

Le Forze siriane democratiche sono la prima linea di una difesa che in questo caso assume i tratti della guerra perché l’attacco è guerreggiato, ma ciò che difende il confederalismo democratico è il confederalismo democratico stesso.

Nel momento in cui si sperimenta una forma di vita diversa, in cui ci si prende la responsabilità della propria vita e della propria comunità, che ha voce in capitolo su tutto, e bisogna trovare il modo migliore per organizzarsi, difficilmente si torna indietro, perché è una vita più giusta, migliore, più piena, che da un senso al perché siamo qui.

Ti aspettavi al tuo rientro che la Procura di Torino parlasse di “pericolosità sociale” nei tuoi confronti e nei confronti dei tuoi compagni?

Non me lo aspettavo perché ritengo sia assurdo.

Mi rendo anche conto della distanza che c’è tra quello che dice la Procura e la società. Quando dicono che siamo socialmente pericolosi perché ci siamo uniti alla lotta contro l’Isis, mi chiedo di che società stiano parlando, perché questa convinzione non incontra il senso comune di nessuno.

Sono gli stessi organi di potere che ci hanno riempito la testa di terrore, paura e xenofobia in nome della lotta all’Isis.

Non pensi che si tratti di un’allarme dovuto alla diffusione delle idee, piuttosto che all’uso delle armi?

È un dato di fatto. Non stiamo parlando di un reato di cui ci accusano di essere colpevoli e su cui noi dobbiamo provare la nostra innocenza. Tutto ciò che viene detto in aula di tribunale è basato sulla valutazione delle nostre intenzioni da parte della polizia. Non stiamo parlando di fatti, ma di evenienze che loro valutano come concrete.

Condividiamo la conoscenza tecnica dell’uso delle armi con migliaia di persone in questo paese, la caccia è uno sport. Non è questo il punto. Tanto che negli atti di indagine che hanno riportato in aula ci sono solo nostre dichiarazioni pubbliche. A essere sotto attacco è il nostro lavoro di informazione e divulgazione sulla situazione in Siria. È al di là della mia opinione il fatto che sia la natura politica di questa esperienza a essere sotto accusa, a essere ritenuta “socialmente pericolosa”.

Tu continuerai a parlare di questo tema in Italia?

Assolutamente sì. Non credo sia accettabile una situazione del genere, per nessuno, quale che sia la sua idea nei confronti di questa rivoluzione. Non è possibile pensare che per una supposizione di qualche funzionario dello Stato a noi venga notevolmente ridotta la libertà. In nome di cosa?

Alcune settimane fa la lapide di Lorenzo Orsetti, morto in Siria mentre combatteva contro l’Isis, è stata imbrattata con una svastica. Cosa pensi di questo oltraggio? Il clima politico ha influito?

Il clima politico influisce sempre. Penso sia stato un atto molto vile, compiuto nella notte. La memoria di Lorenzo non è una memoria neutra. Non è semplicemente un ragazzo che non c’è più. È un partigiano d’oggi. Sappiamo benissimo che la guerra partigiana è stata contro questa gente, quindi per loro Lorenzo Orsetti è un simbolo scomodo. Per nostra fortuna non sarà un imbrattamento a infangarne la memoria. La memoria di Lorenzo è custodita nelle lotte che portiamo avanti. Ogni volta che si fa un passo verso un mondo migliore e più libero, Lorenzo è al nostro fianco a camminare. Certi gesti non fanno altro che ribadire l’importanza della sua memoria e del compito che ci ha lasciato.

Cosa pensi della situazione attuale dei curdi in Siria?

Ci sono migliaia di ex membri dello Stato islamico che dovrebbero essere giudicati da un tribunale internazionale, come fu fatto per i Balcani o per il Ruanda. Non si può pensare che una questione di portata globale e storica come l’ascesa dello Stato islamico sia lasciata sulle spalle di un soggetto come la confederazione democratica della Siria del nord e dell’est, che non viene neanche riconosciuto politicamente. Ai tavoli diplomatici sulla Siria non viene neanche invitato.

Un’altra questione fondamentale è levare qualsiasi forma di appoggio politico ed economico a Erdogan e alla Turchia, che continua a minacciare la confederazione democratica.

Bisogna dare un riconoscimento politico a questo soggetto, perché è l’unico che in uno scenario tragico ha fatto qualcosa di positivo per il popolo siriano. Assad stesso recentemente ha dichiarato che ha intenzione di riprendersi il controllo dei territori usciti dal suo controllo a qualsiasi costo. Lui, come gli altri soggetti statali, non hanno minimamente a cuore il destino del popolo siriano. Sono disposti a condannarli ad altri decenni di guerra pur di mantenere uno scampolo di potere. Tutto ciò è inaccettabile, non è qualcosa che si può tollerare, a maggior ragione nei confronti di un’alternativa che ha già corpo, ci vuole veramente poco a dare spazio per vivere e a garantire un’opzione decente a chiunque viva da quelle parti o a chi ne è scappato.

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